Phillip Blond
L'ascesa dei Red Tories
Prospect, 28 febbraio 2009
Viviamo in un’epoca di crisi. In periodi del genere la gente si rifugia nella sicurezza, ed edifica barricate contro il futuro. L’emergenza finanziaria sta avendo esattamente questo effetto sulla classe al governo in Gran Bretagna. Il partito laburista ha ceduto alla tranquillità dello stato assistenzialista e alle comodità della prima tassa sul reddito che sia mai stata imposta dalla metà degli anni Settanta. Nel contempo, i conservatori sembra stiano tentando di opporsi alla catastrofe economica proponendo una replica dell’austerità alla Thatcher. Ma questa crisi rappresenta ben più di una comune recessione. Equivale al disintegrarsi stesso del concetto di “stato di mercato” e rende assolutamente obsoleto il consenso politico acquisito negli ultimi 30 anni. Oggi quel che serve è un’analisi fresca e rinnovata dell’ortodossia ideologica di governo. Quel che è certo, questa nuova linea di pensiero non è destinata ad arrivare dalla sinistra. Il New Labour è intellettualmente estinto, per quanto Gordon Brown si ostini a promettere l’inevitabile ritorno a uno status quo ormai defunto. In realtà, però, la riconversione di Brown da post socialista sostenitore del libero mercato a fautore dell’interventismo statale è plausibile solo in virtù del fatto che i conservatori non sono riusciti a sviluppare un’economia politica alternativa capace di spiegare le ragioni di questa crisi, e delinea un futuro diverso, esente da ortodossie ormai in disarmo. Finché ciò non accadrà, il punto di vista di Brown secondo cui il partito conservatore sarebbe il partito del “far nulla” ha un suo fascino, e rende gli esiti delle prossime elezioni tutt’altro che scontati.
A un livello più profondo, il momento attuale costituisce una sfida per il conservatorismo stesso. Il partito conservatore è ancora visto come il partito del libero mercato, un concetto che ha finito per scadere nel monopolio finanziario, nell’affarismo e nel capitalismo globale sregolato. L’approccio al sociale dei Tory si è proficuamente evoluto, ma la posizione in materia di economia è ancora sospesa tra reiterazione e rinnovamento. Nell’agosto del 2008 David Cameron affermava: “Sarò radicale nelle riforme sociali quanto Margaret Thatcher lo è stata in quelle economiche”, e “quel che serve al paese in questo preciso momento è una riforma sociale radicale”. Riguardo all’aspetto sociale aveva ragione, ma di fronte a uno scenario di collasso dei mercati e in assenza di un’alternativa macroeconomica, l’economia thatcheriana è stata sconfitta dall’evoluzione degli eventi.
Fortunatamente, però, il conservatorismo ha una tradizione ricca e articolata, e riconsiderarne la storia può fornire a Cameron le risposte di cui ha bisogno. Idee del genere derivano da un conservatorismo che ha radici ben più profonde del 1979, e le cui ramificazioni arrivano fino alla tradizione del conservatorismo civico comunitario, o torysmo rosso. Un approccio ben più radicale di qualsiasi altro caratterizzi la sinistra attuale, e che dovrebbe a rigor di logica essere l’indirizzo per la destra. La possibilità di ristabilire un torysmo radicale e progressista non deve venir meno a causa della recessione economica.
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La crisi finanziaria rappresenta un’opportunità per pensare a un conservatorismo rinnovato, dal disegno nazionale unitario. Cameron sostiene che il suo Tory preferito è Disraeli. Disraeli ha cercato di migliorare una società devastata dall’industrializzazione rampante prodotta dal capitalismo del Diciannovesimo secolo, mentre il principale obiettivo di Cameron (almeno finora) è stato la creazione di un qualcosa profondamente targato Ventesimo secolo: uno Stato disfunzionale ed esautorato. I Tory del Diciannovesimo secolo criticavano il capitalismo liberale, mentre i conservatori del Ventesimo secolo condannano le conseguenze illiberali dello statalismo. Quelli del Ventunesimo secolo, specialmente a fronte dell’attuale crisi, devono prendersela con entrambi se veramente tengono a ciò che più soffre della deregolamentazione del mercato e del potere statale illimitato: la società stessa. Il conservatorismo, così concepito, potrebbe rigettare la politica di classe – la logica della “nostra gente” – e gli interessi di chi già è benestante a favore di una politica nazionale che soddisfi i bisogni di tutti.
È stato Edmund Burke a coniare la famosa definizione del conservatorismo radicale come approccio fondato sulle comunità circoscritte della famiglia e dell’associazione tra cittadini. “L’amore per la piccola cerchia di cui facciamo parte nella società è il primo fondamento dell’affezione pubblica. È il primo anello della catena attraverso cui arriviamo all’amore per il nostro paese e per l’umanità tutta”. È questo l’autentico spirito del conservatorismo di Cameron e, preso seriamente, rappresenta una rottura con la logica monopolista dello stato di mercato. Ma per riconoscere l’essenza di tale innovazione dobbiamo opporci al potenziale del conservatorismo civico comunitario di Cameron proprio con ciò che esso intende trascendere: la corruzione e degenerazione della politica britannica postbellica.
Dal 1945 ad oggi il Regno Unito ha sperimentato due diversi paradigmi di governo. Il primo – il keynesismo promosso dallo Stato – è andato avanti dal 1945 alla crisi petrolifera del 1973 per poi spegnersi definitivamente nel 1979. Il secondo – il neoliberismo – è partito da lì ed è giunto fino alla crisi del debito globale del 2007-2008. Spesso si dà per scontato che questi due modelli rappresentino due punti di vista sul mondo radicalmente diversi e che si escludono a vicenda, eppure a prescindere dalle differenze oggettive essi condividono alcuni importanti presupposti filosofici ed economici, ed entrambi hanno conquistato un favore trasversale. Pensate a che società siamo diventati: siamo una nazione bipolare, uno stato burocratico e centralizzato che governa in maniera disfunzionale una cittadinanza sempre più frammentata, esautorata e atomizzata. Le strutture intermedie del vivere civile non esistono più, e con loro è scomparso l’ideale di Burke di una medietà civica, religiosa, politica o sociale, dal momento che lo stato e il mercato acuiscono il proprio potere alle spese della gente comune. Ma se il socialismo del Ventesimo secolo e il conservatorismo hanno finito per convergere nello stato di mercato, ciò è accaduto come conseguenza degli insistenti dettami della modernità stessa. E la modernità, se non è liberale, non è nulla.
Per capire come sia possibile che l’eredità del liberismo porti sia all’autoritarismo dello stato che a un individualismo atomizzato, dobbiamo prima ricordare che il liberismo filosofico è nato nel Diciottesimo secolo dalla criticità nei confronti delle monarchie assolute. Tale approccio puntava a difendere i diritti dell’individuo dagli abusi arbitrari del sovrano. Ma la tutela della libertà individuale si estremizzò al punto che ognuno fu obbligato a rifiutare i dettami altrui, perché ciò avrebbe semplicemente voluto dire sostituire la legge della volontà di un uomo (il sovrano) con quella di un altro. Stando così le cose, la forma più estrema di autonomia liberale implica il ripudio della società, perché la comunità umana influenza e plasma l’individuo prima che una qualsiasi facoltà sovrana di scelta possa prendere forma. Il concetto liberale di uomo, quindi, è in primo luogo un’idea del nulla: niente famiglia, niente appartenenza etnica, nessuna società o nazione. Ma la gente vera è fatta della società degli altri. Per i liberali, l’autonomia deve venire prima di ogni altra cosa, ma un “sé” del genere è una finzione. Una società così costituita richiederebbe un’autorità centrale potentissima capace di gestire il continuo conflitto tra individui egoisti. Ne deriva che l’inatteso esito di un liberismo illimitato è la più illiberale delle entità possibili: il dirigismo statale assoluto. Anche i liberali più “comunitari” – dai filosofi come Michael Sandel ai politici come Ed Miliband – non possono sostenere una comunità senza un governo forte. Per loro lo Stato è la risposta, quando invece generalmente è ciò che aggrava il problema. L’eredità dell’individualismo liberale è la restaurazione dell’assolutismo che in origine si proponeva di contrastare. Una tragedia filosofica così sintetizzabile: “il re è morto, lunga vita al re”.
I conservatori che credono nei valori, nella cultura e nella verità dovrebbero quindi pensarci due volte prima di definirsi liberali. Il liberismo può essere virtuoso solo se legato a una politica del bene comune, un problema di cui anche i liberali più illuminati - Mill, Adam Smith e Gladstone – sono consapevoli ma che non può essere risolto. Dai principi liberali non può derivare una visione “buona” della vita. Il liberismo illimitato genera un relativismo atomizzato e l’assolutismo dello Stato. Finora sia Tory che laburisti sono stati contaminati dal liberismo, e l’unica vera eredità postbellica sia per la destra che per la sinistra è – e ciò non deve sorprendere – uno Stato centralizzato e autoritario, una società frammentaria e disassociata.
Sia nel pubblico che nel privato, il tratto distintivo degli ultimi decenni è stato determinato da queste tre fasi: il consenso liberale, il persistere del concetto di classe, e il trionfo del monopolio e della speculazione in nome del libero commercio e della modernizzazione. Contro tutto ciò, il nascente conservatorismo civico di Cameron rappresenterebbe la prima rottura radicale con tutti i mali sopra menzionati. Esso è il fulcro attorno al quale potrebbe ruotare il rinnovamento della Gran Bretagna. Ma il suo è un lavoro già monco. Il degrado della nostra società va ben oltre le disfunzioni delle classi meno abbienti. L’anno scorso uno studio di Danny Dorling ha dimostrato quanto l’anomia sia diventata normale, concludendo come “anche le comunità più deboli del 1971 fossero più forti di una qualsiasi comunità attuale”. La nostra è, a tutti gli effetti, una società infranta.
Tuttavia il conservatorismo britannico non deve fare lo stesso errore di quello americano predicando “la morale più il mercato” senza considerare il fatto che il liberismo economico ha spesso rappresentato una copertura del capitalismo e del monopolio, e pertanto è da ritenere altrettanto socialmente dannoso dello statalismo di sinistra. Parimenti, se i conservatori devono togliere potere allo stato di mercato per darlo alla gente, devono sviluppare un “neolocalismo” ardente che si impegni per ridare forza alle comunità e sia capace di dare vita a nuove, ferventi economie locali in grado di sostenere la visione civica del partito.
In che modo accadrà? Quail devono essere le priorità di Cameron, e in che modo egli può riuscire a stabilire un nuovo modello Tory comunitario? Potrebbe partire da quattro linee d’azione: rilocalizzare il sistema bancario, sviluppare capitale locale, aiutare la gente normale ad acquisire nuovi beni e infrangere i grandi monopoli economici. La prima priorità dovrebbe essere un sistema bancario che funzioni. Le banche britanniche non fanno più credito perché sono gravate da 150 milioni di miliardi di sterline di ipoteche in costante svalutazione. Per risolvere questa situazione ci sarebbe bisogno di un nuovo sistema bancario parallelo. Per crearne uno, Cameron dovrebbe annunciare una riconfigurazione delle Poste per ampliarne le attualmente limitate funzioni bancarie, e invertire il processo di privatizzazione avviato da Peter Mandelson. Le Poste sono ovunque popolari, nazionali, legate alla comunità locale e, quel che è l’aspetto cruciale, interamente svincolate da debiti fondati su beni in declino. Le altre banche fornirebbero loro dei prestiti ma, quel che più importa con i tassi di interesse che si avvicinano allo zero, la Banca d’Inghilterra potrebbe utilizzare a un costo minimo “l’alleggerimento” (il “creare moneta”) per sottoscrivere investimenti e ipoteche. Il ricorso alle Poste introdurrebbe una qualche concorrenzialità da settore pubblico.
Certo, il potere di ago della bilancia dello stato aumenterebbe, ma a costo nominale. Se aiuta a porre un freno al calo dei prezzi dei beni (come un ritorno al prestito consentirebbe), qualsiasi investimento di denaro pubblico assicurerebbe i soldi già investiti nel salvataggio di Brown, e sarebbe di gran lunga più efficace di qualsiasi incentivo fiscale. Queste Poste rinnovate potrebbero effettivamente ridare nuova linfa all’economia garantendo prestiti a piccolo margine, e partecipando all’investimento locale piuttosto che alla speculazione globale. Potrebbero addirittura essere localizzate piuttosto che privatizzate, restituendole alle comunità, per ampliare gli investimenti e aumentare la ricchezza in ogni quartiere.
Una volta annunciato il suo piano, Cameron dovrebbe proseguire aiutando le comunità locali a prendere possesso delle proprie risorse. Dovrebbe istituire una nuova classe di fondi di investimento, dedicata alle città e ai paesi specifici. Questi fondi potrebbero diventare dei nuovi centri della finanza locale; piuttosto che investire in Islanda, gli enti locali e altre strutture sarebbero obbligati a depositare lì i fondi pubblici, aumentando la base di capitale locale. Allo stesso modo la proposta dei Tory di nuovo “fondo sociale” potrebbe interagire con queste realtà nelle aree più povere, garantendo delle sacche di microfinanza per chi non ha beni. Si creerebbe così una nuova e genuinamente conservatrice forma di welfare basato sulle risorse che finirebbe per portare a una conclamata indipendenza.
Il passo successivo sarebbe quello di assicurarsi che l’approvvigionamento del governo locale sia destinato a enti locali. Uno studio del 2005 della New Economics Foundation ha dimostrato che ogni sterlina spesa con un fornitore locale ne genera 1.76 localmente, mentre ogni sterlina spesa con un fornitore non locale genera solo 36 centesimi. Un aumento del 10 per cento negli investimenti a livello locale significherebbe un’iniezione di 5.6 milioni di miliardi di sterline nelle economie locali. E se i fondi riuscissero ad emettere anche dei bond, si potrebbe tornare a qualcosa di simile alla potenza delle municipalità del Diciannovesimo secolo (i residenti potrebbero addirittura prendere parte a delle versioni di massa di Dragon’s Den per decidere che investimento fare). Così concepita, la dimensione locale potrebbe aiutare a contrastare la terribile spinta accentratrice di Londra, che risucchia tutto il talento e il denaro dal resto del paese nel proprio congestionato sudest, lasciando altrove il ristagno.
Il passo successivo del conservatorismo è quello di rovesciare la vecchia politica di classe, restituendo il capitale alla forza lavoro. Cameron dovrebbe rifiutare la vecchia trama marxista che dipinge i Tory come indissolubilmente legati a un proletariato privo dei propri diritti civili. Al contrario: i conservatori credono nell’estensione generalizzata del benessere e della ricchezza. Tuttavia la grande catastrofe degli ultimi 30 anni è la dissoluzione del capitale, dei beni e dei risparmi dei poveri: in Gran Bretagna, la percentuale di benessere (escluse le proprietà) a cui ha accesso il 50 per cento più basso della popolazione è crollata dal 12 per cento del 1976 ad appena l’1 per cento del 2003. Un conservatorismo civico comunitario radicale dovrebbe votarsi a invertire questo trend. Ciò implica un rifiuto ponderato della mobilità sociale, della meritocrazia e del linguaggio statalista e neoliberale dell’opportunità, dell’istruzione e della scelta. Perché? Perché secondo tale visione a meno che tu non sia nel cerchio d’oro compreso tra il 10 e il 15 per cento superiore della scala dei contribuenti, sei fondamentalmente un insicuro, un individuo senza successo e senza merito né valore. I Tory dovrebbero lasciare quest’ideologia della bancarotta al New Labour e far proprio piuttosto un comunitarismo organico che gratifichi ogni livello sociale con meriti, sicurezza, benessere e dignità.
(traduzione di Chiara Rizzo)
© (2010) Prospect Magazine
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