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Discussione: Salvataggi di Stato

  1. #1
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    Predefinito Salvataggi di Stato

    Verso il decollo


    La Cai è cara ma speriamo che voli bene e attiri un partner di livello

    di Giuseppe Pennisi
    4 Dicembre 2008




    Un’analisi dell’Istituto Bruno Leoni Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE MicrosoftInternetExplorer4 (PDF) riapre il dibattito sui costi della "privatizzazione" dell’Alitalia. Lo studio, curato da Andrea Giuricin, fellow dell'IBL sostiene che "contrariamente a quanto affermato dal Commissario Augusto Fantozzi, il debito del gruppo Alitalia è di 3,8 miliardi di euro, di cui ben 3 miliardi in capo alla stessa Alitalia. L'offerta Cai consiste di circa 1,05 miliardi di euro e il Commissario ha detto di poter ricavare altri 600/700 milioni di euro dalla vendita degli altri asset. I crediti non recuperabili sono quindi superiori a 2 miliardi di euro come anche lo stesso Istituto Bruno Leoni aveva stimato ad inizio settembre".
    A questi costi si aggiungono i numerosi regali disseminati sulla strada per CAI, e le interpretazioni delle norme per consentire il passaggio di Alitalia nelle mani della cordata. Secondo Giuricin, "il costo del fallimento con una procedura trasparente senza trattativa privata sarebbe stato molto inferiore ai 7 miliardi di euro che nel complesso costa la soluzione “"all'italiana" adottata .Secondo Giuricin: "è stato commesso infatti un grave errore nella legge di conversione del decreto legge 133/2008, la cosiddetta <Salva Alitalia>" nella legge 166/2008 da parte del Parlamento. Secondo l'articolo 1 comma 10, CAI prende la licenza di Alitalia; tuttavia in questo modo non c'è discontinuità aziendale e quindi il nuovo operatore dovrà farsi carico di tutti i debiti Alitalia, cioè i 3,8 miliardi di euro."
    I calcoli sono certamente accurati ma qualche dubbio in merito alla dimostrazione giuridica della continuità aziendale (tra l’ex-compagnia di bandiera e la nuova aviolinea italiana) che verrebbe offerta dalla norma secondo cui la licenza passa da Alitalia alla Cai è legittima. Molto probabilmente si tratta di una di quelle questioni di lana caprina che possono fare discutere legulei e barracuda-esperti per anni- sino a quando il progresso tecnologico avrà verosimilmente cambiato lo scenario di base del trasporto aereo. Sono anche d’accordo con Giuricin che a fine 2006 (quando iniziò il complicato ed inconcludente “beauty contest” organizzato dal Governo Prodi) sarebbe stato molto più conveniente passare tramite una procedura fallimentare e la vendita delle attività di Alitalia (aerei, immobili, slot) al maggiore offerente (verosimilmente o AirFrance-Klm o Lufthansa). Anzi, avrebbero dovuto farlo diversi anni prima i Governi D’Alema ed Amato nel 1998-2001. Da allora, però, (ed anche dal dicembre 2006) molto acqua è passata sotto i ponti. E soprattutto, lo scenario della navigazione aerea è cambiato. Il mutamento è rapido, come suggeriscono le insistenti voci di una fusione Bristish Arways-Iberia-American Airlines (già coniugate) e Qantas.
    Occorre porre la Cai ed i costi finanziari sui contribuenti pertinenti al suo decollo nel contesto di ciò che sarebbe verosimilmente avvenuto se la cordata non si fosse costituita e chiedersi quali sarebbero state le opzioni reali (in termini di opportunità e di minacce) per il Paese. Si tratta di costruire quelli che esperti di strategia (e di “intelligence” – modo elegante per chiamare lo spionaggio) definiscono “scenari controfattuali” (ossia “ciò che sarebbe avvenuto se…..). Noi economisti non siamo particolarmente bravi a costruire “scenari controfattuali “. Gli esperti di finanza lo sono ancora meno; (la prova si ha nella crisi finanziaria mondiale). Sia gli economisti sia gli uomini di finanza sono, in questo campo, meno dei militari e delle spie.
    Possiamo, però, azzardare alcune ipotesi, prendendo l’avvio dalla situazione come si presentava la primavera scorsa dopo l’”adieu” di AirFrance-Klm di fronte all’oltranzismo sindacale. Lo scenario controffattuale più verosimile era il fallimento seguito dalla svendita degli assetts proprio a AirFrance-Klm oppure il loro spezzatino di qua e di là con una perdita di almeno 30.000 posti di lavoro (solamente nel Lazio) ed altri 10-15.000 altrove in Italia (includendo ovviamente l’indotto). Sarebbe stato ciò fattibile, con un Governo appena insediato, e radicate tendenze interventiste nella società italiana? Oppure avrebbero finito per averla buona i fautori di ulteriori salvataggi se non di una nuova nazionalizzazione o della cessione di Alitalia a qualche cooperativa di piloti, assistenti di volo ed altro personale?
    A chi faceva presenti gli alti costi dell’istruzione a Marc Blondel, leader del sindacato anti-comunista Force Ouvrière, il nostro rispondeva il costo economico e sociale dell’ignoranza è verosimilmente ancora di più. Analogamente la Cai è cara – e forse un giorno AirFrance-Klm ne sarà l’azionista di riferimento. Ma ci siamo bruciati tra il 1998 e il 2001 opzioni economiche reali molto meno care per poi fare un pasticciaccio nel 2006 con Prodi. Ed oggi non ci resta che sperare che voli bene ed attiri un partner industriale di livello.

    http://loccidentale.it/articolo/la+c...i+bene.0062626

  2. #2
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    General Motors, Ford e Chrysler


    Negli Usa i colossi dell'auto chiedono di nuovo soldi

    3 Dicembre 2008





    General Motors, Ford e Chrysler chiedono soldi. Tanti, per giunta. Sono infatti 34 i miliardi di dollari richiesti dai Big Three di Detroit per far fronte alle perdite. Senza di essi, i vertici di GM e Chrysler prevedono il fallimento entro la fine del mese. Prontamente, nel Congresso è scoppiata la querelle se aiutare o no un mercato che mostra sempre più i segni di un cedimento profondo.
    Dopo una prima richiesta di 25 miliardi di dollari, complessivamente, le tre sorelle dell’automotive statunitense hanno deciso di andare avanti e chiedere di più. General Motors, tramite il suo amministratore delegato Richard Wagoner, ha fatto domanda per l’apertura di una linea di credito con valore immediato di 4 mld, per poi proseguire con un prestito agevolato di 14 mld, per un totale di 18 miliardi. Sulla stessa linea d’onda Ford che ha richiesto 9 miliardi di dollari al Congresso, più circa 5 miliardi che si otterrebbero dal programma del Dipartimento Energia per la promozione dei veicoli a basso consumo ed alta efficienza. Analoga situazione per il gruppo di Robert Nardelli, Chrysler. Infatti, il prestito agevolato desiderato dall’ex partner di Daimler si aggira intorno a 7 miliardi, da stanziare necessariamente entro il 31 dicembre. A questi se ne aggiungono ulteriori 6, ricavati sempre dal programma di efficienza energetica per il mercato automobilistico. Il totale, escludendo il piano ambientale, è di 34 miliardi di dollari, 9 miliardi in più rispetto a due settimane fa. Il rischio concreto, specie secondo GM e Chrysler, è quello di non arrivare all’Epifania, senza gli aiuti: la riduzione degli ordinativi e la chiusura straordinaria di numerosi stabilimenti durante il periodo natalizio sono il preludio al fallimento. Contribuisce alla causa anche la flessione del mercato europeo, considerato stabile fino a sei mesi fa, mentre ora ha registrato pesanti contrazioni della domanda, fattore che ha costretto case come Fiat o PSA Group a serrare i propri stabilimenti per il Natale e ridurre i volumi produttivi per l’anno in corso e per il prossimo, anche oltre il 20%.
    Numerosi analisti di Miller Buckfire & Co, studio specializzato in fallimenti, hanno stimato in 40 miliardi la cifra necessaria per evitare l’iscrizione al Chapter 11 del Bankruptcy US Code, le procedure fallimentari, delle tre società. I veri problemi sono due: i costi per i contribuenti e l’estrema voracità di GM, Ford e Chrysler. Sul primo si sono già espressi numerosi esponenti del Congresso, fra cui la presidente della Camera Nancy Pelosi, la quale ha ricordato che, nonostante sia favorevole ad un aiuto, a questo deve seguire un modello industriale differente da quelli visti finora. Si, perché nell’occhio del ciclone vi sono proprie le gestioni amministrative e finanziarie dei Big Three. Fra tutte, Ford sembra quella messa meglio, con un bilancio non in rosso spaventoso come le sue sorelle. Questo perché ha ipotecato assets per quasi 25 miliardi di dollari lo scorso anno. Anche su fronte delle vendite di auto in novembre, calate fino al 47% di Chrysler, Il gruppo di Alan Mullaly ha perso solo il 30%, contro una media di mercato del 37%. Anche per questo, Ford non ha richiesto immediatamente l’apertura del credito nei confronti del governo, ma ha parlato di piano di sostegno in caso di una recessione peggiore delle aspettative.
    Ma se c’è un attore che, tutto sommato, sembra non aver urgenza di liquidità, ve ne sono altri due che invece la cercano disperatamente. I debiti di GM, secondo le stime di Moody’s, ammontano a 30 miliardi di dollari, sta pensando di vendere o chiudere marchi come Saab e Pontiac. Il piano di rientro prevede il pareggio di bilancio solamente nel 2012, sempre che non viri verso lidi peggiori la congiuntura. Chrysler, invece, ha estremo bisogno di liquidità, ma non è in una situazione pari a quella della casa condotta da Wagoner.
    Dopo le incessanti richieste al Congresso, per ora non accolte, si sta prospettando una nuova fase, quella dell’elemosina. Wagoner su tutti, sta cercando di raccogliere fondi, soldi, spiccioli, per evitar un fallimento che potrebbe costare milioni di posti di lavoro. Da una parte, quindi, un settore che ha fatto sberleffi dei concetti di economicità e produttività, incuranti di aprire posizioni borderline. Dall’altra parte v’è tuttavia un sistema governativo le cui casse non sembrano essere in grado di sostenere un ennesimo esborso di denaro. Dopo il piano Paulson, dopo il piano Fed per il credito al consumo, un altro salvataggio del mercato automotive quanto graverebbe sulla testa degli americani?
    http://loccidentale.it/articolo/negl...+soldi.0062600

  3. #3
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    tutti questi costi sono dissimulati nei bilanci pubblici degli Stati grazie alle manovre monetarie delle bance centrali che riducono il costo del denaro non per ridare fiducia o indurre le banche a ridurre il costo dei mutui, ma per nascondere, grazie alla riduzione del costo del servizio del debito pubblico, l'ulteriore aumento dello stesso che sentiremo ad emergenza finita..

    Dove sono finiti i Quintino Sella e i governi risanatori dei conti pubblici?

  4. #4
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    Citazione Originariamente Scritto da Hayekfilos Visualizza Messaggio
    tutti questi costi sono dissimulati nei bilanci pubblici degli Stati grazie alle manovre monetarie delle bance centrali che riducono il costo del denaro non per ridare fiducia o indurre le banche a ridurre il costo dei mutui, ma per nascondere, grazie alla riduzione del costo del servizio del debito pubblico, l'ulteriore aumento dello stesso che sentiremo ad emergenza finita..

    Dove sono finiti i Quintino Sella e i governi risanatori dei conti pubblici?
    Illuminante. Al posto di Sella, abbiamo il commercialista di Berlusconi.

  5. #5
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    In tempi di crisi

    Quanto ci costa la recessione

    di Fabrizio Goria


    27 Novembre 2008




    Quanto ci costerà la recessione in cui siamo? Qual è la differenza fra una crisi economica ed una recessione tecnica, termine sempre più ricorrente? Che i costi, anche per l’economia reale, della crisi dei mutui subprime, sarebbero stati elevati, lo si era intuito fin da subito, ma si possono quantificare? Un numero è stato scritto ed è rappresentato dal dato relativo il Pil reale atteso per il 2009, per l’Italia. Secondo l’Ocse, la variazione negativa è stimabile in un punto percentuale, vale a dire circa 10 miliardi di euro rispetto l’anno in corso (Pil prezzi costanti, dati IMF), una cifra che però non chiarisce abbastanza questa fase del ciclo economico. L’idea di base è che, nemmeno fra gli addetti ai lavori, ci sia particolare sicurezza sui numeri. Troppe le variabili in gioco, troppa la straordinarietà dei default del mercato finanziario americano per avere un quadro certo dell’esposizione totale. Eppure, possiamo cercare di osservare quali potrebbero essere i maggiori oneri derivanti dalla crisi senza avere la presunzione di essere al pari di Nostradamus.
    Chiarendo cos’è una recessione tecnica, ovvero una crescita negativa del Pil per due trimestri consecutivi, si può iniziare considerando alcuni indicatori macroeconomici che aiutano a comprendere la portata di uno shock che, non a torto, è stato considerato il peggiore dal 1929. Solo pochi si addentrano nella strada di indicare un numero che possa testimoniare tutta l’ampiezza del momento. FBR Capital Markets ci ha provato, stimando in oltre mille miliardi di dollari la cifra utile affinché si possa uscire dallo status quo. Nel rapporto presentato, il gruppo americano ha analizzato come il piano Paulson vada ad incentivare in prevalenza il Capitale Tier 1, indice introdotto da Basilea 2 che valuta la liquidità di una banca, mentre mancano ancora delle soluzioni per risolvere i problemi di capitale degli stessi istituti di credito.
    Le borse mondiali hanno bruciato, sul campo, quasi il 50% del proprio valore da inizio anno. Se l’indice Dow Jones a luglio 2007 era a quota 14mila punti, oggi è intorno agli 8mila. A questa cifra vanno aggiunti tutti i miliardi di capitalizzazione perduti nelle sedute di borsa dal luglio 2007 ad oggi e tutti quelli utilizzati per i salvataggi di stato. Miliardi che sono ancora in ballo, dato che la volatilità dei mercati è ancora elevatissima (vedasi il dato sul Vix Index), come dimostrano ogni giorno le fluttuazioni dei titoli, bancari soprattutto. Questo senza contare i costi sociali della crisi, ancora indefinibili. Si, perché non vi è chiarezza nemmeno delle modalità in cui il virus subprime si trasferirà agli altri settori, quali sono immuni e quali no. A tal proposito, cerca di far luce il Fondo Monetario Internazionale.
    Nella revisione di novembre il World Economic Outlook del FMI ha messo in luce tutte le difficoltà delle economie cosiddette avanzate: le stime di crescita per il 2009 sono negative per gli Stati Uniti (-0,8%), l’area Euro (-0,8%) e per il Giappone (-0,7%). Peggiori le previsioni dell’Ocse, giunte proprio ieri: per l’Italia netta recessione per il 2009 (-1%), idem per gli Stati Uniti (-0,9%). Quelle che deve preoccupare di più sono però i dati relativi ad altri indicatori, in questo la fiducia del settore industriale, che testimoniano una generale flessione nella produzione mondiale. Si prospetta quindi un periodo di contrazioni ancora maggiori dei consumi, specialmente di beni durevoli, negli investimenti e perfino in un settore-rifugio, quello delle costruzioni. Proprio quest’ultimo ha registrato una notevole flessione in Eurolandia nel mese di settembre, perdendo l’1,3% rispetto ad agosto. Ed anche sul fronte dei consumi, prendendo ad esempio il caso italiano, si arranca con evidente difficoltà: ci sarà una fase piuttosto lunga di consumi in diminuzione, almeno tre anni. Così evidenzia l’ultimo studio di Confcommercio che prevede il segno meno per l’anno in corso (-0,5%), il 2009 (-0,5%) ed il 2010 (-0,4%). Sulla stessa linea d’onda Confindustria che nell’ultimo outlook sulla produzione industriale ha evidenziato come questa sia diminuita in ottobre, su base annua, del 2,6%, dopo il -5,7% di settembre.
    Cosa accadrà quindi? All’aumento delle restrizioni del credito, sia per le imprese che per il mercato retail, faranno seguito le sempre più frequenti richieste di liquidità da parte del mondo dell’industria. In un tessuto come quello italiano, fatto in prevalenza di piccole e medie imprese, le situazioni complicate si stanno osservando già adesso. Logico che vi sarà un considerevole contraccolpo della recessione sugli investimenti, sui consumi delle famiglie e sul mercato occupazionale. Ma a risentirne saranno anche le casse dello Stato, considerato che i piani di ammortizzazione sociale saranno messi a dura prova dalla nuova fase congiunturale. Ridare fiducia, oltre che credito, ad un’economia in netta caduta sarà uno degli obiettivi più importanti dei governi mondiali. Il tutto senza essere indulgenti coi colpevoli.
    A livello globale, di fronte al crollo di un sistema considerato come uno dei più solidi al mondo, quello delle banche d’affari statunitensi, ci si domanda legittimamente dove va l’economia e quanto pagherà l’uomo della strada per questa crisi. Inutile fornire una risposta adesso, sarebbe più facile centrare una vincita alla lotteria. Quello che è certo, è che ci si deve attendere un notevole ridimensionamento delle nostre economie, anche a partire dal vizio di vivere al di sopra le proprie possibilità attraverso il credito al consumo. Sempre che la Fed non elargisca altro denaro.

  6. #6
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    Krugman: l'industria dell'auto Usa probabilmente scomparira'

    Previsioni pessimiste da parte del premio Nobel

    Previsioni pessimiste da parte del premio Nobel


    Stoccolma, 7 dic. (Ap) - Il premio Nobel per l'Economia Paul Krugman ha affermato che l'industria automobilistica americana, messa in ginocchio dalla crisi internazionale, "probabilmente scomparirà" come effetto delle tensioni geopolitiche. Parlando ai giornalisti a Stoccolma, Krugman ha detto che l'appoggio del Congresso americano alle aziende automobilistiche non è una soluzione a lungo termine, ma il risultato della "mancanza di volontà nell'accettare il fallimento di una grande industria nel pieno di una crisi economica". Comunque, ha aggiunto, gli aiuti governativi sono l'unica risposta possibile all'attuale crisi finanziaria dal momento che il settore privato non è più in grado di mantenersi da solo. Krugman ha vinto il Nobel per l'economia 2008 per la sua analisi degli andamenti commerciali e del posizionamento dell'attività economica. Nel mondo accademico è noto per i suoi studi sulla teoria del commercio e per i suoi libri sulle crisi valutarie e sull'economia internazionale. I democratici al Congresso americano e la Casa Bianca stanno cercando di arrivare a un accordo su un piano di salvataggio da 15 miliardi di dollari per i costruttori auto di Detroit. General Motors, Chrysler e Ford hanno chiesto aiuti al governo per evitare il fallimento.

  7. #7
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    A novembre persi circa 533.000 posti di lavoro, dato peggiore dal '74. Interviene anche Bush per sollecitare al Congresso il piano-auto: "Potrebbero esserci fallimenti"

    Usa, boom di disoccupati
    Obama: "La crisi sarà lunga"





    Washington - La crisi economica in atto "probabilmente prima di migliorare peggiorerà". Lo ha detto il presidente Usa eletto Barack Obama e ne sono convinti anche gli analisti che, alla luce del calo degli occupati in novembre, prevedono una profonda contrazione del pil del quarto trimestre: le stime, dominate da un forte pessimismo, prevedono un maxi-calo della ricchezza nazionale superiore al 5,0%.
    Il pil americano nel terzo trimestre ha segnato una contrazione dello 0,5%.

    "E' incredibile, ci stiamo avviando verso la peggiore recessione dal dopoguerra", spiegano alcuni osservatori, osservando come Obama sarà costretto a considerare un vasto piano di stimolo fiscale, dell'ordine di 1.000 miliardi di dollari. I dati sul mercato del lavoro sembrano aumentare anche la pressione sulla Fed e sul Congresso, impegnato a valutare i piani di riorganizzazione delle tre case automobilistiche di Detroit: il rischio è che se si decidesse di non intervenire per salvare la capitale dell'auto americana, la disoccupazione balzerebbe a livelli ancora più alti, con conseguenze pesanti per l'economia reale.

    La disoccupazione è aumentata al 6,7% a novembre (più o meno quanto si aspettavano gli analisti, che era 6,8) rispetto al 6,5% di ottobre, sulla scia dell'onda lunga della crisi che ha riportato la percentuale dei senza lavoro ai livelli dell'ottobre del 1993. In particolare lo scorso mese si sono persi circa 533.000 posti di lavoro, il calo più consistente dal dicembre del 1974. "Negli ultimi tre mesi - sottolinea l'ufficio di statistica del Dipartimento al lavoro - la media dei posti di lavoro persi si è attestata a 419.000, nettamente superiore alla media di 82.000 Posti di lavoro persi nel periodo gennaio-agosto". Circa due terzi del recente calo dell'occupazione deriva dal settore dei servizi mentre nella prima metà dell'anno il calo riguardava principalmente i settori delle costruzioni e del manifatturiero.

    Un dato che ha dato una forte spinta al ribasso alle Borse e che ha spinto anche il presidente in carica George Bush ad intervenire."E' il segnale che l'economia americana è in recessione", ha detto. Bush ha chiesto al Congresso di "agire la prossima settimana" per il piano di aiuti rivolti al settore automobilistico. Le società però, secondo bush, dovranno compiere delle "scelte difficili" non solo per sopravvivere ma anche per "crescere" in futuro. "Sono preoccupato dalla sopravvivenza delle società automobilistiche", ha continuato, aggiungendo subito dopo di essere altrettanto preoccupato dall'ipotesi "di soldi dei contribuenti versati a quelle compagnie che potrebbero non sopravvivere".

    Bush ha concluso affermando che "è importante che il Congresso agisca la prossima settimana su questo piano. Ed è importante che ottenga la garanzia che i soldi dei contribuenti verranno poi restituiti se verranno versati alle compagnie".


    Obama, da parte sua, ha osservato che "non ci sono rimedi facili o veloci per superare questa crisi, che è covata per molti anni e che probabilmente andrà peggiorando prima di poter vedere segnali positivi.
    Ma ora - ha aggiunto - è tempo di rispondere con misure urgenti per riportare la gente al lavoro e per rimettere in carreggiata la nostra economia. La perdita di 533.000 Posti di lavoro lo scorso mese, la peggiore caduta degli ultimi 34 anni, è un riflesso più che drammatico della crescente crisi che stiamo affrontando. Ognuno di questi posti di lavoro persi - ha concluso il presidente eletto - rappresenta una crisi per una famiglia da qualche parte in America".

    (5 dicembre 2008)
    DA LA REPUBBLICA

    I fallimenti potrebbero invece essere salutari, caro George W.

  8. #8
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    Washington, 18;53 AUTO:CASA BIANCA, SIAMO VICINI AD ACCORDO PER PIANO AIUTI

    La Casa Bianca ha annunciato di essere "molto vicini" ad un accordo sul piano d'aiuti per 15 miliardi di dollari al settore dell'auto. Secondo il portavoce Dana Perino, sono infatti stati fatti passi avanti nel negoziato. "Sembra che abbiamo raggiunto un accordo sui principi basilari che sarebbero necessari per una legge che il presidente potrebbe firmare", ha detto Perino aggiungengo che da parte sua, la Casa Bianca vuole essere sicura del fatto che l'intervento "non indebolisca l'obbligo secondo il quale qualsiasi finanziamento a lungo termine venga riservato solo alle imprese che hanno un piano praticabile e credibile".
    08 dicembre 2008

    DA REPUBBLICA.IT - AFFARI & FINANZA

  9. #9
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    ILSOLE24ORE.COM > Finanza e Mercati ARCHIVIO Ue: via libera alla Francia
    sui bond pubblici salva-banche





    | 8 dicembre 2008




    L'Antitrust europeo ha dato l'ok al piano di Parigi per rafforzare gli istituti di credito. Previste emissioni con tasso medio all'8%

    La Commissione europea ha autorizzato il regime francese di rafforzamento dei fondi propri delle sei banche principali. Lo Stato sottoscriverà titoli ibridi emessi dagli istituti remunerati a tasso fisso per cinque anni e successivamente a tasso variabile. La remunerazione sarà in media dell'8% e terra conto del grado di solvibilità di ciascuna banca.

    La Francia apre la strada in Europa
    Il via libera dell'Antitrust europeo al piano francese, oggetto negli ultimi giorni di forti polemiche tra Parigi e Bruxelles, apre la strada ad altre autorizzazioni (Austria e poi Germania se il governo apporrà delle modifiche al piano presentato anche in relazione a Commerzbank) ed è il primo dopo la pubblicazione delle nuove linee guida per le ricapitalizzazioni bancarie. Gli istituti interessati sono BnpParibas, Societè Generale, Credit Agricole, Caisse d'epargne, Banque Popoulaire e Credit Mutuel. Nel braccio di ferro sul prezzo dell'iniezione di capitale pubblico negli istituti che sono fondamentalmente in equilibrio e sani, ma che a causa della crisi finanziaria sono sottoposte a forti pressioni per aumentare i mezzi propri, Bruxelles aveva indicato un tasso del 10%, Parigi puntava all'8%.

    Prestiti a tasso medio dell'8%
    Le autorità francesi assumeranno partecipazioni sottoscrivendo titoli di debito subordinato classificato «non core Tier 1» (capitale ibrido). La remunerazione dell'8% medio terrà conto di tre fattori: grado di solvibilità attraverso la componente «credit default swaps» che modula la remunerazione in funzione del grado di rischio. L'intervento potrà arrivare fino a 21 miliardi di euro, ma Parigi ha annunciato che si limiterà «in un primo tempo» a 10,5 miliardi.
    Secondo Bruxelles il meccanismo concordato con Parigi comporta degli obblighi per le banche beneficiarie in materia di finanziamento dell'economia reale e a questo fine si prevede, come anticipato nei giorni scorsi dal governo francese, un meccanismo di mediazione per assicurarne il rispetto.

    Tra le condizioni il taglio agli stipendi dei dirigenti
    Le banche dovranno impegnarsi a definire misure sulle remunerazione dei vertici e degli operatori di mercato, «trader» compresi e a rispettare regole etiche che comportano «restrizioni alle remunerazioni dei dirigenti». Saranno limitate anche le indennità di uscita dei dirigenti mandatari e proibite quelle di uscita in caso di fallimento dell'impresa o di errori del dirigente in questione o di dimissioni volontarie. «Livello della remunerazione dei titoli, meccanismo di rimborso del capitale assicurano che la presenza dello stato nel capitale delle banche sia limitato nel tempo allo stretto minimo necessario».

    Ue: il piano garantisce il sostegno all'economia reale
    Per Bruxelles l'intero schema è compatibile con le regole Ue e «fornisce garanzie sufficienti che i capitali messi a disposizione dello stato siano effettivamente usati per finanziare l'economia reale senza provocare distorsioni indebite della concorrenza». Non viene fatto alcun cenno alla politica dei dividendi. Antonio Pollio Salimbeni (Il Sole 24 Ore Radiocor)

  10. #10
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    DA LA REPUBBLICA
    Ma non si tratta di un incentivo a fondo perduto: i soldi andranno restituiti
    E Gm, Ford e Chrysler dovranno affrontare una ristrutturazione senza precedenti


    15 miliardi di dollari all'auto Usa
    Via al piano di salvataggio


    di VINCENZO BORGOMEO




    Quindici miliardi di dollari. Alla fine il congresso Usa ha dato l'ok per il gigantesco piano di aiuti all'industria dell'auto. Un progetto a due facce però: da un lato arriva una valanga di quattrini per GM, Ford e Chrysler, dall'alta le tre big si devono impegnare in un processo di ristrutturazione senza precedenti. E per capire quanto in America facciano sul serio su cose del genere basti dire che il governo ha già previsto la nomina di un super commissario per gestire la profonda ristrutturazione.

    BLOG: Aiuti molto diversi da quelli nostri. Chi sbaglia? Dite la vostra


    Una figura di grande potere e non di facciata: questa specie di Zar ha la possibilità di decretare il fallimento delle società se il piano di ristrutturazione non sarà credibile e non sarà presentato entro il mese di marzo. Non solo: sarà sempre questo commissario a ad autorizzare tutte le spese superiori ai 25 milioni di dollari. In pratica tutto, dal lancio di nuovi modelli all'apertura di nuove fabbriche. In più alle case automobilistiche viene anche richiesto l'impegno formale di rinunciare a sporgere denuncia contro eventuali leggi statali sull'effetto serra.

    I dettagli di questo accordo si conosceranno in giornata ma si sa che il programma prevede un finanziamento sotto forma di prestito, al 5% per cinque anni e al 9% per i rimanenti due. Una cosa è certa: questi non sono certo aiuti a fondo perduto.

    Intanto continuano anche le pressioni per ottenere il licenziamento dei Ceo dei tre gruppi, primo tra i quali del numero uno di Gm Richard Wagoner. Solo lo storico ex Ceo della Chrysler, Lee Iacocca, 84 anni, l'uomo che negli anni Ottanta aveva salvato dal fallimento il gruppo, sostiene gli attuali management debbano rimanere in carica. "Non sono d'accordo con l'idea emersa al Congresso, secondo la quale un cambio della dirigenza rappresenta una delle condizioni per ottenere il prestito", ha detto Iacocca, secondo cui "i gruppi forse non sono perfetti, ma chi li dirige sono gli unici a possedere l'esperienza, la conoscenza approfondita e la comprensione del vero funzionamento dell'industria dell'auto".

    A Iacocca ha fatto eco lo svizzero Bob Lutz, uno dei vicepresidenti della Gm, ex presidente della Chrysler, ex vicepresidente della Ford, secondo cui Wagoner ha in realtà fatto un lavoro eccezionale. Se bisogna licenziare qualcuno - sostiene il veterano di Detroit - pensiamo allo stesso Lutz, ormai giunto alla venerabile età di 76 anni. Vedremo come finirà. Ma una cosa è certa: la battaglia è ormai cominciata.

    (10 dicembre 2008)

 

 
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