Cosa cambia per l’Uomo Bianco se un un uomo nero siede alla Casa Bianca?
E soprattutto cosa resta dell’Uomo
Bianco, nell’accezione che da
cinque secoli siamo abituati a riconoscere
al concetto, da quando un nero è
eletto a capo della massima potenza occidentale?
L’arrivo di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti segna una svolta epocale nella storia del mondo, non solo politica, ma innanzittutto simbolica e culturale.
C’è chi parla di un avvenimento postrazziale, chi definisce “postetnica” la corrente attuale.
Certo è che l’elezione del primo presidente afroamericano d’America suscita
alcuni interrogativi.
E se molti commentatori riluttano ad assumerli ed evitano di rispondervi, temendo di passare per politicamente scorretti o democraticamente
infidi, è anche vero che tacerne o schivare la questione rischia di essere l’espressione di un conformismo timido e reticente.

Ci sono per esempio quelli che vedono nell’elezione di Obama un non fenomeno.
Sono i realisti, i cinici, i pragmatici, i disillusi, machiavellici d’antica
esperienza, come Ruggero Guarini, letterato napoletano che vive a Roma:
“L’Uomo Bianco ha inventato una macchina – il complesso scienza, tecnica,
capitale, mercato, democrazia – che si chiama Occidente. Non è un luogo geografico, è una macchina, per l’appunto.
E se domani verrà gestita, amministrata e sviluppata da bianchi, neri, rossi o
gialli conta poco.
Quel che conta è che resta un’invenzione dei bianchi”.
Dunque non cambia molto per lo scettico Guarini, un’anima che dialoga col mito restando sempre in collegamento con l’umore e l’atavismo popolari. “Obama ci difende? E’ uno come noi”, insiste Guarini. Sua nonna Sara a Nyangoma- Kogelo festeggia il successo del nipote americano offrendo il sacrificio delle vacche agli spiriti dei Luo?
“Possiamo mai storcere il naso noi cattolici, che sulla fine dei sacrifici abbiamo costruito la teofagia, e ogni domenica ci mettiamo in bocca un pezzettino di Gesù Cristo?”. Non possiamo, benissimo.
Ma allora?
“Una volta seduto nello Studio ovale, Obama capirà che deve onorare i valori del luogo che l’ha promosso a quel rango. E del resto, sa sin troppo bene che non gli conviene cambiare troppo l’America, perché vorrebbe dire distruggere i passaggi che gli hanno permesso di arrivare dove è arrivato”.

Oltre i realisti, ci sono gli idealisti, i grandi frequentatori di idee astratte, che vedono nel trionfo di Barack Obama un fenomeno “trasformativo”.
Uno di questi è Harvey Mansfield, il politologo di Harvard, studioso di Tocqueville e Machiavelli, e autore di un fortunato saggio sulla “Manliness”, la capacità di essere virili, di essere uomini, oggi messa fortemente in dubbio dall’indifferenziazione di genere che procede dall’eguaglianza.
E’ convinto, Mansfield, che il cambiamento vero riguarderà non i bianchi, ma i neri. “Saranno loro a cambiare di più. I neri, che hanno aspettato per anni questo giorno, non avranno più bisogno di puntare sul razzismo, sul risentimento, sul rivendicazionismo alla Jesse Jackson”.
Non che razzismo e risentimento siano superati, intendiamoci: “La gente ha la
memoria lunga” avverte Mansfield, “ma con Obama abbiamo girato pagina”,
spiega il discepolo di Leo Strauss oggi vicino ai neoconservatori.
Sebbene sia repubblicano, e quindi preoccupato dalla piega liberal della nuova Amministrazione e del Parlamento americani, Mansfield plaude al trionfo di Obama, “al miglioramento dell’autostima dei nostri concittadini neri” . E ricorda
come in America, diversamente da quanto accade in Europa, “i neri hanno sempre voluto essere americani, e se noi bianchi in passato non gliel’abbiamo permesso, ora tutto questo è finito.
Come possiamo essere razzisti se eleggiamo un presidente nero?”. Obama, in
altri termini, non è il nero che scalza il bianco, ma “un nero artificiale, figlio di
un ragazza bianca del Kansas e di uno studente kenyota” che rappresenta la
quintessenza del potere bianco. E non bisogna per forza essere un neocon
americano per dirlo.

Anche Marco Tarchi, lo studioso della destra fascista in Italia, pensa la stessa
cosa: “Non è un falso nero, ma la sua storia fa sì che la sua comunità lo percepisce molto diverso dai leader neri radicali alla Jesse Jackson. I neri sono
parte dell’America: non c’era bisogno di Spike Lee per rendersene conto; e
Oprah Winfrey, del resto, non è che un Bruno Vespa di colore, cosa che da noi non so sino a che punto sarebbe stato pensabile”. Proprio per questo, in
quanto cittadino americano a tutti gli effetti, Obama, secondo Mansfield, “si è
fatto eleggere non in quanto nero, ma come politico universale, che poteva essere votato dai bianchi, perché era il miglior candidato possibile”. La sua vittoria quindi rappresenta il prodotto compiuto dell’universalismo democratico, una delle più grandi invenzioni dell’Occidente. Proprio per questo, prevede Mansfield, “segnerà la fine della correttezza politica che sinora ci ha impedito di parlare di differenze razziali, per non violare un tabù. Oggi il politicamente corretto ha meno scuse. Possiamo
finalmente parlare con franchezza
di caratteristiche razziali, di vizi e virtù
dei vari gruppi e comunità. Grazie a
Obama, ai suoi ideali universali, al suo
ritorno ai padri fondatori, l’America
abbandona il multiculturalismo, per riscoprire
l’unità della nazione. E’ un bel
progresso”.

Anche i francesi, che con gli americani
condividono il progetto rivoluzionario
di una cultura politica universale,
fondata sui diritti dell’uomo e l’eguaglianza
davanti alla legge, guardano
con invidia al presidente nero. Anche
loro vedono in Obama la quintessenza
dell’homo occidentalis.
“Non è un beneficiato della discriminazione positiva, ma rappresnta il fior fiore della cultura occidentale” dice il filosofo Alain Finkielkraut, che guarda ammirato al modello di integrazione americana.
“In Francia i figli di immigrati fischiano l’inno nazionale, in America il nero
Obama vince in nome del patriottismo e dell’unità della nazione, superando
divisioni e risentimenti.
In lui, Internet, che è la modernità estrema, si sposa con un anacronismo come il ritorno all’eloquenza di Abraham Lincoln”.
E’ un’altra America che torna alla ribalta, quella dell’Ottocento, contro l’America dell’entertainment, dell’edonismo; e l’entusiasmo degli europei è la prova del fatto che l’Europa non è razzista, e il presidente nero incarna i suoi valori.

“Obama è il trionfo dell’universalismo e del messaggio cristiano” spiega
Pascal Bruckner, che da anni denuncia il complesso di colpa delle società postcoloniali e multirazziali. “Insieme con lui vince l’idea che non esiste una
razza privilegiata, perché gli uomini sono tutti uguali davanti al creatore. E la
sua forza sta nell’aver superato le divisioni razziali, nell’essersi rivolto a bianchi
e neri, nell’aver denunciato la famiglia destrutturata del ghetto, il troglodita
nero che mette incinta le ragazze e poi scompare, gli adolescenti sbracati
coi pantaloni sotto l’inguine…” La sua vittoria, dunque, più che un’umiliazione
dei bianchi, è il trionfo dei loro ideali.
“L’Uomo Bianco del resto è una realtà superata”, avverte lo scrittore.
“Appartiene al XIX secolo, mentre oggi s’impone il meticciato, come dimostra
l’aumento dei matrimoni misti e il gusto stesso delle classi dominanti occidentali”.
Bruckner ha in mente un paradosso, ma l’argomento, per quanto banale, è convincente:
“Nel Seicento”, spiega, “essere di colore era la cosa peggiore che potesse succedere alla corte del re Sole. Le duchesse si incipriavano il viso per avere la pelle chiarissima, e si riparavano dal sole. Il colore era riservato alle classi inferiori. Oggi invece succede il contrario. Essere ricchi significa essere abbronzati.
Tutte le classi dominanti del mondo occidentale vogliono apparire come il vostro Berlusconi, sempre in forma, abbronzati a puntino. Mentre in Asia, in
India, e nelle Filippine le élite vanno alla ricerca di prodotti miracolosi per
schiarirsi la pelle”.
Da un lato, dunque, vince il superabbronzante, dall’altro lo schiarente. Variazioni epidermiche dell’eguaglianza universale: “Ognuno sogna di essere l’altro, salvo i cinesi che restano un caso a parte”.
Allo stesso modo l’Europa, insiste Bruckner, sogna di plasmare l’America a sua immagine
e somiglianza.
“Obama rappresenta la giovinezza, l’eleganza, l’eloquenza, la riconciliazione
dell’odio razziale e la fine della cattiva coscienza. La prima potenza occidentale che elegge un nero di nome Hussein è un condensato del mondo
globale”.
E’ la prova che ormai non è più il mondo che si americanizza, ma
l’America che si globalizza.
L’America che è già un paese mondo, dove tra una generazione - nel 2042 stando a dati del Census Bureau riferiti da Lucio Caracciolo sulla Repubblica di sabato- i bianchi rispetto ai “non latinos” saranno una minoranza, pari al 46 per cento della popolazione, venti punti sotto rispetto a oggi.
“E’ per questo che l’America è stata capace di una rigenerazione che manca invece alla vecchia Europa.
E resterà il paese più forte del mondo, anche se l’epoca della superpotenza
iniziata col crollo del Muro di Berlino è finita.
L’Occidente non è più il centro del mondo, ma i suoi valori stanno vincendo
ovunque. In fondo, è lo stesso destino del cristianesimo: siamo tutti atei
oggi, ma le nostre società restano impregnate dei valori cristiani”.

Per una volta anche il russo è d’accordo col francese: “Per noi bianchi
sarà una bella lezione capire che non
siamo più i padroni del mondo, ma solo
una parte della comunità globale”
dice Victor Erofeev, il figlio dissidente
dell’interprete personale di Stalin,
che ha scritto un’“Enciclopedia dell’anima
russa” (ed. Spirali) per spiegare
la perversione assoluta e l’assenza di
moralità della cultura russa. E se uno
gli ripete la famosa battuta “We can’t
talk nukes with a nigger” che un consigliere
di Vladimir Putin, temendo la vittoria di Obama, avrebbe detto mesi
fa a un liberale bulgaro, Erofeev non smentisce il pregiudizio razziale dell’élite
politica russa, ma insiste sulla pedagogia.
“L’elezione di Obama li indurrà a una nuova visione. Bush vedeva
l’anima trasparente dei russi negli occhi di Putin; i russi potranno vedere
negli occhi di Obama l’anima trasparente dell’America”.

Ma allora, per capire cosa resta dell’Uomo Bianco, bisogna andare a lezione
dallo storico.
“Obama è un erede cosciente, convinto e grato di ciò che il
nostro essere bianchi ha dato al mondo” dice il medievista Franco Cardini.
“Noi però come occidentali ci portiamo dietro una profonda schizofrenia,
divisi come siamo tra la volontà di potenza e i diritti umani”.
E qui vola l’excursus sul Tramonto dell’Occidente, categoria nata un secolo fa, quando l’Europa si inabissava nella Grande Guerra, mentre alla Columbia University di New York si fondava la prima cattedra di Western Culture and Civilization.
Si toccano le culture dell’antichità, la greca, l’indiana, la biblica, l’atzteca, che hanno sempre concepito la storia come un periodo di successive
decadenze, che a un certo punto si rinnova e si rigenera, “mentre noi occidentali”, spiega Cardini, “abbiamo inventato la modernità con le sue ‘magnifiche sorti e progressive’, salvo poi scardinare l’unità del genere umano
quando nel Cinquecento, rotti i confini mediterranei, aprendoci a razze diverse, in un primo tempo abbiamo stentato a riconoscerli come uomini,
per poi riorganizzare le nostre conoscenze in modo scientifico”.
“Non lo si dice mai abbastanza – insiste Cardini – ma la scienza o pseudoscienza del razzismo va di pari passo con le scoperte scientifiche. L’abitudine a sezionare la natura, tipica di Cardano, Della Porta, Galilei e Newton, porta naturalmente a sezionare l’aspetto dell’uomo rispetto ai tratti esteriori e alla sua capacità spirituale”.
In questo modo, si costruì una gerarchia etnocentrica, ordinando la realtà in base a concetti ottimali secondo la nostra natura di uomini bianchi.
Così, l’eccellenza europea, fondata sul principio del saper fare, venne modellata sul canone di Policleto, bello, alto, occhi azzurri…
Nacque così l’ideologia della superiorità che oggi col processo di globalizzazione è arrivata a un momento di verifica.
Morale? “Ci troviamo davanti l’ultimo erede dei neri arrivati dalla Guinea coi carichi di schiavi, che diventa il nuovo imperatore del mondo”.
Parla di Obama il professor Cardini, anche se il presidente nero è figlio di
uno studente kenyota e di una ragazza del Kansas. “Non c’è da stupirsi. Nell’impero romano Settimio Severo veniva dall’Africa e pure sant’Agostino.
Ha ragione oggi chi dice che Obama è un perfetto occidentale. Si può dire
che è il nostro Filippo l’Arabo, un Cæsar Augustus princeps Senatus.
Solo che a differenza dell’erede dei Cesari, che in vita sua non si è mai posto il
problema della pelle scura o dei capelli crespi, Obama ci pensa tutti i giorni, proprio perché è un occidentale.
E il canone di Policleto, la bellezza dell’homo occidentalis fissata nel Cinquecento, continua a funzionare come ideale e come ombra del passato. Obama è un africano che si muove in una città dall’architettura massonica e
neoclassica.
Chi dice che è un perfetto occidentale deve abituarsi all’idea che il meglio dei nostri valori verranno portati avanti da persone che noi non eravamo abituati a considerare dei nostri, vale a dire biologicamente bianchi e culturalmente occidentali.
L’occidente è scoppiato, il tempo aureo del suo dominio è finito.
Urge imparare a storicizzare la nozione.

www.ilfoglio.it 11 11 08

saluti