Certo che ci sarebbe tantissimo ancora da scrivere e dire, soprattutto in termini di confutazione, poiché le tue tesi, non proprio quelle della teologia (poi sarebbe opportuno stabilire quale teologia…. Sai ne esistono diversissime e spesso non convergenti), sempre che non abbia io frainteso o tu non abbia semplificato eccessivamente, non mi paiono affatto coerenti con il racconto di Genesi. Fra l’altro citi un pensatore che sinceramente non ricordo che si fosse espresso in questi termini nelle due opere da te citate (ma potrebbe trattarsi di una mia carenza di memoria… solo per una mia curiosità, dove, in quale punto della sua opera forse più importante?).
Ma andiamo oltre.
Fai riferimento al concetto di libertà, alla cui nozione è strettamente connessa quella di libero arbitrio, e attribuisci, implicitamente, la giusta concezione della condizione di libertà esclusivamente alla teologia. Qui però commetti un arbitrio – abbastanza usuale, soprattutto in ambito cristiano – perché soffusamente (forse inconsapevolmente, probabilmente nella concitazione di una risposta) non t’avvedi che parti da un presupposto che è parziale, se non addirittura sostanzialmente errato. La nozione di libertà, quindi della libera disponibilità della propria volontà – a questa, e solo a questa si lega inscindibilmente il concetto in esame, nell’accezione corrente -, non ha il suo fondamento esclusivo nella nozione o nell’esigenza di disponibilità piena da un qualcosa, non si radica nella “libertà da…”, non risponde esclusivamente alla necessità di liberarsi da…(‘libertà da…’), ma, in modo precipuo e prioritario (umanamente prioritario e precipuo), è intrinsecamente e inscindibilmente legata al concetto di disporre pienamente ‘di…’; nel senso che non è massimamente corretto, come vorrebbe certa teologia da te citata, inferire che la libertà sia sempre e solo quella che affranca da un qualcosa (nella fattispecie dal peccato e dal Male), essendo, senza dubbio, più consono al concetto di libertà quello che attiene alla libertà di poter disporre pienamente.
Dicevo, poco sopra, che questa fraintesa concezione della libertà, arbitrariamente eletta a valore universalmente valido, è mutuata in larghissima misura dal dialogo che, in Giovanni 8, Gesù ebbe con i discepoli. Anche l’enciclica di Giovanni Paolo II, Veritatis Spendor, risente fortemente di quanto emerge dalle pagine del Vangelo di Giovanni, anche se, a parer mio, con un forte accenno di arbitrarietà. Il passaggio da tenere ben presente è collocato fra i loghion 31 e 47. Ovviamente non si tratta dell’unico cenno al concetto di libertà presente nella tradizione neo-testamentaria, ma questo lo ritengo sicuramente il più significativo, proprio perché riferibile immediatamente all’insegnamento di Gesù: <<31. Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; 32. conoscerete la verità e la verità vi farà liberi>>. Poco dopo, replicando alle osservazioni avanzate dai discepoli, chiarisce: <<34. Gesù rispose: "In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato>> (va da sé che chiunque compia sempre e comunque il bene sarebbe senza meno schiavo del Bene, e non mi parrebbe di rilevare o registrare nell’uomo un’inclinazione naturale verso il bene, più spesso verso il suo omologo contrario). Con evidenza, Gesù dunque si appella alla possibilità reale di una libertà da qualcosa (il peccato), non di una libertà di potere e non poter scegliere autonomamente e in piena coscienza. Ma ciò che esige l’uomo, dopo la caduta, non è la libertà da un qualcosa, bensì di potersi autodeterminare. Tale particolare disposizione nei confronti della libertà (in senso negativo) la si ritrova anche nel celeberrimo racconto del Grande Inquisitore, dell’insuperato romanzo di Dostoevskji. Da ciò deriva l’intero percorso argomentativo, che imputa alla Chiesa di Roma – in special modo – l’aver espanso oltre ogni dovuto l’espressione di Gesù, che si rivolgeva alla liberazione dal peccato, mantenendo ad un livello di sudditanza la libera determinazione individuale rispetto alle istanze divine. Quindi, non di una libertà piena si tratta, bensì di una libertà condizionata. Ma quel che è narrato in Genesi stravolge il concetto espresso da Gesù. L’atto di superbia che, secondo il mito, ha dannato la Creazione, è una pretesa piena e completa di autodeterminazione. In tale ambito e in quel senso, la teologia (resta da capire sempre quale teologia), per affermare l’esistenza e la superiorità di una legge naturale inscritta nella coscienza individuale, non può far altro che esautorare la pretesa di libertà piena e completa, proprio conseguente e consanguinea al peccato d’origine, esautorarla e asservirla ad una diversa specie, il cui tenore è assai più contenuto, riducendola, infatti, all’insegnamento di Cristo che, senza dubbio, è solo un’esortare a conquistare una “libertà da”. Nel contempo, pur nella riduzione operata, la Chiesa (o la teologia), espande, universalizzandola, la nozione di libertà contratta che emerge dalle pagine del vangelo di Giovanni (in ciò è rilevabile una palese contraddizione).
In poche parole, poiché ho intuito che taluni sono affezionati agli schemi, la creazione pretende una libertà a 360 gradi, ovvero “libertà di…”, la Chiesa propone come mezzo di salvezza una libertà a 180 gradi, ovvero “libertà da…”. (troppo spesso ci troviamo disposti sempre e solo a 90 gradi , ma questa è davvero altra storia)
P.S.: affermare con eccessiva perentorietà che non esistono verità, equivale ad esprimere una verità – sebbene sia l’unica ammessa -, quindi è anch’essa una posizione dogmatica. Sostenere, invece, che si dubita che esistano verità, dischiude la porta a più di una possibilità. Questa posizione non è per nulla dogmatica. Men che meno è dogmatico affermare che, qualora esistesse una Verità, questa è però inconoscibile e non conseguibile.
PPS: qualcuno, non senza ragioni, sosteneva un tempo che libertà è partecipazione. Il termine partecipazione è assolutamente ambiguo, prestandosi a diverse letture.