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Discussione: Jean Thiriart

  1. #1
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    O Hitler a Mosca, o Stalin a Lisbona! Fuori gli yankee!!
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    Predefinito Jean Thiriart



    Parliamone...

  2. #2
    Adoro i piani ben riusciti!!
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    zi zi parliamo anche di questo ...

  3. #3
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    RILETTURA DE "LA GRANDE NAZIONE" DI JEAN THIRIART
    di Adriano Scianca

    da ORION 236, maggio 2004

    La cultura non conformista europea posteriore al 1945 presenta poche figure veramente fondamentali. Una di queste è sicuramente Jean Thiriart. Padre nobile dell’europeismo nazionalrivoluzionario, Thiriart ha contribuito in modo essenziale a formulare i temi centrali della nostra visione del mondo: si pensi solo al mito dell’Europa unita, alleata dei popoli del Terzo Mondo e nemica irriducibile degli USA, o alla definizione del concetto di “mondialismo”, termine di cui l’ideologo belga è stato probabilmente anche l’inventore. Rileggere Thiriart oggi, nel 2004, mentre l’anaconda statunitense accerchia l’Eurasia e sempre più forti si odono i canti ingannatori delle sirene dello “scontro di civiltà”, è quasi un dovere. Per riscoprire le nostre migliori radici, per gettare uno sguardo rivoluzionario sul presente e sul futuro, per tornare ad essere, nietzscheanamente, dei “buoni Europei”.

    L’Europa unita: una necessità.

    La Grande Nazione è un testo che risale ai primi anni ’60. All’inizio degli anni ’90 è stato saggiamente e doverosamente ristampato dalle edizioni Barbarossa in occasione della scomparsa dell’autore, avvenuta il 23 novembre 1992 per una crisi cardiaca. Insieme a Un Impero di 400 Milioni di Uomini: l’Europa (di cui pare che le Edizioni Controcorrente stiano preparando una nuova edizione), il testo in questione è forse una delle opere più famose del pensatore belga. In 65 tesi agili e scorrevoli, Thiriart traccia un vero e proprio programma politico, attingendo contemporaneamente tanto alla concretezza pragmatica quanto all’immaginazione visionaria. Il punto di partenza della trattazione thiriartiana è la constatazione dell’ineluttabilità della dimensione continentale: già al primo punto si dichiara che “non esiste più, attualmente, né indipendenza effettiva, né progresso possibile, al di fuori dei grandi complessi politici organizzati su scala continentale. […] Oggi la dimensione europea è il minimo indispensabile per l’indipendenza”. Contro i veteronazionalismi sciovinisti e fratricidi, gli Europei debbono cominciare a pensare in grande: “rifarsi ad un piccolo e antiquato nazionalismo non vitale è una forma di sentimentalismo suicida. Vogliamo un nazionalismo all’altezza del nostro tempo, vogliamo un nazionalismo valido, vogliamo un nazionalismo vitale: il nazionalismo europeo”. Questo tipo di nazionalismo si basa su un’identità di destino voluta per un grande disegno comune, si fonda su un progetto per l’avvenire.
    Del resto “un’Europa senza nazionalismo è […] impossibile. È una concezione astratta, tipica della sinistra ‘rammollita’, contraddittoria nei termini. Cos’è una nazione senza sentimento nazionale?”. L’ideale nazionalista grandeuropeo si invererà storicamente ad opera di un partito rivoluzionario. La liberazione e l’unificazione del continente saranno opera di una struttura rigorosamente centralizzata e gerarchizzata di tipo leninista, all’interno della quale “i migliori Europei viv[ranno] l’Europa prima della nascita dello Stato europeo”.

    Unita, armata, indipendente.

    Che forma dovrà avere l’Europa del futuro? Va detto che Thiriart è sempre stato estraneo ad ogni logica “organicista” e questo ha segnato un suo limite ideologico piuttosto pesante; la sua idea di Nazione Europea non può assumere connotazioni regionaliste, federaliste o propriamente imperiali (benché Thiriart stesso usi a volte il termine “impero”). Qui il pensatore belga è chiarissimo: l’Europa delle patrie, l’Europa federalista potrà esser utile solo per una fase transitoria. La vera Europa del futuro dovrà essere unitaria. Nel passaggio dallo stato-nazione all’organizzazione su scala continentale non c’è un passaggio qualitativo - come invece ha intuito De Benoist approfondendo l’essenza specifica della forma imperiale – ma solo ampliamento quantitativo: l’Europa Nazione sarà uno stato più grande, non qualcosa d’altro rispetto ai vecchi piccoli stati. Unitaria ed indivisibile, la “Grande Nazione” dovrà essere necessariamente armata: gli Europei devono dotarsi di propri arsenali atomici come unica vera garanzia di indipendenza e per garantire l’equilibrio mondiale. Thiriart prevede pure la necessità della moneta unica europea, punto di passaggio obbligato sulla via dell’indipendenza: “la fine del protettorato americano passa per la soppressione della tutela del dollaro e la creazione di una moneta non straniera, europea, basata sulla nostra prodigiosa potenza economica”.

    Contro gli imperialismi anti-europei.

    Le parti più datate de La Grande Nazione risultano essere quelle più direttamente focalizzate sulla situazione geopolitica della “guerra fredda”: l’epoca in cui Thiriart scrive è infatti quella del Muro di Berlino e della divisione del vecchio continente in due blocchi contrapposti. Tuttavia, a qualche decennio di distanza da quelle riflessioni, possiamo oggi rileggere in tutta la loro saggezza e lungimiranza le prese di posizione thiriartiane e magari confrontarle con quelle di chi, all’epoca, si rifugiava sotto la sottana degli occupanti americani contro gli occupanti russi o viceversa. L’idea fondamentale di Thiriart è che appoggiarsi ad un occupante per combatterne un altro è una presa di posizione suicida: “chi vuole la partenza dei russi deve volere anche quella degli americani, e viceversa”. La stessa critica dell’URSS viene comunque formulata nella consapevolezza che “in un tempo più lontano la frontiera dell’Europa passerà indubbiamente per Vladivostok”. Quanto all’America, mai Thiriart ha subito quella tentazione occidentalista che troppo spesso ha contagiato diversi esponenti del neofascismo europeo: per il fondatore di Jeune Europe, la NATO è una forza di occupazione di cui occorre sbarazzarsi al più presto. La civilizzazione americanomorfa è un’idea totalmente priva di risorse vitali: “domani nessuno vorrà morire per la plutocrazia”.

    Destra, sinistra e oltre.

    Quanto agli ordinamenti politici interni, Thiriart si dichiara favorevole ad una democrazia post-liberale, non parlamentare e quindi non plutocratica. Occorre una democrazia europea nazionale: “la nostra democrazia sarà diretta, gerarchica, viva e affonderà le sue radici in tutta la Nazione”. Le sue regole saranno competenza e responsabilità. Posizioni di destra o di sinistra? Da uomo intelligente, Thiriart fuggiva simili categorie. Fedele al pensiero di Ortega y Gasset, che vedeva nella destra e nella sinistra due forme di semiparalisi mentale, egli rifiutava le definizioni borghesi per porsi piuttosto come l’avanguardia del Centro (che, ça va sans dire, in questa accezione nulla ha a che fare con la palude democristiana o giolittiana…). La vera distinzione politica fondamentale è oggi quella che distingue i partiti dello straniero dal partito degli Europei. I collaborazionisti sono innanzitutto dei traditori così come gli europeisti sono innanzitutto dei patrioti, a prescindere dalla collocazione politica degli uni o degli altri.

    L’economia di potenza.

    Autarchia, indipendenza, potenza, dignità sociale: questi i valori di base della concezione economica thiriartiana. Contro i disastri dell’economia utopistica (marxista) e dell’economia di profitto (capitalista) bisogna ricorrere all’economia di potenza che mira al massimo sviluppo del potenziale nazionale e cerca di mantenere autarchica l’economia nazionale, almeno per quel che riguarda i settori strategici. L’idea di fondo è che più un paese è potente ed indipendente, più i suoi cittadini sono liberi. D’altra parte, però, senza accesso alle materie prime non c’è indipendenza economica, e senza indipendenza economica non c’è socialismo. La costruzione del socialismo necessita di un’autarchia continentale europea: “esistono, per la pianificazione come per l’autarchia, un valore ed un volume critico, al di sotto dei quali il tentativo è destinato al fallimento. […] Una piccola nazione non può scegliere liberamente il suo tipo di vita economica e sociale; essa deve tener conto di diverse interferenze straniere. Dal che risulta che più una nazione è piccola e più è sottoposta alle influenze straniere. […] Nessun tentativo di socialismo comunitario è vitale al di sotto della dimensione europea”. Né può aver senso un socialismo internazionalista, cosmopolita, mondialista: “La nazione è l’involucro ed il socialismo il suo contenuto”. Il socialismo senza la nazione è un’astrazione che non può portare lontano.

    Il comunitarismo

    Il comunitarismo è quindi un socialismo laicizzato, staccato dalle utopie, sbarazzato dei dogmi. In concreto: “un massimo di proprietà privata nei limiti seguenti: non sfruttamento del lavoro altrui; non ingerenza nella politica per ipertrofia di potenza economica; non collaborazione con interessi estranei all’Europa e a loro profitto”. Ciò che conta è il dominio della politica sull’economia. Per questo solo la grande proprietà che può mettere in pericolo la sovranità politica va eliminata, mentre la piccola proprietà va garantita. Fondamentale, poi, è il diritto alla proprietà della casa per garantire ad ognuno il proprio radicamento nella società. La politica deve dirigere l’economia tenendo conto dell’organizzazione specifica delle imprese (cioè del tipo di produzione: fabbricare ombrelli non è la stessa cosa che produrre alta tecnologia) e della loro regolamentazione dimensionale (cioè del volume dell’impresa: una fabbrica con 50 dipendenti è differente da una che ne ha 50.000). Solo le industrie di straordinaria grandezza o di importanza vitale devono essere nazionalizzate, mentre la piccola impresa può benissimo essere privata. Entro questi limiti ed a queste condizioni, Thiriart vede un fattore positivo persino in alcuni aspetti dell’economia di mercato: la libera impresa e la competizione, ad esempio, generano selezione ed assunzione di responsabilità. Non sono quindi un male in sé. “La missione comunitaria consiste nel controllare che [la] produttività massima sia garantita con una giustizia sociale vigilante”. È solo all’interno di un tale socialismo comunitarista che potrà avvenire la reale liberazione del lavoratore. I proletari verranno trasformati in lavoratori ed i lavoratori in produttori: “la soppressione del proletariato si realizzerà tramite la liberazione dei lavoratori. […] Noi renderemo ai lavoratori le loro responsabilità e la loro dignità. Sopprimeremo le classi sociali, dando il posto d’onore al lavoro dell’uomo, unico criterio di valore. La nostra gerarchia sarà basata essenzialmente sul lavoro. Noi vogliamo una comunità dinamica tramite la collaborazione nel lavoro di tutti i cittadini”. Allo stesso tempo vanno combattuti i nullafacenti e gli sfruttatori, con tanto di obbligo del lavoro per stanare i parassiti.

    Contro la falsa Europa.

    Questa, solo questa è la vera Europa. Thiriart lo sapeva: peggio dei nemici dell’Europa sono solo i suoi falsi amici. “L’evidenza dell’Europa è tale che i suoi stessi occupanti sono costretti ad usare un linguaggio europeo. Esistono una moltitudine di organismi, di comitati, di circoli ‘europei’. L’Europa è di moda e serve da spunto a molti dilettanti ed intellettuali. Da quest’Europa delle chiacchiere, da quest’Europa dei banchetti, non uscirà mai fuori un’Europa di sangue e di spirito. Quest’ultima si farà quando la fede nell’Europa nazione sarà penetrata nelle masse e avrà entusiasmato la gioventù, cioè quando ci sarà una mistica europea, un patriottismo europeo. La vera Europa non verrà realizzata dai giuristi o dai comitati: sarà opera dei combattenti che hanno la fede, dei rivoluzionari”. Aveva già capito tutto.

  4. #4
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    Claudio Mutti
    Jean Thiriart: L'Impero che verrà
    Da: C. Mutti, Imperium. Epifanie dell'idea di impero, Effepi, Genova 2005

    L'ultimo ricordo che ho di Jean Thiriart è una lettera che mi scrisse alcuni mesi prima di morire: mi chiedeva di indicargli una località isolata sugli Appennini, dove potersi accampare un paio di settimane per fare qualche escursione sui monti. Quasi settantenne, era ancora pieno di vitalità: non si lanciava più col paracadute, però navigava con la barca a vela sul Mare del Nord.

    Negli anni Sessanta, in qualità di giovanissimo militante della Giovane Europa, l'organizzazione da lui diretta, ebbi modo di vederlo diverse volte. Lo conobbi a Parma, nel 1964, accanto a un monumento che colpì in maniera particolare la sua sensibilità di "eurafricano": quello di Vittorio Bottego, l'esploratore del corso del Giuba. Poi lo incontrai in occasione di alcune riunioni della Giovane Europa e in un campeggio sulle Alpi. Nel 1967, alla vigilia dell'aggressione sionista contro l'Egitto e la Siria, fui presente a un'affollata conferenza che egli tenne in una sala di Bologna, dove spiegò perché l'Europa doveva schierarsi a fianco del mondo arabo e contro l'entità sionista. Nel 1968, a Ferrara, partecipai a un convegno di dirigenti della Giovane Europa, nel corso del quale Thiriart sviluppò a tutto campo la linea antimperialista: "Qui in Europa, la sola leva antiamericana è e resterà un nazionalismo europeo 'di sinistra' (…) Quello che voglio dire è che all'Europa sarà necessario un nazionalismo di carattere popolare (…) Un nazionalcomunismo europeo avrebbe sollevato un'ondata enorme di entusiasmo. (…) Guevara ha detto che sono necessari molti Vietnam; e aveva ragione. Bisogna trasformare la Palestina in un nuovo Vietnam". Fu l'ultimo suo discorso che ebbi modo di ascoltare.

    Jean-François Thiriart era nato a Bruxelles il 22 marzo 1922 da una famiglia di cultura liberale originaria di Liegi. In gioventù militò attivamente nella Jeune Garde Socialiste Unifiée e nell'Union Socialiste Anti-Fasciste. Per un certo periodo collaborò col professor Kessamier, presidente della società filosofica Fichte Bund, una filiazione del movimento nazionalbolscevico amburghese; poi, assieme ad altri elementi dell'estrema sinistra favorevoli ad un'alleanza del Belgio col Reich nazionalsocialista, aderì all'associazione degli Amis du Grand Reich Allemand. Per questa scelta, nel 1943 fu condannato a morte dai collaboratori belgi degli Angloamericani: la radio inglese inserì il suo nome nella lista di proscrizione che venne comunicata ai résistants con le istruzioni per l'uso. Dopo la "Liberazione", nei suoi confronti fu applicato un articolo del Codice Penale belga opportunamente rielaborato a Londra nel 1942 dalle marionette belghe degli Atlantici. Trascorse alcuni anni in carcere e, quando uscì, il giudice lo privò del diritto di scrivere.

    Nel 1960, all'epoca della decolonizzazione del Congo, Thiriart partecipa alla fondazione del Comité d'Action et de Défense des Belges d'Afrique, che di lì a poco diventa il Mouvement d'Action Civique. In veste di rappresentante di questo organismo, il 4 marzo 1962 Thiriart incontra a Venezia gli esponenti di altri gruppi politici europei; ne esce una dichiarazione comune, in cui i presenti si impegnano a dar vita a "un Partito Nazionale Europeo, centrato sull'idea dell'unità europea, che non accetti la satellizzazione dell'Europa occidentale da parte degli USA e non rinunci alla riunificazione dei territori dell'Est, dalla Polonia alla Bulgaria passando per l'Ungheria". Ma il progetto del Partito europeo abortisce ben presto, a causa delle tendenze piccolo-nazionaliste dei firmatari italiani e tedeschi del Manifesto di Venezia.

    La lezione che Thiriart trae da questo fallimento è che il Partito europeo non può nascere da un'alleanza di gruppi e movimenti piccolo-nazionali, ma deve essere fin da principio un'organizzazione unitaria su scala europea. Nasce così, nel gennaio 1963, la Giovane Europa (Jeune Europe), un movimento fortemente strutturato che ben presto si impianta in Belgio, Olanda, Francia, Svizzera, Austria, Germania, Italia, Spagna, Portogallo, Inghilterra. Il programma della Giovane Europa si trova esposto nel Manifesto alla Nazione Europea, che esordisce così: "Tra il blocco sovietico e il blocco degli USA, il nostro compito è di edificare una grande Patria: l'Europa unita, potente, comunitaria (…) da Brest sino a Bucarest". La scelta è a favore di un'Europa decisamente unitaria: "Europa federale o Europa delle Patrie sono delle concezioni che nascondono la mancanza di sincerità e la senilità di coloro che le difendono (…) Noi condanniamo i piccoli nazionalismi che mantengono le divisioni tra i cittadini della NAZIONE EUROPEA". L'Europa deve optare per una neutralità forte e armata e disporre di una forza atomica propria; deve "ritirarsi dal circo dell'ONU" e sostenere l'America Latina, che "lotta per la sua unità e per la sua indipendenza". Il Manifesto abbozza un'alternativa ai sistemi sociali vigenti nelle due Europe, proclamando la "superiorità del lavoratore sul capitalista" e la "superiorità dell'uomo sul formicaio": "Noi vogliamo una comunità dinamica con la partecipazione nel lavoro di tutti gli uomini che la compongono". Alla democrazia parlamentare e alla partitocrazia viene contrapposto una rappresentanza organica: "un Senato politico, il Senato della Nazione Europea basato sulle province europee e composto delle più alte personalità nel campo della scienza, del lavoro, delle arti e delle lettere; una Camera sindacale che rappresenti gli interessi di tutti i produttori dell'Europa liberata dalla tirannia finanziaria e politica straniera". Il Manifesto conclude così: "Noi rifiutiamo l'Europa teorica. Noi rifiutiamo l'Europa legale. Noi condanniamo l'Europa di Strasburgo per crimine di tradimento. (…) O vi sarà una NAZIONE o non vi sarà indipendenza. A questa Europa legale che rifiutiamo, noi opponiamo l'Europa legittima, l'Europa dei popoli, la nostra Europa. NOI SIAMO LA NAZIONE EUROPEA".

    Accanto a una scuola per la formazione politica dei militanti (che dal 1966 al 1968 pubblica mensilmente "L'Europe Communautaire"), la Giovane Europa cerca di dar vita a un Sindacato Comunitario Europeo e, nel 1967, a un'associazione universitaria, Università Europea, che sarà attiva particolarmente in Italia. Dal 1963 al 1966 viene pubblicato un organo di stampa in lingua francese, "Jeune Europe" (con frequenza prima settimanale, poi quindicinale); tra i giornali in altre lingue va citato l'italiano "Europa Combattente", che nel medesimo periodo riesce a raggiungere una frequenza mensile. Dal 1966 al 1968 esce "La Nation Européenne", mentre in Italia "La Nazione Europea" continuerà ad uscire, a cura dell'autore di queste righe, anche nel 1969 (un ultimo numero sarà pubblicato a Napoli nel 1970 da Pino Balzano).

    "La Nation Européenne", mensile di grande formato che in certi numeri raggiunge la cinquantina di pagine, oltre ai redattori militanti annovera collaboratori di un certo rilievo culturale e politico: il politologo Christian Perroux, il saggista algerino Malek Bennabi, il deputato delle Alpi Marittime Francis Palmero, l'ambasciatore siriano Selim el-Yafi, l'ambasciatore iracheno Nather el-Omari, , i dirigenti del FLN algerino Chérif Belkacem, Si Larbi e Djamil Mendimred, il presidente dell'OLP Ahmed Choukeiri, il capo della missione vietcong ad Algeri Tran Hoai Nam, il capo delle Pantere Nere Stokeley Carmichael, , il fondatore dei Centri d'Azione Agraria principe Sforza Ruspali, i letterati Pierre Gripari e Anne-Marie Cabrini. Tra i corrispondenti permanenti, il professor Souad el-Charkawi (al Cairo) e Gilles Munier (ad Algeri).

    Sul numero di febbraio del 1969 appare una lunga intervista rilasciata a Jean Thiriart dal generale Peròn, il quale dichiara di leggere regolarmente "La Nation Européenne" e di condividerne totalmente le idee. Dal suo esilio madrileno, l'ex presidente argentino riconosce in Castro e in Guevara i continuatori della lotta per l'indipendenza latinoamericana intrapresa a suo tempo dal movimento giustizialista: "Castro - dice Peròn - è un promotore della liberazione. Egli si è dovuto appoggiare ad un imperialismo perché la vicinanza dell'altro imperialismo minacciava di schiacciarlo. Ma l'obiettivo dei Cubani è la liberazione dei popoli dell'America Latina. Essi non hanno altra intenzione se non quella di costituire una testa di ponte per la liberazione dei paesi continentali. Che Guevara è un simbolo di questa liberazione. Egli è stato grande perché ha servito una grande causa, finché ha finito per incarnarla. È l'uomo di un ideale".

    Per quanto riguarda la liberazione dell'Europa, Thiriart pensa a costituire delle Brigate Rivoluzionarie Europee che intraprendano la lotta armata contro l'occupante statunitense. Già nel 1966 egli ha avuto un colloquio col ministro degli Esteri cinese Chu En-lai, a Bucarest, e gli ha chiesto di appoggiare la costituzione di un apparato politico-militare europeo che combatta contro il nemico comune (1). Nel 1967 l'attenzione di Thiriart si dirige sull'Algeria: "Si può, si deve prendere in considerazione un'azione parallela e auspicare la formazione militare, in Algeria, fin da ora, di una sorta di Reichswehr rivoluzionaria europea. Gli attuali governi di Belgio, Paesi Bassi, Inghilterra, Germania, Italia sono in diversa misura i satelliti, i valletti di Washington; perciò noi nazionaleuropei, noi rivoluzionari europei, dobbiamo andare a formare in Africa i quadri di una futura forza politico-militare che, dopo aver servito nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente, un giorno potrà battersi in Europa per farla finita coi Kollabos di Washington. Delenda est Carthago" (2). Nell'autunno del 1967 Gérard Bordes, direttore de "La Nation Européenne", si reca in Algeria, dove entra in contatto con la Segreteria Esecutiva del FLN e col Consiglio della Rivoluzione. Nell'aprile del 1968 Bordes ritorna ad Algeri con un Mémorandum à l'intention du gouvernement de la République Algérienne firmato da lui stesso e da Thiriart, nel quale sono contenute le proposte seguenti: "Contributo europeo alla formazione di specialisti in vista della lotta contro Israele; preparazione tecnica della futura azione diretta contro gli Americani in Europa; creazione di un servizio d'informazioni antiamericano e antisionista in vista di un'utilizzazione simultanea nei paesi arabi e in Europa".

    Siccome i contatti con l'Algeria non hanno nessun seguito, Thiriart si rivolge ai paesi arabi del Vicino Oriente. D'altronde, il 3 giugno 1968 un militante di Jeune Europe, Roger Coudroy, è caduto con le armi in pugno sotto il fuoco sionista, mentre con un gruppo di al-Fatah cercava di penetrare nella Palestina occupata.

    Nell'autunno del 1968 Thiriart viene invitato dai governi di Bagdad e del Cairo, nonché dal Partito Ba'ath, a recarsi nel Vicino Oriente. In Egitto assiste ai lavori d'apertura del congresso dell'Unione Socialista Araba, il partito egiziano di governo; viene ricevuto da alcuni ministri e ha modo di incontrare lo stesso Presidente Nasser. In Iraq incontra diverse personalità politiche, tra cui alcuni dirigenti dell'OLP, e rilascia interviste a organi di stampa e radiotelevisivi. Ma lo scopo principale del viaggio di Thiriart consiste nell'instaurare una collaborazione che dia luogo alla creazione delle Brigate Europee, le quali dovrebbero partecipare alla lotta per la liberazione della Palestina e diventare così il nucleo di un'Armata di Liberazione Europea. Davanti al rifiuto del governo iracheno, determinato da pressioni sovietiche, questo scopo fallisce. Scoraggiato da questo fallimento e ormai privo di mezzi economici sufficienti a sostenere una lotta politica di un certo livello, Thiriart decide di ritirarsi dalla politica militante.

    Dal 1969 al 1981, Thiriart si dedica esclusivamente all'attività professionale e sindacale nel settore dell'optometria, nel quale ricopre importanti funzioni: è presidente della Société d'Optométrie d'Europe, dell'Union Nationale des Optométristes et Opticiens de Belgique, del Centre d'Études des Sciences Optiques Appliquées ed è consigliere di varie commissioni della CEE. Ciononostante, nel 1975 rilascia una lunga intervista a Michel Schneider per "Les Cahiers du Centre de Documentation Politique Universitaire" di Aix-en-Provence ed assiste Yannick Sauveur nella compilazione di una tesi universitaria intitolata Jean Thiriart et le national-communautarisme européen (Università di Parigi, 1978). Quella di Sauveur è la seconda ricerca universitaria dedicata all'attività politica di Thiriart, poiché sei anni prima era stata presentata all'Università Libera di Bruxelles una tesi di Jean Beelen su Le Mouvement d'Action Civique.

    Nel 1981, un attentato di teppisti sionisti contro il suo ufficio di Bruxelles induce Thiriart a riprendere l'attività politica. Riallaccia i contatti con un ex redattore della "Nation Européenne", lo storico spagnolo Bernardo Gil Mugarza (3), il quale, nel corso di una lunga intervista (centootto domande), gli dà modo di aggiornare e di approfondire il suo pensiero politico. Prende forma in tal modo un libro che Thiriart conta di pubblicare in spagnolo e in tedesco, ma che è rimasto finora inedito.

    All'inizio degli anni Ottanta, Thiriart lavora a un libro che non ha mai visto la luce: L'Empire euro-soviétique de Vladivostok à Dublin. Il piano dell'opera prevede quindici capitoli, ciascuno dei quali si articola in numerosi paragrafi. Come appare evidente dal titolo di quest'opera, la posizione di Thiriart nei confronti dell'Unione Sovietica è notevolmente cambiata. Abbandonata la vecchia parola d'ordine "Né Mosca né Washington", Thiriart assume ora una posizione che potrebbe essere riassunta così: "Con Mosca contro Washington". Già tredici anni prima, d'altronde, in un articolo intitolato Prague, l'URSS et l'Europe ("La Nation Européenne", n. 29, novembre 1968), denunciando gli intrighi sionisti nella cosiddetta "primavera di Praga", Thiriart aveva espresso una certa soddisfazione per l'intervento sovietico e aveva cominciato a delineare una "strategia dell'attenzione" nei confronti dell'URSS. "Un'Europa occidentale NON AMERICANA - aveva scritto - permetterebbe all'Unione Sovietica di svolgere un ruolo quasi antagonista degli USA. Un'Europa occidentale alleata, o un'Europa occidentale AGGREGATA all'URSS sarebbe la fine dell'imperialismo americano (…) Se i Russi vogliono staccare gli Europei dall'America - e a lungo termine essi devono necessariamente lavorare per questo scopo - bisogna che ci offrano, in cambio della SCHIAVITU' DORATA americana, la possibilità di costruire un'entità politica europea. Se la temono, il modo migliore di scongiurarla consiste nell'integrarvisi".

    A Mosca, Thiriart ci va nell'agosto 1992 assieme a Michel Schneider, direttore della rivista "Nationalisme et République". A fare gli onori di casa è Aleksandr Dugin, il quale nel marzo dello stesso anno ha accolto Alain de Benoist e Robert Steuckers e in giugno ha intervistato alla TV di Mosca l'autore di queste righe, dopo averlo presentato agli esponenti dell'opposizione "rosso-bruna". L'attività di Thiriart a Mosca, dove si trovano anche Carlo Terracciano e Marco Battarra, delegati del Fronte Europeo di Liberazione, è intensissima. Tiene conferenze stampa; rilascia interviste; partecipa a una tavola rotonda con Prokhanov, Ligacev, Dugin e Sultanov nella redazione del giornale "Den'", che pubblicherà sul n. 34 (62) un testo di Thiriart intitolato L'Europa fino a Vladivostok; ha un incontro con Gennadij Zjuganov; si intrattiene con altri esponenti dell'opposizione "rosso-bruna", tra cui Nikolaj Pavlov e Sergej Baburin; discute con il filosofo e dirigente del Partito della Rinascita Islamica Gejdar Dzemal; partecipa a una manifestazione di studenti arabi per le vie di Mosca.

    Il 23 novembre, tre mesi dopo il suo rientro in Belgio, Thiriart è stroncato da una crisi cardiaca.

    Apparso nel 1964 in lingua francese, nel giro di due anni Un Empire de 400 millions d'hommes: l'Europe vide la luce in altre sei lingue europee. La traduzione italiana venne eseguita da Massimo Costanzo, (all'epoca redattore di "Europa Combattente", organo italofono della Giovane Europa), il quale presentò l'opera con queste parole: "Il libro di Jean Thiriart è destinato a suscitare, per la sua profondità e per la sua chiarezza, un forte interesse. Ma da dove deriva questa chiarezza? Da un fatto molto semplice: l'autore ha usato un linguaggio essenzialmente politico, lontano dai fumi dell'ideologia e dalle costruzioni astratte o pseudometafisiche. Dopo una lettura attenta, nel libro si possono anche trovare impostazioni ideologiche, ma queste traspaiono dalle tesi politiche e non il contrario, come fino ad oggi è avvenuto nel campo nazionaleuropeo". Nonostante le riserve che alcune "impostazioni ideologiche" dell'Autore (eurocentrismo, razionalismo, giacobinismo ecc.) potranno suscitare, il lettore di questa seconda edizione italiana probabilmente concorderà con quanto scriveva Massimo Costanzo quarant'anni or sono; anzi, si renderà conto che questo libro, senza dubbio il più famoso dei testi redatti da Thiriart (4), è un libro preveggente ed attuale, per quanto inevitabilmente risenta della situazione storica in cui venne concepito. Preveggente, perché anticipa il crollo del sistema sovietico, e questo una decina d'anni prima dell'"eurocomunismo"; attuale, perché la descrizione dell'egemonia statunitense in Europa è ancor oggi un dato reale; anzi, l'analisi thiriartiana dell'imperialismo si avvale della lettura di un autore come James Burnham, che già negli anni Sessanta candidava gli USA al dominio mondiale assoluto.

    Nella mia biblioteca conservo un esemplare della prima edizione di questo libro ("édité à Bruxelles, par Jean Thiriart, en Mai 1964"). La dedica che l'Autore vi scrisse di suo pugno contiene un'esortazione di cui vorrei si appropriassero i lettori delle nuove generazioni, questa: "Votre jeunesse est belle. Elle a devant elle un Empire à bâtir". Diversamente da Luttwak e da Toni Negri, Thiriart sapeva bene che l'Impero è l'esatto contrario dell'imperialismo e che gli Stati Uniti non sono Roma, bensì Cartagine.


    Claudio Mutti


    (1) Nel 1985 Thiriart rievocò l'episodio nei termini seguenti. "Nella sua fase iniziale, il mio incontro con Chou En-lai non fu che uno scambio di aneddoti e ricordi. Chou En-lai si interessò ai miei studi sulla scrittura cinese ed io al suo soggiorno in Francia che per lui rappresentava un gradevole ricordo giovanile. La conversazione si orientò poi sul tema degli eserciti popolari - tema caro tanto a lui quanto a me. Le cose si guastarono quando progressivamente si arrivò al concreto. Dovetti subire allora un vero e proprio corso di catechismo marxista-leninista. Chou stese poi l'inventario dei vari errori psicologici commessi dall'Unione Sovietica. E la lezione si spostò sulle nozioni di 'alleanza gerarchica' e 'alleanza egualitaria'. Per distendere l'ambiente, affrontai il tema dei disordini che avevo organizzato a Vienna nel 1961, durante l'incontro Krusciov-Kennedy. Ma il tentativo di fargli accettare il concetto della lotta globale quadricontinentale di tutte le forze anti-americane nel mondo, quali che siano i loro orientamenti ideologici, fallì. Attirai a tal scopo la sua attenzione sul fatto che era anche l'opinione del generale Peròn, un amico di lunga data. Si inalberò un po' quando gli feci notare che in Argentina Peròn - sul piano psicologico - era una forza incommensurabilmente più forte che il comunismo. Io sono un uomo pragmatico. Gli domandai dunque dei mezzi - del denaro per sviluppare la nostra stampa ed un santuario per la nostra organizzazione - per la preparazione e la strutturazione di un apparato politico-militare rivoluzionario europeo. Mi rinviò ai suoi servizi. Il solo risultato fu, alla fine dell'incontro, un eccellente pranzo, consumato in un clima molto disteso. Ricomparvero allora gli ufficiali rumeni, che non avevano assistito agli incontri politici. In seguito, non riuscii ad ottenere nulla dai servizi cinesi, la cui incomprensione dell'Europa era totale sia sul piano psicologico che su quello politico" (Da Jeune Europe alle Brigate Rosse. Antiamericanismo e logica dell'impegno rivoluzionario, Società Editrice Barbarossa, Milano 1992, pp. 24-25).
    (2) J. Thiriart, USA: un empire de mercantis, "La Nation Européenne", 21, ottobre 1967, p. 7.
    (3) Autore di España en llamas 1936, Acervo, Barcelona 1968.
    (4) Oltre a questo libro, Thiriart pubblicò anche La Grande Nation. 65 thèses sur l'Europe, Bruxelles 1965 (ed. it. La Grande Nazione. 65 tesi sull'Europa, Milano s. d.; 2° ed. italiana Società Editrice Barbarossa, Milano 1993; ed. tedesca Das Vierte Reich: Europa, Bruxelles 1966). Nel 1967 Thiriart progettò un libro intitolato Libération et unification de l'Europe. L'incarico di redigere gli ottocento paragrafi di questa opera venne assegnato a un collettivo composto di redattori della "Nation Européenne".

  5. #5
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    Un buon teorico dell'anti-americanismo e un sincero europeista.
    Forse ci si è dimenticati un pò troppo in fretta di questo personaggio. Se non mi sbaglio Thiriart era quello che voleva creare delle brigate per la liberazione europea, da stanziare nei paesi arabi e poi scatenare sul continente per liberarci dagli americani.

  6. #6
    Adoro i piani ben riusciti!!
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    Citazione Originariamente Scritto da Imperium Visualizza Messaggio
    Un buon teorico dell'anti-americanismo e un sincero europeista.
    Forse ci si è dimenticati un pò troppo in fretta di questo personaggio. Se non mi sbaglio Thiriart era quello che voleva creare delle brigate per la liberazione europea, da stanziare nei paesi arabi e poi scatenare sul continente per liberarci dagli americani.

    Progetto mai realizzato anche per l'ostilità dei servizi di sicurezza di diverse nazioni. Da rileggere l'intera collezione di "Jeune Europe" periodico dell'organizzazione rivoluzionaria trasversale fondata da Thiriart negli anni sessanta dalla cui sezione italiana passò anche il futuro capo delle Brigate Rosse , Renato Curcio (esiste un testo delle ediz. Barbarossa....il titolo a 'memoria' non ricordo ma c'entra l'antiamericanismo...)

  7. #7
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    Progetto mai realizzato anche per l'ostilità dei servizi di sicurezza di diverse nazioni. Da rileggere l'intera collezione di "Jeune Europe" periodico dell'organizzazione rivoluzionaria trasversale fondata da Thiriart negli anni sessanta dalla cui sezione italiana passò anche il futuro capo delle Brigate Rosse , Renato Curcio (esiste un testo delle ediz. Barbarossa....il titolo a 'memoria' non ricordo ma c'entra l'antiamericanismo...)
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  8. #8
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  9. #9
    Boh..
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    Jean Thiriart e Julius Evola: una conciliazione possibile?
    di Francesco Boco

    Già in Jean Thiriart: l’Europa come rivoluzione abbiamo affrontato la teoria geopolitica di Thiriart riassumibile nella formula “Europa unita da Dublino a Vladivostok”, tuttavia non abbiamo accennato ad un argomento che oggi si impone necessariamente alla nostra attenzione.

    La dottrina geopolitica grand-europea o se preferiamo eurasiatica risulta, oltre che incomprensibile, pressoché inadeguata alle esigenze future se ad essa non si associa una rivalutazione, una attualizzazione di quei valori astorici di tipo tradizionale i quali, soli, sono capaci di restituire alle genti d’Eurasia e della Terra, i veri e più profondi principi per una vita secondo giustizia ed armonia.

    Non è di secondaria importanza quindi considerare come possa accordarsi la visione tradizionalista di Julius Evola con la geopolitica ad indirizzo eurasista.

    Dugin prende in considerazione questo tema in un paragrafo del suo saggio “Julius Evola ed il tradizionalismo russo”. Facciamo brevemente il punto.

    In “Imperialismo Pagano” emerge la pressoché nulla stima nei confronti dei popoli slavi, dei quali si dice che non conobbero la tradizione, vedendo forse nell’Est una terra barbarica, nemico naturale delle tradizioni centro-europee. La visione geopolitica evoliana, né Occidente (capitalismo americano) né Oriente (comunismo sovietico) – Europa coincide sostanzialmente con la visione geopolitica iniziale propria di Jean Thiriart: né Occidente, né Oriente – Europa Imperiale.

    In Evola quindi “la valutazione del socialismo come qualcosa di essenzialmente antitradizionale va di pari passo con la scarsa stima per la civiltà slava.” (1)

    Tuttavia in Thiriart il socialismo non è più un nemico, esso presenta dei lati positivi. “Egli ha riconosciuto nel sistema socialista sovietico molte più affinità con i propri ideali che non nel mondo capitalista.” (2)

    Nel momento in cui Thiriart lancerà il motto “l’Europa da Dublino a Vladivostok”, di fatto affermerà la compatibilità del terzaforzismo europeo con l’orientamento eurasiatico socialista.

    Pure senza abbandonare la propria avversione nei confronti dei sistemi comunisti: “tra un mezzo secolo il comunismo arriverà, volente o nolente, al comunitarismo.” (3) Questa frase è tratta da un testo degli anni ’60: non sbagliò previsione.

    Thiriart individuò nel nazional-comunismo, cioè in un comunismo scevro del dogmatismo marxista ed arricchito dal sentimento di appartenenza nazionale, un alleato ed anzi un sistema politico attuabile. In ogni caso il sistema ideale era il comunitarismo, un socialismo a dimensione nazionale, che avrebbe dovuto riformare il comunismo e sostituire il capitalismo.

    Con l’individuazione del nemico unico negli USA “il campo socialista è stato piuttosto percepito come “il possibile alleato”.” (4) Con la nuova teoria geopolitica dell’Impero Euro-sovietico, l’Eurasia oggi così attuale, la formula divenne, di fatto: Oriente contro Occidente, eurasisti contro atlantisti.

    Crollati i regimi comunisti di dottrina marxista - poiché il nazional-comunismo è un comunitarismo a dimensione imperiale-continentale – la teoria thiriartiana dell’Impero Euro-sovietico attualizza coerentemente la rivolta antimodernista evoliana. Parliamo di rivoluzione in senso originario quindi, una vera e propria rivolta contro ciò che rappresenta il mondo moderno in ogni suo aspetto.

    Il problema principale che Evola pone all’uomo differenziato “è di carattere interno: rialzarsi, risorgere interiormente, darsi una forma, creare in sé stessi un ordine e una drittura […] ricostruire lentamente un uomo nuovo da animare mediante un determinato spirito e una adeguata visione della vita.” (5)

    “L’Impero euro-sovietico da Vladivostok fino a Dublino, il campo della rivolta paradossale dei “rossobruni” eurasisti in cerca del Regnum si oppone totalmente alla modernità – a questa modernità che si concretizza escatologicamente nel “dominio assoluto del capitale” e nella “mentalità semitico-mercantile”, nell’avvento finale del tipo sociale che non appartiene né alla terza, né alla quarta casta tradizionale indoeuropea – tutto ciò si può dedurre dalla lettura “russa” di Evola, dalla lettura “rivoluzionaria” di Evola che sbriciola la scolastica tradizionalista impotente, accademica, e rincuora e rivivifica il suo spirito che, d’altronde, non è morto.” (6)

    Dugin e la corrente eurasista parlano di Imperium (7) Eurasiatico, un contatto con la dottrina evoliana (8) è solidamente presente anche in questo caso. Oltre all’antimodernismo radicale insito nella teoria geopolitica eurasista, pure l’idea ghibellina ne esce rivalutata.

    “La sua formula ghibellina è chiara: l’Impero contro la Chiesa, Roma contro il Vaticano, la sacralità organica e immanente contro le astrazioni devozionali e sentimentali della fede. […] Per i tradizionalisti ortodossi la separazione cattolica tra il Re e il Papa non è concepibile e rivela l’eresia, chiamata precisamente “eresia latina”. In questa concezione russo-ortodossa si ritrova l’ideale puramente ghibellino in cui l’Impero è talmente valorizzato teologicamente che non si può concepire la Chiesa come qualcosa di estraneo e isolato da esso.” (9)

    E quindi Terza Roma – Terzo Reich – Terza Internazionale. Eurasia.

    Pure l’avversione evoliana nei confronti dei popoli slavi non regge per quanto concerne l’aspetto della tradizione religiosa: “secondo lui l’intera tradizione cristiana è l’espressione della degenerazione ciclica, una radice della decadenza dell’Occidente tradizionale e la “sovversione” dello spirito del Sud, della mentalità “semitica” proiettata al Nord europeo ariano.” (10)

    Dugin scrive: “Il devozionismo e il papismo del Vaticano sono gli oggetti di critica costante dell’Ortodossia contro il cattolicesimo. […]Lo spirito ortodosso è contemplativo, apofantico, esicastico, comunitario e risolutamente anti-individualista. Il fine nettamente dichiarato dell’Ortodossia è la “deificazione” dell’uomo per via ascetica descritta nei termini puramente esoterici e utilizzando i procedimenti iniziatici.” (11)

    Jean Thiriart ha profondamente influenzato la visione eurasista, di cui oggi ne è il portavoce più conosciuto Aleksander Dugin; unire le teorie geopolitiche eurasiste al tradizionalismo evoliano dona una solida dimensione mistica e spirituale a quello che altrimenti resterebbe niente più che pragmatismo politico.

    Ci troviamo di fronte quindi ad una visione del mondo imperiale, comunitaria, radicalmente antimodernista. Se Jean Thiriart, da giacobino e pragmatico, non prese in considerazione la dimensione spirituale e tradizionale nei suoi scritti , a sua volta Evola non diede una dimensione geopolitica definita ai suoi studi sulla Tradizione. La sua visione politica finì con l’individuare negli USA il “male minore” in periodo di Guerra Fredda (12), con l’elogiare l’Arabia Saudita Waabita preferendola all’Egitto rivoluzionario e socialista di Nasser (13), così come ad elogiare l’efficienza militare dell’entità sionista, quale avamposto della “civiltà occidentale”.

    Insomma, le posizioni politiche di Evola certo poco ci avrebbero rappresentato, ciò che oggi ci interessa è una attualizzazione delle dottrine tradizionali da lui studiate, cosa che l’Imperium Eurasia tenta di fare su scala continentale.
    Non bisogna dunque fissarsi al presente e alle cose vicine, ma aver anche in vista le condizioni che potranno delinearsi in un tempo futuro. Allora il principio da seguire può essere quello di lasciar libero corso alle forze e ai processi dell’epoca, mantenendosi però saldi e pronti ad intervenire quando “la tigre, che non può avventarsi contro chi la cavalca, sarà stanca di correre.
    Julius Evola, Cavalcare la Tigre
    Note:
    1 - A. Dugin, “Julius Evola ed il tradizionalismo russo”, Edizioni Nuovi Orizzonti Europei Pag. 10
    2 - A. Dugin, op. cit. Pag. 11
    3 - J. Th., “La grande nazione…” , SEB, Pag. 50
    4 - A.Dugin, op. cit. Pag. 11
    5- Julius Evola, “Orientamenti”, Ar Pag. 19
    6 - A. Dugin, op. cit. Pag. 12
    7 - “… deve stabilirsi una gerarchia vera, debbono differenziarsi nuove dignità e, al vertice, deve troneggiare una superiore funzione di comando, di imperium.” In J. Evola, op. cit. Pag. 25
    8 - “Solo nel segno dell’Impero l’Europa potrebbe tornare una – una come una nazione spirituale ed un blocco di civiltà.” Julius Evola, “Impero e civiltà” in Imperium n.2 giugno 1950, ristampa anastatica a cura di Settimo Sigillo.
    9 - A. Dugin, op. cit. Pag 3; Evola scriverà : “Spiritualmente, è il prender forma di un tipo di cultura caratterizzata dal dualismo, dalla depoliticizzazione, dalla scissione e dall’assolutizzazione del particolare.” In Imperium, ristampa anastatica.
    10 - A. Dugin, op. cit. Pag. 7
    11 - A.Dugin, op. cit. Pag. 7
    12 - “A guardar solo all’immediato, sussiste di certo la scelta del male minore perchè la vittoria militare dell’”Oriente” implicherebbe la distruzione fisica immediate degli ultimi esponenti della resistenza. Ma in sede di idea, Russia e Nord-America sono da considerarsi come due branche di una stessa tenaglia in via di stringersi definitivamente intorno all’Europa.” In J. Evola, op. cit. Pag. 24
    13 - Cfr. Claudio Mutti, “Evola e Nasser”, in La Nazione Eurasia, Anno 1 Numero 6 Luglio 2004 in particolare: “Altrettanto difficile è comprendere come Evola potesse individuare l’ortodossia islamica in un paese quale l’Arabia Saudita, governato da una tendenza (quella wahhabita) che in tutto il mondo dell’Islam, sia sunnita sia sciita, è sempre stata per lo più considerata come settaria ed eretica. Inoltre è veramente strano che proprio uno studioso come Evola, molto più smaliziato di tanti altri circa i retroscena della storia, trascurasse il fatto che l’Arabia Saudita era nata dalle operazioni più o meno occulte dell’Inghilterra, interessata a fomentare il nazionalismo arabo contro la Turchia e a garantirsi il controllo sulla penisola arabica. Come se non bastasse, verso la fine degli anni Cinquanta la monarchia saudita era una pedina di prim’ordine del nuovo imperialismo mondiale: quello statunitense. Ma Evola - duole parecchio essere costretti a ricordare certi limiti del suo pensiero - aveva stabilito che l’Occidente capitalista era, non certo “in sede di idea”, bensì in una ricognizione tattica delle circostanze contingenti, il “male minore” [...] Ora, se Evola aveva torto allorché esprimeva il timore che l’occidentalizzazione portasse i paesi musulmani tra le braccia del comunismo, aveva invece ragione quando osservava che l’emancipazione politica dei paesi musulmani coloniali si accompagnava spesso all’adozione di elementi culturali estranei alla cultura islamica.”

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