O TEMPORA (Il Calibano)
22 maggio 2004
Ovidio, Le Metamorfosi, Libro I, 89-90: “Aurea prima sata est aetas, quae vindice nullo,/ Sponte sua, sine lege fidem rectumque colebat”. ( la prima fu l’età dell’oro che non conosceva vendicatori / e in cui si praticava fedeltà e onestà liberamente e senza leggi.)
Chi non ha mai sognato di poter vivere nell’età dell’oro scagli il primo lingotto…ehm, la prima pietra. L'età dell'oro, era quella dell'innocenza, della pace, della felici*tà. La terra dava i suoi prodotti sen*za essere coltivata; scorrevano fiumi di miele e di latte; non c'erano ani*mali feroci; i serpenti non avevano ve*leno; gli uomini erano miti, sempli*ci, felici. Porta a Porta era nel grembo di Zeus e Bruno Vespa non stava in nessun grembo. Maurizio Costanzo c’era! ma, grazie a Hermes, non c’era la televisione né analogica né digitale. La sera, invece di ascoltare le lepidezze di Bonolis, si ascoltava il soffio di Eolo tra le canne…no, Fini non c’era e, soffiare o aspirare le canne era permesso. Non c’erano le file ai caselli autostradali, i parchimetri, le zone blu, l’inquinamento, le vacche pazze, i polli con l’influenza, i mutui da pagare, le tasse da evadere. Don Benzi e Rosi Bindi si rincorrevano nei prati: lei silfide, lui satiro. Radio Radicale trasmetteva regolarmente, ma senza la rassegna stampa: non c’èrano giornali, no…c’era Libero, ma non usciva perché Feltri, vivendo in un mondo così idilliaco, non riusciva ad immaginare un titolo –forte- per la prima pagina. Le età che seguirono furono: L'età dell'argento, quella in cui si cominciarono a sen*tire maggiori bisogni, quella in cui di*venne necessario segnare limiti alle proprietà, stabilire leggi, attendere a industrie e commerci, coltivare i cam*pi. L'età del bronzo, quella del*le prime violenze, delle prime guer*re, dei primi eroismi ed anche dei pri*mi delitti. L'età del ferro, quel*la dei vizi, dei grandi delitti, dell' empietà. A queste quattro età, io ne aggiungerei una quinta: l’età della solitudine. Se Mosè fu deposto in un cestello di papiro, spalmato di bitume e di pece, e abbandonato fra i giunchi sulla riva del Nilo, è pur vero che la sorella rimase nelle vicinanze fin quando non arrivò la figlia del faraone, il resto è cosa nota. Altri due neonati furono affidati alle acque, ancora bionde, del Tevere. Rea Silvia, una ragazza madre che fu messa in cinta da un dio, - beh? che c’è? Non ci credete? eppure, non è stata l’unica! - mise nel fiume la cesta di vimini, con dentro i gemelli che si sarebbero chiamati Romolo e Remo. La culla galleggiante si arenò in un’ansa del fiume, incastrata tra due alberi, il Germalo e il Fico Ruminale. I due gemelli furono ritrovati da una Lupa che li portò nella sua grotta dove li allattò, salvandogli la vita. Una volta cresciuti, per la gioia dei leghisti, fondarono Roma. Ai nostri giorni i neonati abbandonati non hanno la stessa fortuna. In quel di Verona, una ragazza madre, dopo aver partorito a bordo della sua auto, ha messo il neonato in un sacchetto di plastica e lo ha abbandonato in un prato incolto. A Modena una storia simile si è conclusa con la morte del neonato che il personale del reparto di Neonatologia del Policlinico della città aveva chiamato Jacopo. Nessuno è così ingenuo di sperare in un ritorno dell’età dell’oro o sognare che lupe e faraone si prendano cura dei neonati abbandonati, ma nessuno può essere così cinico da non augurarsi che delle ragazze, invece di consumare il loro dramma in solitudine, trovino quell’ascolto di cui tutti abbiamo bisogno.
Il Calibano