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    x il Socialismo Mondiale
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    Post Che cosa causa le crisi economiche?

    Le "crisi" sono ora accettate come parte del tutto regolare della vita economica. I politicanti ora razionalizzano tali crisi, descrivendole come una “sofferenza necessaria” che deve essere talvolta sopportata. In definitiva, è l’economia che controlla i politicanti e non il contrario.

    Che cos’è una Crisi Economica?

    Le crisi economiche sono periodi di crescita economica bassa o perfino negativa. Questo significa che i livelli di produzione sono più bassi e ciò comporta aumento di disoccupazione. Come risultato, la posizione contrattuale dei lavoratori è indebolita e le loro retribuzioni declinano.

    Il Cambiamento negli Atteggiamenti

    Una volta molti economisti pensavano che le crisi economiche fossero evitabili. Quando Karl Marx disse che il capitalismo inevitabilmente si sviluppa in modo instabile con periodi sia di espansione che di contrazione, la sua teoria fu fieramente respinta da molti.

    Nel suo principale lavoro, il Capitale, Marx formulò la legge fondamentale del progresso capitalista nei seguenti termini:

    L’enorme capacità di espansione a grandi sbalzi del sistema delle fabbriche, e la sua dipendenza dal mercato mondiale, hanno per necessario effetto una produzione febbrile e quindi una congestione dei mercati, con la contrazione dei quali subentra una paralisi. La vita dell’industria si trasforma in una successione di periodi di vitalità media, prosperità, sovrapproduzione, crisi e ristagno. (1)

    In quel periodo e per alcuni decenni successivi, gli economisti capitalisti reclamarono che le crisi e i crolli non fossero una parte integrante del capitalismo stesso ma piuttosto determinati da interferenze esterne con il libero mercato. Videro le “irregolarità di mercato” come l’eccessivo potere dei sindacati, le restrizioni sul liberoscambismo o l’incorretta politica monetaria del governo come la causa dei crolli economici.

    Questa visione che se il libero mercato fosse lasciato ai suoi propri stratagemmi, non ci sarebbero crisi di nessun tipo era basata sulla dottrina proposta dall’economista francese dell’inizio del diciannovesimo secolo J. B. Say, secondo la quale

    ogni venditore porta un compratore al mercato.

    Certamente, se ogni bene prodotto venisse veramente comprato allora non ci sarebbero crisi economiche (questo è vero per definizione). Tuttavia, tale presupposto è basato su un ragionamento difettoso. Marx così lo espone:

    Nulla può essere più sciocco del dogma che la circolazione delle merci determini un necessario equilibrio di vendite e compere… ciò che è implicito in tale asserzione è che ogni venditore si porta al mercato il suo compratore… Ma non è detto che uno compri immediatamente perché ha venduto. (2)

    Alcuni oggi credono ancora nella visione data da Say. I più ora accettano che gli eventi abbiano provato che il libero mercato sia incapace di provvedere alla crescita duratura quanto gli interventi restrittivi statali. Benché la visione marxista sia ora implicitamente accettata, relativamente pochi comprendono il perché.

    Marx vs Keynes

    Secondo Marx, la divisione nel capitalismo tra i compratori e i venditori di merci innalza la possibilità di crisi e di depressioni economiche, dal momento che i possessori di denaro non sempre trovano nel loro interesse trasformare immediatamente il denaro in merci. Perciò, finché la compravendita, il denaro, i mercati e i prezzi continueranno a esistere, esisterà anche il ciclo economico.

    Ai tempi della Grande Depressione degli anni ’30 del secolo scorso, la maggior parte degli economisti arrivò a essere d’accordo sul fatto che i crolli erano parte integrante del capitalismo, avendo seguito la guida nel loro tempo fornita da John Maynard Keynes. Come Marx prima di lui, Keynes disse che la Legge di Say era insensata e che il libero mercato con portava naturalmente a un punto di equilibrio di piena occupazione con crescita sostenuta. Il capitalismo, disse, se fosse lasciato ai suoi propri stratagemmi, ristagnerebbe come fece dopo il Crollo di Wall Street dell’ottobre del 1929. Keynes e i suoi seguaci scelsero la visione che, come il capitalismo si sviluppava, la tendenza osservabile del sistema di concentrare la ricchezza in sempre meno mani porterebbe a eccessivo risparmio, al fare provvista di ricchezza e a un declino nella domanda complessiva. Questo subito dopo farebbe piombare il capitalismo in un crollo prolungato.

    Keynes, nell’elaborare una dottrina economica con l’intento di influenzare i governi in tutto il mondo, sostenne che l’intervento del governo era necessario per prevenire future crisi. I governi dovevano aumentare le tasse su quelli con meno probabilità di spendere ampie parti del loro reddito, e dirigere i fondi verso quelli che lo facevano. Inoltre, i governi dovevano intraprendere azioni per assicurare un adeguato livello di domanda nell’economia, aumentando la spesa e facendo deficit di bilancio dove necessario.

    Il commercio mondiale nel 1932 fu poco più di un terzo di quello che fu prima del Crollo di Wall Street. I due paesi più influenzati furono gli USA, dove la disoccupazione superò i tredici milioni, e la Germania dove si mantenne a sei milioni e aiutò a spingere per la salita al potere di Hitler. In Gran Bretagna, più di tre milioni, ossia il venti percento della forza lavoro assicurata, fu disoccupata nel 1932.

    I rimedi di Keynes della spesa statale aumentata e dei deficit di bilancio furono messi in pratica dal 1933 in poi negli USA dall’amministrazione dei democratici sotto Roosevelt. La disoccupazione calò per un periodo di tempo, ma non di più di quanto in Gran Bretagna, che non aveva ancora agito in maniera keynesiana e che operò direttamente politiche opposte. Il 1938 vide l’arrivo di una depressione nuova di zecca negli Stati Uniti che diminuì soltanto durante la Seconda Guerra Mondiale. La prognosi iniziale per l’intervento keynesiano non fu perciò buona, anche se l’alternativa del libero mercato sembrava morta e sepolta.

    Dopo la seconda guerra mondiale, i vari paesi capitalisti basati sull’impresa privata adottarono le raccomandazioni di Keynes a gradi variabili, essendo guardinghi nei confronti di un’altra possibile Grande Depressione e del tumulto sociale che poteva causare, e fiduciosi che il libero mercato senza impedimenti fosse una cosa del passato. Nonostante ciò, la maggior parte dei paesi continuò col ciclo economico operando come prima, anche se non c’era nessuna grande depressione. Una delle poche eccezioni fu la Gran Bretagna. Nel Regno Unito la crescita rimase relativamente forte per tutti gli anni ‘50 e ‘60 e la disoccupazione non superò mai i 900.000. I sostenitori delle politiche keynesiane affermarono che fu un trionfo dell’amministrazione della domanda da parte del governo.

    La storia susseguente dell’economia in Gran Bretagna fu il provare quanto sbagliate esse fossero. Dopo la guerra la Gran Bretagna ebbe raggiunto una posizione relativamente vantaggiosa nel mercato mondiale per molte merci, con i rivali come la Germania e la Francia economicamente devastati. Per del tempo la Gran Bretagna emerse come uno dei maggiori produttori di veicoli a motore, di aeroplani, di prodotti chimici, di corrente elettrica e di altre merci. Per la fine degli anni ‘60, tuttavia, i rivali della Gran Bretagna erano aumentati, facendo competizione sulla base della nuova e migliorata tecnologia che venne introdotta come conseguenza della devastazione del tempo di guerra. Negli ultimi anni ‘60 e nei primi anni ‘70, il classico ciclo economico cominciò a riaffermare se stesso furiosamente sull’economia britannica – alla fine promuovendo un ritorno alle politiche del libero mercato negli anni ‘80. La disoccupazione salì, sfondando la barriera di 1.000.000 per la prima volta dal 1945 sotto il Primo Ministro Edward Health nei primi anni ‘70.

    Una Guida Passo dopo Passo

    In verità, la sola esistenza della compravendita innalza sempre la possibilità di crisi, ma la spinta ad accumulare capitale – la linfa vitale del capitalismo – assicura che periodicamente le crisi diventino estremamente una realtà, e i politicanti non possono fare nulla per prevenirle. Quando il capitalismo è in boom, le imprese sono in una posizione in cui i loro profitti stanno aumentando, il capitale si sta accumulando e il mercato è affamato di più merci. Ma questa situazione non dura. Le imprese sono in una lotta perpetua per i profitti – hanno bisogno di profitti per essere in grado di accumulare capitale e perciò sopravvivere contro i loro competitori. Durante un boom questo inevitabilmente porta alcune imprese – tipicamente quelle che sono cresciute più rapidamente – a sovraestendere le loro attività per il mercato disponibile.

    Nel capitalismo, le decisioni riguardo all’investimento e alla produzione sono prese da migliaia di imprese in competizione che operano senza controllo sociale o regole. La spinta competitiva ad accumulare capitale costringe le imprese a espandere le loro capacità produttive come se non ci fosse alcun limite al mercato disponibile per le merci che stanno producendo.

    La crescita non è pianificata ma governata dall’anarchia del mercato. La crescita di un’industria non è collegata alla crescita delle altre industrie ma semplicemente all’aspettativa di profitto, e ciò dà luogo ad accumulazione e crescita sbilanciate fra i vari rami della produzione. L’accumulazione eccessiva di capitale in alcuni settori dell’economia presto appare come una sovrapproduzione di merci. I beni si accumulano, non possono essere venduti, e le imprese che hanno sovraesteso le loro attività devono tagliare sulla produzione.

    Come le merci giacciono invendute le rendite e i profitti cadono, rendendo l’ulteriore investimento allo stesso tempo più difficoltoso e meno proficuo. L’accumulazione va in stallo, il risparmio e la tesaurizzazione aumentano e le forze instabili del denaro e del credito presto trasmettono la depressione agli altri settori dell’economia. Quelle che inizialmente erano le imprese sovraestese tagliano sull’investimento e questo porta a una caduta nella domanda per i prodotti dei loro fornitori, i quali a loro volta sono obbligati a tagliare, causando delle difficoltà ai loro fornitori (i fornitori dei fornitori) e così via. I profitti cadono, i debiti crescono e le banche spingono i tassi d’interesse su e contraggono il loro prestito in una viziosa spirale verso il basso di contrazione economica. In questo modo, ciò che ha inizio come una parziale sovrapproduzione per mercati particolari viene trasformata in sovrapproduzione generale con la maggior parte dei settori dell’industria influenzati.

    Le crisi e i crolli immancabilmente seguono questo modello generale. Qualche volta la sovrapproduzione iniziale ha luogo in industrie di beni di consumo, come avvenne nel 1929, e si estende da quel punto. In altri casi, come nella metà degli anni 1970 la sovraestensione iniziale è nel settore dei beni dei produttori dove le imprese producono nuovi mezzi di produzione come l’acciaio industriale o l’apparecchiatura robotica. Nel crollo dei primi anni ‘90 uno dei maggiori fattori fu la sovraestensione del settore della proprietà commerciale e alcune delle appena sorte industrie high-tech. Qualunque sia la causa, il risultato è sempre lo stesso – produzione in caduta, fallimenti in aumento, tagli delle retribuzioni e disoccupazione, con un’annessa crescita nella povertà.

    In un crollo vi è simultaneamente un problema di domanda di mercato in caduta accanto ai profitti in declino. Chi prova a occuparsi di un problema (diciamo la domanda dei consumatori) a costo dell’altro (profitti) come i keynesiani hanno fatto, non migliorerà la situazione.

    Un numero di cose completamente distinte e separare devono succedere prima che un crollo possa mettere in azione il suo corso. Innanzitutto, il capitale si trova a essere annientato se la capacità produttiva eccessiva deve essere affrontata con capitale svalutato che è comprato a buon mercato da quelle imprese nella migliore posizione per scampare al crollo. In secondo luogo, facendo in modo che abbia luogo il rifornimento dei bisogni, con merci sovraprodotte accaparrate a buon mercato o ammortizzate completamente. L’investimento non riprenderà se la sovrapproduzione esiste ancora. In terzo luogo, dopo che questo è accaduto vi è la necessità di un incremento nel saggio di profitto industriale aiutato sia dai tagli delle retribuzioni reali che dalla caduta dei tassi d’interesse (che decrescono naturalmente quando la domanda per più capitale monetario diventa meno intensa nella crisi). Questo aiuterà a rinnovare l’investimento e ad aumentare l’accumulazione. Inoltre, se il recupero deve essere sostenuto, un’ampia parte del debito fatto durante gli anni del boom dovrà essere liquidata se non esiste per agire come un erpice sulla futura accumulazione. Attraverso questi meccanismi un crollo aiuta a costruire le condizioni per la futura crescita, liberando il capitalismo delle unità inefficienti di produzione.

    Ciclo Continuo

    Quando questi processi hanno messo in azione il loro corso, l’accumulazione e la crescita possono iniziare un’altra volta con il capitalismo che crea ancora una situazione di boom che sarà inevitabilmente seguita da una crisi e da un crollo. Questa è stata la storia del capitalismo da quando si è sviluppato per la prima volta. Nessun intervento riformatore da parte dei governi – per quanto sinceri – ha impedito o può impedire a questo ciclo di operare. I sostenitori del laissez faire e il libero mercato hanno fallito e così gli interventisti keynesiani. Oggi, quando si trovano di fronte al ciclo economico, i sostenitori del capitalismo non hanno nulla da gestire.

    Il ciclo economico dimostra l’impotenza dei riformisti e dei politici, ed è un ulteriore stato d’accusa del sistema capitalista nel complesso, che porta miseria per milioni di lavoratori i quali perdono i loro lavori, vanno in fallimento o si trovano con le loro retribuzioni ridotte e le loro condizioni di lavoro peggiorate. E lontano dall’essere un’aberrazione, questo ciclo di miseria è il ciclo naturale del capitalismo.

    Regno Unito, agosto 1996

    Fonti:
    (1) Il Capitale – Libro Primo, K. Marx, Capitolo 13 – Macchine e grande industria, Par. 7
    (2) Il Capitale – Libro Primo, K. Marx, Capitolo 3 – Il denaro e la circolazione delle merci, Par. 2

    (Traduzione da www.worldsocialism.org)
    Il mercato favorisce la stupidità per favorire il consumismo e i profitti, e i politici di professione si adeguano in una spirale verso il basso.
    Che cos'è il Socialismo

  2. #2
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    Solita immondizia intellettuale che si pensava estinta!
    In realtà le crisi sono causate proprio dalle politiche socialiste dei politicanti e vorrei proprio vedere ai giorni nostri cosa resta di capitalista nelle nostre società

    Citazione Originariamente Scritto da Gian_Maria Visualizza Messaggio
    Le "crisi" sono ora accettate come parte del tutto regolare della vita economica. I politicanti ora razionalizzano tali crisi, descrivendole come una “sofferenza necessaria” che deve essere talvolta sopportata. In definitiva, è l’economia che controlla i politicanti e non il contrario.

    Che cos’è una Crisi Economica?

    Le crisi economiche sono periodi di crescita economica bassa o perfino negativa. Questo significa che i livelli di produzione sono più bassi e ciò comporta aumento di disoccupazione. Come risultato, la posizione contrattuale dei lavoratori è indebolita e le loro retribuzioni declinano.

    Il Cambiamento negli Atteggiamenti

    Una volta molti economisti pensavano che le crisi economiche fossero evitabili. Quando Karl Marx disse che il capitalismo inevitabilmente si sviluppa in modo instabile con periodi sia di espansione che di contrazione, la sua teoria fu fieramente respinta da molti.

    Nel suo principale lavoro, il Capitale, Marx formulò la legge fondamentale del progresso capitalista nei seguenti termini:

    L’enorme capacità di espansione a grandi sbalzi del sistema delle fabbriche, e la sua dipendenza dal mercato mondiale, hanno per necessario effetto una produzione febbrile e quindi una congestione dei mercati, con la contrazione dei quali subentra una paralisi. La vita dell’industria si trasforma in una successione di periodi di vitalità media, prosperità, sovrapproduzione, crisi e ristagno. (1)

    In quel periodo e per alcuni decenni successivi, gli economisti capitalisti reclamarono che le crisi e i crolli non fossero una parte integrante del capitalismo stesso ma piuttosto determinati da interferenze esterne con il libero mercato. Videro le “irregolarità di mercato” come l’eccessivo potere dei sindacati, le restrizioni sul liberoscambismo o l’incorretta politica monetaria del governo come la causa dei crolli economici.

    Questa visione che se il libero mercato fosse lasciato ai suoi propri stratagemmi, non ci sarebbero crisi di nessun tipo era basata sulla dottrina proposta dall’economista francese dell’inizio del diciannovesimo secolo J. B. Say, secondo la quale

    ogni venditore porta un compratore al mercato.

    Certamente, se ogni bene prodotto venisse veramente comprato allora non ci sarebbero crisi economiche (questo è vero per definizione). Tuttavia, tale presupposto è basato su un ragionamento difettoso. Marx così lo espone:

    Nulla può essere più sciocco del dogma che la circolazione delle merci determini un necessario equilibrio di vendite e compere… ciò che è implicito in tale asserzione è che ogni venditore si porta al mercato il suo compratore… Ma non è detto che uno compri immediatamente perché ha venduto. (2)

    Alcuni oggi credono ancora nella visione data da Say. I più ora accettano che gli eventi abbiano provato che il libero mercato sia incapace di provvedere alla crescita duratura quanto gli interventi restrittivi statali. Benché la visione marxista sia ora implicitamente accettata, relativamente pochi comprendono il perché.

    Marx vs Keynes

    Secondo Marx, la divisione nel capitalismo tra i compratori e i venditori di merci innalza la possibilità di crisi e di depressioni economiche, dal momento che i possessori di denaro non sempre trovano nel loro interesse trasformare immediatamente il denaro in merci. Perciò, finché la compravendita, il denaro, i mercati e i prezzi continueranno a esistere, esisterà anche il ciclo economico.

    Ai tempi della Grande Depressione degli anni ’30 del secolo scorso, la maggior parte degli economisti arrivò a essere d’accordo sul fatto che i crolli erano parte integrante del capitalismo, avendo seguito la guida nel loro tempo fornita da John Maynard Keynes. Come Marx prima di lui, Keynes disse che la Legge di Say era insensata e che il libero mercato con portava naturalmente a un punto di equilibrio di piena occupazione con crescita sostenuta. Il capitalismo, disse, se fosse lasciato ai suoi propri stratagemmi, ristagnerebbe come fece dopo il Crollo di Wall Street dell’ottobre del 1929. Keynes e i suoi seguaci scelsero la visione che, come il capitalismo si sviluppava, la tendenza osservabile del sistema di concentrare la ricchezza in sempre meno mani porterebbe a eccessivo risparmio, al fare provvista di ricchezza e a un declino nella domanda complessiva. Questo subito dopo farebbe piombare il capitalismo in un crollo prolungato.

    Keynes, nell’elaborare una dottrina economica con l’intento di influenzare i governi in tutto il mondo, sostenne che l’intervento del governo era necessario per prevenire future crisi. I governi dovevano aumentare le tasse su quelli con meno probabilità di spendere ampie parti del loro reddito, e dirigere i fondi verso quelli che lo facevano. Inoltre, i governi dovevano intraprendere azioni per assicurare un adeguato livello di domanda nell’economia, aumentando la spesa e facendo deficit di bilancio dove necessario.

    Il commercio mondiale nel 1932 fu poco più di un terzo di quello che fu prima del Crollo di Wall Street. I due paesi più influenzati furono gli USA, dove la disoccupazione superò i tredici milioni, e la Germania dove si mantenne a sei milioni e aiutò a spingere per la salita al potere di Hitler. In Gran Bretagna, più di tre milioni, ossia il venti percento della forza lavoro assicurata, fu disoccupata nel 1932.

    I rimedi di Keynes della spesa statale aumentata e dei deficit di bilancio furono messi in pratica dal 1933 in poi negli USA dall’amministrazione dei democratici sotto Roosevelt. La disoccupazione calò per un periodo di tempo, ma non di più di quanto in Gran Bretagna, che non aveva ancora agito in maniera keynesiana e che operò direttamente politiche opposte. Il 1938 vide l’arrivo di una depressione nuova di zecca negli Stati Uniti che diminuì soltanto durante la Seconda Guerra Mondiale. La prognosi iniziale per l’intervento keynesiano non fu perciò buona, anche se l’alternativa del libero mercato sembrava morta e sepolta.

    Dopo la seconda guerra mondiale, i vari paesi capitalisti basati sull’impresa privata adottarono le raccomandazioni di Keynes a gradi variabili, essendo guardinghi nei confronti di un’altra possibile Grande Depressione e del tumulto sociale che poteva causare, e fiduciosi che il libero mercato senza impedimenti fosse una cosa del passato. Nonostante ciò, la maggior parte dei paesi continuò col ciclo economico operando come prima, anche se non c’era nessuna grande depressione. Una delle poche eccezioni fu la Gran Bretagna. Nel Regno Unito la crescita rimase relativamente forte per tutti gli anni ‘50 e ‘60 e la disoccupazione non superò mai i 900.000. I sostenitori delle politiche keynesiane affermarono che fu un trionfo dell’amministrazione della domanda da parte del governo.

    La storia susseguente dell’economia in Gran Bretagna fu il provare quanto sbagliate esse fossero. Dopo la guerra la Gran Bretagna ebbe raggiunto una posizione relativamente vantaggiosa nel mercato mondiale per molte merci, con i rivali come la Germania e la Francia economicamente devastati. Per del tempo la Gran Bretagna emerse come uno dei maggiori produttori di veicoli a motore, di aeroplani, di prodotti chimici, di corrente elettrica e di altre merci. Per la fine degli anni ‘60, tuttavia, i rivali della Gran Bretagna erano aumentati, facendo competizione sulla base della nuova e migliorata tecnologia che venne introdotta come conseguenza della devastazione del tempo di guerra. Negli ultimi anni ‘60 e nei primi anni ‘70, il classico ciclo economico cominciò a riaffermare se stesso furiosamente sull’economia britannica – alla fine promuovendo un ritorno alle politiche del libero mercato negli anni ‘80. La disoccupazione salì, sfondando la barriera di 1.000.000 per la prima volta dal 1945 sotto il Primo Ministro Edward Health nei primi anni ‘70.

    Una Guida Passo dopo Passo

    In verità, la sola esistenza della compravendita innalza sempre la possibilità di crisi, ma la spinta ad accumulare capitale – la linfa vitale del capitalismo – assicura che periodicamente le crisi diventino estremamente una realtà, e i politicanti non possono fare nulla per prevenirle. Quando il capitalismo è in boom, le imprese sono in una posizione in cui i loro profitti stanno aumentando, il capitale si sta accumulando e il mercato è affamato di più merci. Ma questa situazione non dura. Le imprese sono in una lotta perpetua per i profitti – hanno bisogno di profitti per essere in grado di accumulare capitale e perciò sopravvivere contro i loro competitori. Durante un boom questo inevitabilmente porta alcune imprese – tipicamente quelle che sono cresciute più rapidamente – a sovraestendere le loro attività per il mercato disponibile.

    Nel capitalismo, le decisioni riguardo all’investimento e alla produzione sono prese da migliaia di imprese in competizione che operano senza controllo sociale o regole. La spinta competitiva ad accumulare capitale costringe le imprese a espandere le loro capacità produttive come se non ci fosse alcun limite al mercato disponibile per le merci che stanno producendo.

    La crescita non è pianificata ma governata dall’anarchia del mercato. La crescita di un’industria non è collegata alla crescita delle altre industrie ma semplicemente all’aspettativa di profitto, e ciò dà luogo ad accumulazione e crescita sbilanciate fra i vari rami della produzione. L’accumulazione eccessiva di capitale in alcuni settori dell’economia presto appare come una sovrapproduzione di merci. I beni si accumulano, non possono essere venduti, e le imprese che hanno sovraesteso le loro attività devono tagliare sulla produzione.

    Come le merci giacciono invendute le rendite e i profitti cadono, rendendo l’ulteriore investimento allo stesso tempo più difficoltoso e meno proficuo. L’accumulazione va in stallo, il risparmio e la tesaurizzazione aumentano e le forze instabili del denaro e del credito presto trasmettono la depressione agli altri settori dell’economia. Quelle che inizialmente erano le imprese sovraestese tagliano sull’investimento e questo porta a una caduta nella domanda per i prodotti dei loro fornitori, i quali a loro volta sono obbligati a tagliare, causando delle difficoltà ai loro fornitori (i fornitori dei fornitori) e così via. I profitti cadono, i debiti crescono e le banche spingono i tassi d’interesse su e contraggono il loro prestito in una viziosa spirale verso il basso di contrazione economica. In questo modo, ciò che ha inizio come una parziale sovrapproduzione per mercati particolari viene trasformata in sovrapproduzione generale con la maggior parte dei settori dell’industria influenzati.

    Le crisi e i crolli immancabilmente seguono questo modello generale. Qualche volta la sovrapproduzione iniziale ha luogo in industrie di beni di consumo, come avvenne nel 1929, e si estende da quel punto. In altri casi, come nella metà degli anni 1970 la sovraestensione iniziale è nel settore dei beni dei produttori dove le imprese producono nuovi mezzi di produzione come l’acciaio industriale o l’apparecchiatura robotica. Nel crollo dei primi anni ‘90 uno dei maggiori fattori fu la sovraestensione del settore della proprietà commerciale e alcune delle appena sorte industrie high-tech. Qualunque sia la causa, il risultato è sempre lo stesso – produzione in caduta, fallimenti in aumento, tagli delle retribuzioni e disoccupazione, con un’annessa crescita nella povertà.

    In un crollo vi è simultaneamente un problema di domanda di mercato in caduta accanto ai profitti in declino. Chi prova a occuparsi di un problema (diciamo la domanda dei consumatori) a costo dell’altro (profitti) come i keynesiani hanno fatto, non migliorerà la situazione.

    Un numero di cose completamente distinte e separare devono succedere prima che un crollo possa mettere in azione il suo corso. Innanzitutto, il capitale si trova a essere annientato se la capacità produttiva eccessiva deve essere affrontata con capitale svalutato che è comprato a buon mercato da quelle imprese nella migliore posizione per scampare al crollo. In secondo luogo, facendo in modo che abbia luogo il rifornimento dei bisogni, con merci sovraprodotte accaparrate a buon mercato o ammortizzate completamente. L’investimento non riprenderà se la sovrapproduzione esiste ancora. In terzo luogo, dopo che questo è accaduto vi è la necessità di un incremento nel saggio di profitto industriale aiutato sia dai tagli delle retribuzioni reali che dalla caduta dei tassi d’interesse (che decrescono naturalmente quando la domanda per più capitale monetario diventa meno intensa nella crisi). Questo aiuterà a rinnovare l’investimento e ad aumentare l’accumulazione. Inoltre, se il recupero deve essere sostenuto, un’ampia parte del debito fatto durante gli anni del boom dovrà essere liquidata se non esiste per agire come un erpice sulla futura accumulazione. Attraverso questi meccanismi un crollo aiuta a costruire le condizioni per la futura crescita, liberando il capitalismo delle unità inefficienti di produzione.

    Ciclo Continuo

    Quando questi processi hanno messo in azione il loro corso, l’accumulazione e la crescita possono iniziare un’altra volta con il capitalismo che crea ancora una situazione di boom che sarà inevitabilmente seguita da una crisi e da un crollo. Questa è stata la storia del capitalismo da quando si è sviluppato per la prima volta. Nessun intervento riformatore da parte dei governi – per quanto sinceri – ha impedito o può impedire a questo ciclo di operare. I sostenitori del laissez faire e il libero mercato hanno fallito e così gli interventisti keynesiani. Oggi, quando si trovano di fronte al ciclo economico, i sostenitori del capitalismo non hanno nulla da gestire.

    Il ciclo economico dimostra l’impotenza dei riformisti e dei politici, ed è un ulteriore stato d’accusa del sistema capitalista nel complesso, che porta miseria per milioni di lavoratori i quali perdono i loro lavori, vanno in fallimento o si trovano con le loro retribuzioni ridotte e le loro condizioni di lavoro peggiorate. E lontano dall’essere un’aberrazione, questo ciclo di miseria è il ciclo naturale del capitalismo.

    Regno Unito, agosto 1996

    Fonti:
    (1) Il Capitale – Libro Primo, K. Marx, Capitolo 13 – Macchine e grande industria, Par. 7
    (2) Il Capitale – Libro Primo, K. Marx, Capitolo 3 – Il denaro e la circolazione delle merci, Par. 2

    (Traduzione da www.worldsocialism.org)

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    LE VERE CAUSE DELLE DEPRESSIONI ECONOMICHE
    di Leonardo Butini
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    La depressione economica è da tempo realtà, e le accuse più ricorrenti sono quelle rivolte al libero mercato, che come al solito sarebbe la causa di ogni male.
    Il dito viene puntato soprattutto su speculatori e banche, su quel settore privato insomma che non si farebbe scrupoli pur di raggiungere i tanto agognati profitti.
    Ma le “tesi” che circolano con insistenza in questi giorni, da quelle del comunista Tremonti sino a quelle del falsario Trichet, sono profondamente errate, come ci insegna la dimenticata (ahinoi) teoria austriaca del ciclo economico che indaga sui motivi del continuo alternarsi tra fasi di boom e fasi di depressione: Mises, Hayek e Rothbard, per intendersi.
    Trattasi in particolare dell’unica teoria del ciclo coerente con la teoria economica generale, la sola in grado di rispondere a tutta una serie di interrogativi che le altre teorie lasciano cadere nel vuoto o sbrogliano solo in parte.

    L’idea tutta marxista che le depressioni economiche siano in qualche modo intrinseche al libero mercato poggia sulla separazione in compartimenti stagni fra teoria economica generale e teoria del ciclo. Non sarebbe possibile altrimenti coniugare la “mitica” legge della domanda e dell’offerta, che postula una tendenza costante del mercato verso l’equilibrio (in realtà poi mai raggiunto a causa della continua variazione dei dati economici), con fenomeni talmente bruschi ed imponenti. Tale separazione risulta però del tutto arbitraria e fuorviante: come scrive Rothbard “esiste soltanto una economia e perciò una sola teoria economica integrata. Né la vita economica né la struttura della teoria possono o dovrebbero essere chiuse in compartimenti stagni; la nostra conoscenza dell’economia o è un tutto integrato o è niente. Molti economisti ancora ora si ritengono soddisfatti nell’applicare queste teorie di analisi generale dei prezzi e del ciclo economico separatamente, in modo che si escludano a vicenda. Essi non possono essere degli scienziati economici autentici fin quando si riterranno soddisfatti di operare in questo modo primitivo”.

    Ma non si tratta dell’unico “artifizio” utilizzato dai nemici della globalizzazione. Chi si scaglia contro il libero mercato non riesce ad esempio a spiegare come mai colui che del “free market” è il protagonista principale, ossia l’imprenditore, in certi casi finisca col fallire così clamorosamente. Le impressionanti esplosioni di errori che interessano il mondo imprenditoriale in occasione delle ricorrenti recessioni economiche lasciano sbalorditi: milioni di imprenditori, capaci generalmente di produrre ricchezza e diffondere benessere, improvvisamente diventano del tutto incapaci di farlo, finendo con l’essere travolti dalla crisi. Sembra quasi che la libera concorrenza operi una selezione avversa, in modo che solo i peggiori sopravvivano, per poi improvvisamente crollare.
    Molti attribuiscono tale crollo ad un generale “sottoconsumo”, ma una diminuzione tanto forte della domanda da parte dei consumatori dovrebbe essere prevista dalla maggioranza degli imprenditori, perlomeno come tendenza generale: prevedere è parte fondamentale del loro mestiere, e sembra alquanto strano che nessuno, come d’incanto, riesca più a farlo.
    Chi si straccia le vesti quotidianamente parlando di sottoconsumo dovrebbe poi spiegare come mai a risentire della crisi siano innanzitutto e soprattutto le imprese che producono beni capitali, e non quelle che producono invece beni di consumo. Ma anche in questo caso, tutto tace: << è così perché è così >>, questa è, a grandi linee, la “spiegazione” più ricorrente.

    Insomma, l’attacco al libero mercato sembra poggiare su basi teoriche prive di consistenza. Vediamo in breve le risposte fornite invece dalla scuola austriaca:

    * accusare gli “spietati speculatori” (dal latino “specula”, usato per indicare le torri da cui le sentinelle erano in grado di scorgere da lontano chi arrivava, strano destino hanno talvolta certe parole…) di essere all’origine dell’aumento dei prezzi e della depressione non sembra essere molto sensato: la loro capacità d’azione è infatti costantemente limitata dalla domanda dei consumatori, che possono sempre volgersi al mercato in cerca di surrogati. Il caffè diventa troppo costoso? E io cambio marca, oppure mi compero l’orzo… “se gli uomini d’affari sono così avidi da alzare i prezzi del 10% ogni anno, perché -si domanda Rothbard in “Per una nuova libertà”- si fermano qui? Perché aspettano? Perché non aumentano i prezzi del 50% o non li raddoppiano o triplicano immediatamente? Che cosa li frena? Il freno è dato da un limite posto dalla domanda del consumatore”.
    Certo, alcuni settori caratterizzati da un grado di concorrenzialità meno marcato lasceranno poche alternative ai consumatori, ma in generale appare difficile imputar colpe a chi specula quando ci troviamo innanzi a crisi tanto vaste e dirompenti, se di colpe si può parlare in presenza di liberi scambi fra adulti consenzienti.
    La domanda dei consumatori, che come detto limita le speculazioni, è a sua volta limitata dalla quantità di denaro che questi hanno a disposizione nelle loro tasche. Eccolo qua il nocciolo della questione: la disponibilità o l’offerta di denaro. Se l’inflazione fosse dovuta all’offerta di beni, allora l’offerta globale dei prodotti dovrebbe essere per forza di cose in picchiata, sì da comportare un aumento dei prezzi. Dal momento però che, in generale, l’offerta dei prodotti sul mercato globale sta aumentando vistosamente, l’origine dell’inflazione è da ricercarsi nella domanda, il cui fattore principale è per l’appunto l’offerta di moneta. Quest’ultima viene manipolata attraverso l’espansione del credito bancario alle imprese: le banche a riserva frazionaria creano nuova moneta dal nulla, senza dover produrre e vendere servizi come ognuno di noi è invece costretto a fare quotidianamente. I fondi prestati in questo caso non sono risparmio, non sono cioè una parte della moneta già esistente che viene semplicemente trasferita fra soggetti diversi, ma vanno ad aumentare artificialmente l’offerta. E come sempre, quando aumenta l’offerta, il prezzo del bene, in questo caso il prezzo della moneta – ossia il suo potere d’acquisto – non può che diminuire. Tale cambiamento però, a differenza di quel che accade con gli altri beni,non porta alcun beneficio sociale, in quanto la moneta, in buona sostanza, è utile solo per il suo valore di scambio e non per una sua utilità “reale”.

    * oltre ad incidere sul potere d’acquisto, l’emissione di moneta non finanziata da risparmio volontario conduce ad una distorsione dei tassi di interesse che “disorienta” gli imprenditori. I tassi di interesse sono infatti una delle fonti di informazione più importanti per chi deve operare scelte quotidiane in un contesto competitivo.
    I tassi dipendono dalle preferenze intertemporali degli individui: chi preferisce il “tutto e subito” avrà un alto tasso di preferenza intertemporale, chi è invece più previdente avrà una maggiore propensione all’investimento e dunque una preferenza intertemporale più bassa. Sul mercato si formerà un tasso di equilibrio, rispondente alle preferenze temporali degli individui.
    Le banche, al fine di allocare la moneta di nuova emissione (che altrimenti non sarebbe appetibile), spingono il tasso di interesse verso il basso, come se le preferenze intertemporali degli agenti economici fossero nel frattempo mutate, e vi fosse un aumento dell’offerta di fondi risparmiati. In realtà così non è, e gli imprenditori, che quando aumenta il risparmio tendono ad investire in processi produttivi più lunghi spostando risorse dai settori che producono beni di consumo a quelli che producono beni capitali, finiranno col dare il là a progetti che non avrebbero altrimenti intrapreso, e che si riveleranno fallimentari non appena gli agenti economici cominceranno a spendere i loro redditi secondo le precedenti proporzioni consumo/investimenti.
    Ecco spiegata l’esplosione di errori, ed ecco anche spiegato perché sono le imprese che producono beni capitali a soffrire prima e più intensamente rispetto alle altre.


    Le banche sono pertanto l’indiziato numero uno, nella nostra “caccia al colpevole”: ma come possono gli istituti di credito operare in tal modo? Semplice, grazie all’intervento dello Stato, che con l’istituzione delle Banche Centrali ha messo in piedi una truffa estremamente raffinata ai nostri danni.
    In un mercato veramente libero da interferenze statali, creare moneta dal nulla non sarebbe impossibile, ma una banca che non onorasse i propri impegni verrebbe giustamente sanzionata come si confà ad un ladro, ad un truffatore, ad un falsario. Inoltre, come fa notare ancora Rothbard in “La Scuola Austriaca contro Keynes e Cambridge”, “se le banche fossero veramente competitive, ogni espansione del credito da parte di ciascuna porterebbe velocemente i suoi debiti nelle mani dei suoi concorrenti, e questi ultimi reclamerebbero presto la restituzione del contante”, il che stroncherebbe sul nascere l’inflazione.
    La Banca Centrale fa sì invece che tutto questo non accada: le sue banconote aumentano infatti il circolante dell’intero sistema, consentendo alle banche commerciali di espandere il credito potendo contare su una più ampia base di contante.

    << Ma la Banca Centrale è costituita da privati!>>, sbotta a questo punto il marxista di turno impugnando l’elenco degli azionisti di Banca d’Italia: balle.
    La Banca Centrale è un cosiddetto “istituto di diritto pubblico”: le nomine sono a cura del Governo, gli utili finiscono in gran parte nelle casse statali, ed il potere di emettere banconote in regime di monopolio, la vera essenza del potere degli Istituti Centrali, è conferito ad essa dallo Stato.
    Senza Stato, molto banalmente, la Banca Centrale non avrebbe ragion d’essere, ed il discorso vale anche per la “neonata” Banca Centrale Europea. Sostenere pertanto che le loro nefandezze siano figlie della perversione di privati scarsamente controllati è ingenuo, se non truffaldino.
    La soluzione per uscire dalla crisi qual è, vi domanderete a questo punto? Laissez faire, laissez faire, laissez faire: abolizione delle Banche Centrali, ritorno al gold standard, stop alle interferenze governative sul libero mercato. Lasciar “sfogare” la crisi in modo che le distorsioni indotte dall’intervento statale siano riassorbite sarà doloroso, ma solo così potremo recuperare livelli di vita accettabili ed incamminarci, da uomini finalmente liberi, verso un futuro più prospero.

  4. #4
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    Le crisi economiche sono periodi di crescita economica bassa o perfino negativa.
    Che cosa sarebbe la crescita negativa?
    Un ossimoro: e poi?

  5. #5
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    Le crisi sono dovute al fatto che non esiste la società perfetta che replica se stessa all'infinito: si creano sempre degli squilibri, che creano delle crisi, che danno luogo a cambiamenti e nuovi assetti economici più adatti alla contingenza storica che rilanciano l'economia.
    Fine.


  6. #6
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    Mi è stato detto che, fra le tante lezioni in piazza svolte di questi tempi, ce ne è stata pure una di un mio professore che si occupa di sistemi dinamici e che dimostrava che il libero mercato (perlomeno nella sua modellizzazione) sia un sistema caotico (leggasi, per il profano: che non tende ad alcun equilibrio, un po' come il clima metereologico oscilla fra bello e cattivo tempo senza assestarsi su nessuna condizione stabile). Se vi interessa posso documentarmi.
    There is no calamity greater than lavish desires.
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  7. #7
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    a parte che la modellizzazione del libero mercato è un esercizio da neoclassici segaioli mentali, giacchè economia è azione umana e l'azione umana si presta male alla modellizzazione, che l'equilibrio non sia mai raggiunto a causa della continua variazione di dati e informazioni è quasi banale da comprendere...questo nn mi pare però incida sull'esistenza di una tendenza verso quello stato mai poi raggiunto.

  8. #8
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    Citazione Originariamente Scritto da azerty Visualizza Messaggio
    Le crisi sono dovute al fatto che non esiste la società perfetta che replica se stessa all'infinito: si creano sempre degli squilibri, che creano delle crisi, che danno luogo a cambiamenti e nuovi assetti economici più adatti alla contingenza storica che rilanciano l'economia.
    Fine.
    Con tutta la cautela del caso, per il termine, la definirei una considerazione di " buonsenso".
    Perchè dovrebbero rilanciare l'economia? Subito? O dopo mutamenti anche robusti nell'assetto sociale?
    E ancora una domanda, a mio avviso interessante: c'è un'economia per tutti?
    Certo anche la miseria è un aspetto economico - poco apprezzabile dal misero.
    Quindi un punto di vista orientato. Per chi? A cosa mirerebbe?

  9. #9
    Can che abbaia morde
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    Citazione Originariamente Scritto da Skepto Visualizza Messaggio
    Mi è stato detto che, fra le tante lezioni in piazza svolte di questi tempi, ce ne è stata pure una di un mio professore che si occupa di sistemi dinamici e che dimostrava che il libero mercato (perlomeno nella sua modellizzazione) sia un sistema caotico (leggasi, per il profano: che non tende ad alcun equilibrio, un po' come il clima metereologico oscilla fra bello e cattivo tempo senza assestarsi su nessuna condizione stabile). Se vi interessa posso documentarmi.
    Grazie: sarebbe interessante.

  10. #10
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    Citazione Originariamente Scritto da azerty Visualizza Messaggio
    Le crisi sono dovute al fatto che non esiste la società perfetta che replica se stessa all'infinito: si creano sempre degli squilibri, che creano delle crisi, che danno luogo a cambiamenti e nuovi assetti economici più adatti alla contingenza storica che rilanciano l'economia.
    Fine.

    beh, ma dovremo pur indagare le cause di questi squilibri, prenderne atto e amen non mi pare il massimo...

 

 
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