Marco, ottant’anni con l’altra Italia
di Federico Orlando
Il 2 maggio Marco Pannella fa ottant’anni. L’avevo preceduto sul traguardo a fine 2008, così mi
feci in regalo una lettera, indirizzata a lui, che la mostrò lietissimo nella fortezza ombrosa di Torre Argentina.
«Ti scrivo prima che sia troppo tardi (parlo per me, s’intende)». Volevo ri-formalizzare il dialogo con lui, dopo la separazione di mezzo secolo prima, dicembre 1955, l’anno del processo per "adulterio" a Fausto Coppi e a Giulia Occhini. Lui era uscito venticinquenne dal partito liberale, con Pannunzio, Carandini, Cattani, Ferrara, Scalfari -, poi sarebbe uscito anche da loro (divergenze, caratteri), per fare un suo partito radicale. E io invece ero rimasto alla "guida" della gioventù liberale di via Frattina, nonostante che Malagodi strappasse al ciclostile le mie
circolari ai ragazzi per il 20 settembre o per 1`11 febbraio, fresco di laurea sulle leggi Siccardi contro i privilegi ecclesiastici, conferitami da Arturo Carlo Jemolo. Bisogna essere cauti, cercava di spiegare Malagodi, inteso a rafforzare le alleanze coi successori di De Gasperi e a prevenire il loro abbraccio con Nenni.
Nella mia lettera, chiedevo a Marco la doppia tessera Pd-radicali. Nei cinquant’anni di complicità laica, passati senza relazioni formali, i nostri incontri erano avvenuti sui fatti, sui grandi temi, sui giornali, nelle piazze, mai nei sinedri. Marco suonava la tromba di guerra dagli spalti di Torre Argentina, noi la riecheggiavamo nelle nostre case liberali, socialiste, comuniste,
repubblicane, ereticali, attenti ai decibel perché non lesionassero le mura: come accadeva ai
"cattolici del dissenso" (dom Franzoni, Scoppola, Elia, Lipari). Senza di loro, sarebbero state ancora più difficili le svolte della modernizzazione - divorzio, obbiezione di coscienza, aborto legale, nuovo diritto di famiglia, uguaglianza e parità uomo-donna, abrogazione del delitto d’onore, stupro come reato contro la persona e non più contro la morale, legge elettorale -, in un paese feudale qual era tornata l’Italia dopo il concordato di Pio XI e il razzismo di Mussolini.
La chiave delle vittorie furono le grandi coalizioni trasversali, non solo quelle in parlamento, ma
quelle nuove nel paese. Fu l’invenzione di Pannella. Le impose come politica parallela a quella
delle maggioranze e minoranze parlamentari. «Non avevo immaginato nella mia vita di dover fare un comizio con Malagodi», annotò nei suoi "Diari" Pietro Nenni la sera del grande raduno per la vittoria nel referendum, contro la richiesta clerico-missina di abrogare la legge (conquistata in parlamento) sul divorzio. C’erano sul palco, col leader radicale, il segretario del Pli, appunto, Berlinguer, Nenni, Fortuna, Baslini, La Malfa e gli altri. Per trent’anni Marco ha convinto il paese a manifestarsi con due maggioranze, una per fare leggi in parlamento l’altra per confermarne, abrogarne e farne altre nel paese. I suoi sbandamenti nella seconda
repubblica, tra Berlusconi e Prodi, furono forse un postumo di quel trasversalismo positivo. La
conseguenza del nebbione che cadde sull’Italia di Tangentopoli fu anche questa, forse: che Marco non s’accorse, o non volle credere, che la Pangea (così la chiamava Teodori) del mondo laico-riformista, preparata dalle maggioranze trasversali, forse era lì lì per essere raggiunta dalla caravella e fu invece oltrepassata da un Colombo distratto da isole minori: come
quell’eccentrica lotta per prolungare il "parlamento degli inquisiti", fatalmente sfociata nel rassemblement berlusconiano del 1994. Ciò rafforzava negli italiani i caratteri guicciardiniani del particulare e dell’utile, e nulla avrebbero più detto il Burkina Faso, i montagnard indocinesi, i monaci tibetani e perfino battaglie più generali di libertà, che i radicali continuavano a combattere quasi da soli, fame nel mondo, pena di morte, mutilazioni genitali femminili, carceri, nuovo schiavismo. Tutte più o meno snobbate da un paese nelle cui viscere nere l’egoismo si cronicizza in berlusconismo.
Quella nebbia che aveva fatto perdere alla caravella la Pangea laico-riformista, offuscò anche la distinzione, fin lì rimasta chiara, fra le due maggioranze, quella nelle aule e quella nel movimento. Al punto che un orientamento antipartitocratico del paese, coda dei
referendum contro la proporzionale del 1991 e del 1993, fu scambiato come possibilità di portare Emma Bonino al Quirinale, dove invece si andava e si va – anch’io votai Ciampi - solo dal parlamento.
Cioè dalla maggioranza fra i partiti. E ha indotto più di recente, e al contrario, quasi a sottovalutare la migliore performance laica e pannelliana dell’ultimo ventennio, la vittoria della Bonino a Roma nelle regionali: a riprova che la Pangea c’è, ma attende di essere conquistata.
La vittoria laica trasversale nella capitale delle due realtà avrebbe potuto essere completa con minori distrazioni e disimpegni: che ci hanno fatto ricordare le riluttanze dei tempi del divorzio,
quando solo l’estrema fermezza di Marco, di qualche combattente solitario come Fortuna e Baslini, e dei nuovi movimenti sociali, riuscìa impedirne la svendita, già pronta con una "legge Carrettoni". Con quel realismo idealistico degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, il
"pannellismo" era davvero funzione pubblica di recupero di tutte le arretratezze del paese.
L’amata-detestata leadership di Marco, generale senza divisioni, era leadership nel paese, in aspra e produttiva dialettica con le leadership nel parlamento. Chissà se, alzando a suo tempo la bandiera trasversale (ben più che "terza forza") dell’unità dei riformatori, oggi la liberaldemocrazia non sarebbe in Italia la puttana che va a letto con Putin in casa Berlusconi, ma la forza decisiva di governo, come in Germania, come a giorni, forse, nel Regno Unito. Ma, per evitare altri sospiri e lamenti, che dalla politica debbono star fuori come i sogni, non mi resta che chiudere. E spedire il mio personale regalo di compleanno a Marco: 200 euro per rinnovare la doppia tessera al Partito radicale. Sperando che ne trovino l’indirizzo preciso nella
"Galassia", di cui, testa dura abruzzese anch’io, continuo a non voler capire e sapere (quasi) niente.
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