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Discussione: Liberalsocialismo

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    Liberalsocialismo, difficile matrimonio di due ideali

    Capisco che le parole possano evolvere e quello che ieri era una cosa oggi è un'altra, ma cosa vuol dire liberalsocialisti? Mi sembra un'antitesi, i liberali non hanno mai detto che sono anche socialisti.

    Paolo Preci, Milano ,

    Caro Preci, il liberalsocialismo è una dottrina politica, ispirata in buona parte da Carlo Rosselli e Guido Calogero, che esercitò un grande fascino su molti intellettuali e su una piccola parte della borghesia italiana, soprattutto fra il 1943 e il 1947. In un recente articolo sull'inaugurazione dell'Archivio di Norberto Bobbio ( La Stampa del 9 ottobre), Alberto Papuzzi ha pubblicato un disegno di Renato Guttuso in cui sono ritratte le persone che nel 1939, riunite intorno a un tavolo rotondo, cercavano di definire le linee di un pensiero che avrebbe avuto una considerevole influenza, di lì a poco, sul movimento di Giustizia e Libertà e sul Partito d'Azione. Le persone del disegno di Guttuso sono Bobbio, Cesare Luporini, Aldo Capitini, Umberto Morra, Guido Calogero e lo stesso pittore, di cui si vede soltanto la nuca. Il luogo dell'incontro è la villa di Umberto Morra di Lavriano nei pressi di Cortona, un grosso casolare dell'Ottocento che il padrone di casa aveva ereditato dal padre, generale all'epoca dei fasci siciliani (1896) e più tardi ambasciatore a San Pietroburgo. Conosco quella casa e so che Morra aveva conservato il mobilio ottocentesco, i ricordi russi del padre, gli ingenui affreschi dei pittori ambulanti con cui i proprietari delle ville toscane decoravano i loro tinelli e si era limitato a collocare qua e là i disegni dei suoi amici pittori. Non era cambiato neppure il vecchio letto di ferro battuto su cui Alberto Moravia, ospite di Morra alla fine degli anni Venti, si sdraiava per scrivere il romanzo che gli avrebbe dato la notorietà: «Gli Indifferenti». Quelle cinque persone ebbero un futuro politico alquanto diverso. Bobbio divenne uno dei maggiori studiosi europei di filosofia politica e fu, nonostante qualche screzio con Bettino Craxi, socialista. Luporini insegnò filosofia all'Università di Firenze, studiò il marxismo e fu senatore del partito comunista. Aldo Capitini, che aveva firmato con Calogero il manifesto liberalsocialista del 1937, si allontanò dal movimento per consacrarsi con spirito religioso alla causa della non violenza e promosse, tra l'altro, la prima Marcia della pace da Perugia ad Assisi il 24 settembre 1961. Guido Calogero, che Bobbio considerava «il più giovane dei miei maestri», impiegò buona parte della sua vita politica nella inutile ricerca di una forza capace di conciliare il liberalismo e il socialismo. Fu azionista sino allo scioglimento del partito, aderì al Fronte popolare nel 1948, partecipò alla fondazione del Partito radicale nel 1955, divenne membro del Partito socialista unificato nel 1966. Altrettanto inquiete e insoddisfatte furono le peregrinazioni politiche di altri intellettuali che aderirono al movimento tra la fine degli anni Trenta e il primo dopoguerra. Nel 1945 buona parte della migliore cultura italiana era liberalsocialista e azionista, ma un paio d'anni dopo i seguaci di Carlo Rosselli e Guido Calogero si erano dispersi. Qualcuno aveva raggiunto Ugo La Malfa nel Partito repubblicano, altri avevano aderito al Partito socialista, molti avevano scelto il Partito comunista. Il maggior filosofo liberale italiano, Benedetto Croce, li aveva seguiti con sguardo scettico dalle finestre di palazzo Filomarino e aveva dichiarato, con sentenza inappellabile, che il liberalsocialismo era soltanto un ircocervo, vale a dire un animale mitologico e fantastico, per metà capro e per metà cervo. Molti anni dopo, nel 1980, Bobbio, in un convegno a Bologna, disse più garbatamente che era stato una «formula di élite, tra l'altro circoscritta alla tradizione politica italiana». Elencò alcune ragioni del suo mancato successo e sostenne che una di esse stava in una sua certa ambiguità: «Liberalismo e socialismo sta bene. Ma quale liberalismo, quale socialismo? Né liberalismo né socialismo sono espressioni a significato unico. Ci sono varie interpretazioni dell'uno e dell'altro. Quando li mettiamo insieme, a quale accezione di liberalismo e socialismo ci riferiamo?». Tutti i liberalsocialisti volevano la libertà e la giustizia sociale. Ma non appena passarono dalle teorie ai programmi dovettero sciogliere il loro sodalizio. E ciascuno di essi se ne andò per la sua strada.
    http://www.corriere.it/solferino/romano/05-11-07/01.spm

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    Riflessioni sul liberalsocialismo nel cuore di Roma

    RIFLESSIONI SUL LIBERALSOCIALISMO NEL CUORE DI ROMA



    Mercoledì 17 marzo 2004, alle ore 18, presso la libreria Feltrinelli di via V.E.Orlando di Roma, si è tenuta la presentazione del libro ’Liberal-socialisti - Il futuro di una tradizione’ , a cura di Nadia Urbinati e Monique Canto-Sperber, Collana ’I Libri di Reset’, Editore, Marsilio, Venezia, marzo 2004, pp. 216. Esso è la traduzione aggiornata, ma ridotta (senza cioè la parte antologica) del volume uscito a Parigi nel 2003, presso le ’Editions Esprit’ col titolo ‘Le socialisme liberal. Une antologie: Europe-Etats Unis’.

    I saggi comprendono una introduzione congiunta della Urbinati (docente alla Columbia Universiy – New York, curatrice della traduzione di ’Socialismo liberale’ di Carlo Rosselli in America) e della Canto-Sperber (docente universitaria a Parigi) ’Il socialismo liberale e la sua importanza oggi’, seguono quelli della Canto-Sperber ’La filosofia del socialismo liberale’, della Urbinati ’La tradizione politica italiana’, della Canto-Sperber ’La tradizione francese’, di Steven Lukers (docente universitario a New York e a Londra) ’La tradizione britannica’, di Otto Kallschewer (docente a Berlino) ’La (non) tradizione tedesca’, di Mitchell Cohen (docente a New York e condirettore della rivista ’Dissent’) ’Il socialismo liberale americano: una introduzione’. Mancano, come si vede saggi relativi ad altre tradizioni liberalsocialiste o di socialismo liberale di altri paesi importanti, come ad es. la Spagna.

    La rivista ‘Reset’ di marzo-aprile 2004 presenta nella copertina al centro’ Liberalsocialismo, una tradizione con futuro’ Amato, Cariotti, Canto-Sperber, Casula, Chataway, Chessa, Fabbrini, Salvatori, Tranfaglia, Urbinati. Esso è posto sotto un esplicito richiamo a colori del sole nascente con un timone che vi si dirige, a simboleggiare quel liberalsocialismo, che solo può portare la rotta verso l’ideale regolativo, in senso kantiano, di un mondo nuovo, dove giustizia e libertà siano più incisivamente e consapevolmente conciliati, pur nella consapevolezze delle ardue difficoltà della navigazione storica.

    La riflessione sul ‘Liberalsocialismo’ è fatta nel ricordo e nel richiamo dell’esperienza di Norberto Bobbio, uno dei fondatori di Reset e teorico del liberalsocialismo. Non a caso l’editoriale di Bosetti è ’Liberalsocialismo, Reset senza Bobbio’ e a Bobbio sono dedicati i saggi di Antonio Carioti ”Sulla questione comunista un parallelo con La Malfa”, di Massimo Salvatori ‘Il pessimismo come metodo di lavoro’, di Nicola Tranfaglia ’Una battaglia limpida, che qualcuno tenta di occultare’, di Theresa Chataway ’Ha un seguito fino in Australia’, in una sezione della rivista dal titolo ’Il nostro, amico, azionista insoddisfatto - Ancora qualche pensiero per il socio fondatore di’Reset’ che ci ha lasciato’. Per l’occasione viene pubblicato anche il lungo testo di un dialogo del 1995 tra Norberto Bobbio e Renzo De Felice (pp. 5-22).

    Ha presieduto la serata Enrico Bosetti, il direttore della rivista’Reset’, che ha promosso l’iniziativa editoriale, sul cui tema ha incentrato poi gran parte del numero di marzo-aprile 2004, sopra presentato, e che sarà approfondito nei due giorni di Torino, 19-20 marzo, con la presenza di studiosi di teoria politica, di politologi e di uomini politici del centro-sinistra.

    Hanno partecipato alla serata di Roma una delle curatrici del volume, la Urbinati, i politici Enrico Morando dei DS, presidente dell’associazione di tendenza LibertàEguale’, l’ex-ministro, attuale senatore della Margherita Tiziano Treu, il vice-direttore del quotidiano della Margherita, ‘Europa’, Stefano Menchini, che ha dedicato al liberalsocialismo qualche giorno fa una pagina intera del suo giornale.

    L’iniziativa era stata pubblicizzata sulla pagina romana di Repubblica, che aveva poi in pagina nazionale la informazione ampia del convegno di Torino.

    La saletta era affollata e la riunione ha destato la curiosità e l’attenzione anche dei visitatori della libreria.

    Ha introdotto lo stesso Bosetti, ricordando come nel richiamo e nel riferimento a Carlo Rosselli, a Guido Calogero e a Norberto Bobbio nacque nel 1993 la rivista’Reset, che ebbe una sola parola che poteva indicare la loro cultura politica, la loro stella polare, il loro timone: il Liberalsocialismo. La pubblicazione del libro, il numero della rivista, il convegno di Torino nascono dall’esigenza di approfondirlo sempre di più, di articolarlo, perché esso incomincia a circolare anche in altri paesi come la Francia e gli Stati Uniti, ed è fondamentale per lo scenario dell’attuale centro-sinistra italiano, caratterizzato dal disordine, da conflitti, pur se bisogna cogliere in senso positivo in profondità la gestazione di una nuova forma di centro-sinistra. E questa gestazione di nuovi centro-sinistra si nota anche a livello europeo. Ad esempio Prodi, di tradizione democristiana e popolare, non si ritrova nel Partito Popolare Europeo di Aznar e Berlusconi e si pone l’esigenza della nascita di un polo liberaldemocratico europeo. Manca un bipartitismo perfetto sia in Italia che in altri paesi d’Europa. Questa è la ragione principale per rivisitare il liberalsocialismo, per trovare l’elemento coagulante, il nucleo etico-politico e di memoria, che possano unificare le sparse forze del centro-sinistra.

    Se si volessero cogliere le caratteristiche generali, gli orientamenti fondamentali del liberalsocialismo, essi potrebbero essere individuati nei seguenti nove atteggiamenti:



    1) Rifiuto dell’uopismo messianico.

    2) L’abbandono dello scientismo.

    3) Critica del marxismo come determinismo.

    4) Difesa del gradualismo.

    5) Diffidenza in materia dell’intervento dello stato in economia.

    6) Interesse per l’autonomia della società civile e i movimenti della società.

    7) La politica come teoria del conflitto sociale.

    8) La dimensione etica nella politica.

    9) Il senso della moderazione e della prudenza.

    Ha preso la parola la Urbinati, raccontando come l’edizione francese del libro avesse avuto una storia lunga, circa dieci anni, quando la Monique Canto-Sperber si trovava con lei a Princeton, studiando Platone, mentre lei studiava Carlo Rosselli. Nell’ambito delle riflessioni del gruppo liberalsocialista di Princeton, ci si poneva il problema se il liberalsocialismo fosse solo italiano o anche europeo. Carlo Rosselli era cosmopolita, era stato in Inghilterra, era legato a Malraux, ai revisionisti in Germania. Si pensò pertanto ad una antologia, poi il progetto restò nel cassetto. Anche perché il liberalsocialismo in Italia significava craxismo, era stato massacrato dai comunisti sulla scia di Togliatti, che aveva definito il Partito d’Azione, l’unico partito liberalsocialista nella storia politica d’Italia, un partito di generali senza soldati, un partito di pensatori raffinati, radicali, ma senza consenso di massa, quasi un pesce fuor d’acqua in un paese comunitario e poco liberale. Anche dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, non c’era l’aria.

    Poi nel 1993 nacque la rivista ‘Reset’ intorno a Bobbio, quindi esplicitamente liberalsocialista, e si avviò una iniziativa di scambio tra intellettuali italiani ed americani. Per chi era né comunista, né socialista si poneva il problema di come non arrendersi, di come costruire un nuovo linguaggio. Allora si riprese il progetto del libro e della antologia. Ci furono poi i socialisti francesi che si interessarono.

    Ma la spinta maggiore è venuta dopo la sconfitta dei socialisti in Francia, ha avuto un senso dopo la sconfitta, come occasione di profonda riflessione, di profonda autocritica.

    Urbinati richiama la tradizione socialista liberale, nella quale si collocano passaggi importanti, come le critiche di Croce, che distingueva il liberalismo dal liberismo, in polemica con Einaudi, aprendo un nuovo sentiero di riflessione, ponendo al centro dell’agire storico non l’interesse o l’utile, ma la persona morale, e come lo stato e l’economia dovessero essere funzionali alla persona.

    Ricorda poi Renouvier, Sorel, che graffiò il determinismo marxista, De Man (1928), Leon Blum. Richiama la tradizione socialista liberale spagnola, la più interessante, perché non marxista, con il fondatore Iglesias, che già nel 1879 indicava il socialismo conciliato con il liberalismo.

    Una nuova democrazia europea può trovare nelle linee socialiste liberali un nucleo comune riformista. Occorre pensare europeo, pur mai dimenticando la nostra appartenenza italiana.

    Il senso del loro contributo è stato ed è quello di dare, come intellettuali, un aiuto per ritrovare motivi di riflessione. Il socialismo liberale è uno dei possibili riformismi. Occorre democratizzare, aprire nuovi sentieri di democrazia in Italia e in Europa. Occorre riprendere l’idea della libertà come ripresa del valore della persona umana, l’idea di eguaglianza intesa come rispetto, dialogo, ascolto. La rivista ‘Reset’ porta avanti dalla nascita questa linea riformista. Ora c’è un interessante interesse delle forze politiche del centro-sinistra (cita Rutelli?), poi dell’associazione di tendenza ’LibertàEgaule (Morando-Ranieri).



    Prende la parola il senatore Treu, che veniva da Palazzo Madama e che confessa come ormai riflettere per i politici è diventato ormai un lusso. Si ritrova in alcuni dei punti citati da Bosetti e sottolinea come essi stanno andando avanti ed anzi occorre che siano inseriti in dosi massicce nel corpaccio social-comunista e in quello cattolico. Egli è nato nel Veneto cattolico e sa la difficoltà dell’operazione, e solo passando all’ambiente anglosassone si è liberato dai condizionamenti comunitari ed antiliberali del cattolicesimo, anche democratico. La chiave di volta è il valore dell’individuo contro il gregarismo comunista e contro il liberismo estremo, e questo è prezioso anche per il cattolicesimo democratico. Rosy Bindi ha detto nell’ultimo congresso della Margherita che lo sbocco comune ideale è il liberalsocialismo. I punti che lo interessano sono i seguenti:

    1) il metodo sperimentale contro lo stile deduttivo di molte forze politiche del centro-sinistra e dei sindacati. Il metodo deduttivo cala dall’alto modelli e tipi sulla realtà, col rischio di produrre delle frittate ( e cita il caso della riforma della scuola);

    2) come mettere insieme i servizi pubblici e sociali con la libertà di scelta dell’individuo (su questo problema ne sta parlando con Amato, impegnato a preparare il programma);

    3) non c’è un solo riformismo. Mi trovo bene nel bipolarismo che ha superato lo sparpagliamento disordinato del proporzionale. Ma non auspico il bipartitismo.

    4) La ricerca della terza via è importante. La stessa Europa unita è una terza via.

    5) E’ difficile mutare, forzare i riflessi di appartenenza e di identità delle grandi famiglie politiche europee, come quella popolare e quella socialista, ma bisogna tentare.



    Prende la parola l’on. Morando, che sottolinea il paradosso del libro, che è nato in Francia, invece che in Italia. Ma vi sono ragioni, perché lì c’è stata la tragedia della sconfitta del Partito Socialista, impregnato ancora di riflessi anti-liberalsocialisti e ricorda lo sconcerto personale, quando sentì urlare, alla vigilia del voto, uno dei capi socialisti francesi ”Noi non saremo mai liberali”. Lo stesso sconfitto Jospin si contrapponeva alla stessa lezione del revisionismo socialdemocratico di Bernstein, come se fossero passati inutilmente tanti drammatici decenni. I socialisti francesi e anche di altri paesi europei, di fronte ai diversi fallimenti, vanno alla ricerca di un nuovo ancoraggio politico-culturale e provano a vedere se c’è. La situazione è difficile e complessa, poiché c’è la reazione francese viscerale al ’liberal’, vi sono state le sconfitte in Grecia e in Germania. Le sconfitte non sono solo elettorali, ma sul piano della cultura politica smarrita. Questo vale anche e soprattutto per l’Italia, e questo rende prezioso e importante il dibattito sul Liberalsocialismo. Lamenta che nell’edizione italiana non vi sia la parte antologica, che contiene autentichi gioielli di riflessione, che lo hanno profondamente scosso. Si riferisce in particolare a brani di Green, che lui non aveva mai letto, originali perché precedono le riflessioni di Berlin e Sen. In Inghilterra la riflessione socialista è stata più fortunata nel suo dialogare e contaminarsi con il laburismo ed una forte tradizione liberale progressista. Perciò il riformismo anglo-sassone si è mosso in un’aria diversa. Altrove la tradizione socialista e la tradizione liberale si sono combattute e in Italia gli effetti sono stati tra i più nefasti . La pecularietà del PCI era che manteneva la prospettiva del salto di sistema (società completamente altra) con un pragmatismo più coraggioso (es. il modello emiliano nella gestione degli enti locali, nel sindacato, nelle cooperative), intrecciati in modo schizofrenico. Questa storia ci consegna la situazione di oggi: l’atteggiamento difensivo dei riformisti di fronte all’aggressività della sinistra antagonista, interprete del salto di sistema, come vera linea della sinistra. I riformisti stanno su posizioni difensive, mentre occorre una offensiva politico-culturale, dicendo alla sinistra antagonista che essa è conservatrice nelle sue posizioni, difendendo chi è già tutelato. Bisogna uscire dalla subalternità culturale di partenza di fronte alla sinistra antagonista. Il liberalsocialismo è la linea forte e vincente, perché essa non ha complessi di inferiorità e sa indicare vere linee di riformismo progressista. Ad esempio, sul problema delle pensioni, alla luce del principio della categoria delle differenze (sottolineato da Rawls), il sistema attuale è ingiusto, perché in prospettiva riduce la pensione dei giovani con il passaggio integrale al contributivo. I veri amici di Berlusconi sono quelli comunisti e della CGIL. Altro esempio può essere esteso al dibattito sulla riforma costituzionale. La sinistra italiana ha un riflesso paurosamente centralista. Invece i liberalsocialisti avevano come centro l’autonomia degli individui e delle comunità. Una delle caratteristiche del liberalsocialismo era l’atteggiamento fiducioso negli individui e nella società civile.



    Il vice direttore di’Europa’ Meschini, che ha ospitato sul suo giornale il dialogo Urbinati-Amato sul liberalsocialismo, spiega come è maturato questo interesse. ‘Europa’ è un giornale di ricerca, che cerca di portare più coraggio nella discussione. Nell’area del centro-sinistra non esiste un riferimento ideale condiviso. Esistono fenomeni di burocrazia, di appartenenze precedenti. L’assenza di un orizzonte ideale condiviso impediscesi la capacità di lanciare messaggi di fiducia e precisi ad un paese smarrito e impaurito. Occorre una piattaforma ideale condivisa.

    Dopo aver ascoltato gli interventi, pensa che il liberalsocialsmo possa essere questa piattaforma ideale condivisa per il centro-sinistra. Non a caso ha scelto qualche frase del libro per gli editoriali, con la consapevolezza che non c’è monopolio storico su di esso. Sottolinea poi quello che lo stuzzica degli atteggiamenti liberalsocisliti: anzitutto il metodo dell’attenzione, dell’ascolto, del dialogo, la piattaforma che gira sul valore della persona. Le preoccupazioni riguarda l’orizzonte grandemente passato in cui si colloca il liberalsocialismo e che andrebbe poi affidato a culture che hanno schiacciato il liberalsocialismo, come quelle dei DS, con la sua eredita comunista, e della Margherita, con la sua tradizione cattolica. Rivela il dubbio che le persone fisiche che portano queste tradizioni, che hanno schiacciato il liberalsocialismo, siano quelle più in grado di veicolarlo. Le parole pesano: il socialismo e il liberalismo non appartengono agli orizzonti di un Cesare Salvi o a De Mita. Succederà che tutti si chiameranno liberalsocialisti e allora non avrà nessuno valore, come per dire in sostanza ‘mettiamolo da parte’.



    Il momento del dibattito col pubblico è stato vivace, come ha riconosciuto alla fine il direttore Borsetti. Vi sono stati sette interventi.

    Nicola Terracciano è intervenuto per primo esprimendo l’emozione della serata che costituiva una riparazione storica a tanta storia di emarginazione, di rimozione, di schiacciamento di una delle più integre e nobili tradizioni politico-culturali della storia italiana. Si è presentato nei suoi impegni culturali rosselliani e di testimone in trincea come unico consigliere comunale espressamente liberalsocialista di sinistra.

    Ha contestato l’immagine del Partito d’Azione della Urbinati come partito di generali senza soldati, tenendo presenti il mezzo milione di voti ottenuti nel 1946, la presenza di dieci deputati all’Assemblea Costituente, la esistenza di sezioni del partito in quasi tutti i paesi italiani, tra i quali ha ricordato quella di Fondi, da lui studiata con due saggi, in quella provincia di Latina, che sembra la più nostalgica e post-fascista. A Latina si ebbe nelle elezioni del 1946 la vittoria repubblicano-azionista e a Fondi fu fondato dagli azionisti il primo giornale politico della Provincia ’La Rinascita’. Vice-sindaco di Torino fu l’azionista Ada Gobetti, la moglie di Piero Gobetti, il primo sindaco della ricostruzione di Napoli fu l’azionista Fermariello. Occorre imparare a conoscere e rispettare l’Azionismo in azione a livello politico nazionale e locale e non solo l’Azionismo intellettuale. Ha chiesto a Morando che fine ha fatto la scelta del Congresso di Torino dei DS, che assunse il socialismo liberale di Rosselli, come linea ideale ormai definitiva.

    Sull’esigenza di una autocritica, di una richiesta di perdono da parte della tradizione comunista per l’azione di schiacciamento del liberalsocialismo (es. Togliatti), di un approfondimento del Governo Parri e della sua caduta, si è soffermato un altro intervento. Sono intervenuti anche dei giovani, tra cui una studiosa del liberalsocialismo pugliese di Tommaso Fiore, nei suoi rapporti con Salvemini, che ha richiamato l’esigenza comunque sempre del valore dell’eguaglianza e del ruolo dello stato per una prosettiva liberalsocialista.

    Nelle risposte dei relatori ha iniziato Treu, che ha sottolineato la difficoltà delle questioni e come bisogna stare attenti a saper parlare alle nuove generazioni e rispondere ai nuovi problemi, trovando le parole adatte. Occorre fare una complessa opera di interpretazione e di attualizzazione delle idee liberalsocialiste, comunque nate in un altro contesto storico; bisogna collaudarle in relazione alla società italiana ed europea dei prossimi dieci anni. Non bisogna dimenticare il ruolo dello stato.



    Morando risottolinea il valore dell’autonomia come valore centrale dell’ispirazione liberalsocialista e come la sinistra si stia opponendo in modo debole alla stretta centralista che sta emergendo. Così il valore del conflitto sociale da valorizzare e da esaltare a livello locale, per far vivere la società civile e la democrazia. Riprecisa che la critica liberalsocialista al salto di sistema e lo spirito gradualista, prudente, non significano assumere posizioni difensive o conservatrici. Il liberalsocialismo valorizza il conflitto, la diversità, che sono perenni, inestinguibili, mentre la sinistra antagonista, col suo mito del salto di sistema, vede una società più armoniosa, più comunitaria di quanto sia possibile, dati i legni storti quali sono gli uomini e le donne. Pensava di essersi spiegato, anche se ritiene con umiltà che forse la sua stessa storia politica possa essere di ostacolo a veicolare le idee liberalsocialiste e che siano necessarie altre persone e forze che interpretino meglio queste idee. Il Congresso di Torino ha fatto un’operazione propagandistica sul socialismo liberale di Rosselli. In realtà oggi nei Ds dichiararsi socialisti liberali è come dichiarasi per le pari opportunità, è considerato pacifico. Il problema nasce quando prendi quel principio e lo vuoi attivare, lo vuoi applicare politicamente, quando si tratta cioè di fare scelte politiche. Allora scattano le resistenze, le contrapposizioni, perché la cultura politica egemone nei Ds è altra, post-comunista. Questo vale non solo per gli ex comunisti, vale anche per i socialisti. Occorre ricordare che lo stesso Lombardi, che pur proveniva dal Partito d’Azione liberalsocialista, si richiamava alla tradizione marxista di Rosa Luxemburg, rimanendo nell’ottica del salto di sistema. Essere liberalsocialisti moderati espone ad ogni tipo di accusa.

    Borsetti,in relazione al Congresso di Torino, ne difende comunque il valore almeno di atto e fatto ufficiali, nell’assunzione del socialismo liberale come stella polare politico-culturale dei DS.

    Urbinati ricorda che la questione dei perdoni è complessa e che in questo paese, spesso cinico e che dimentica, non si ricorda che gli assassini dei Rosselli sono stati assolti e che l’ingratitudine viene da sinistra e da destra. Ricorda la storia lunga della tradizione liberalsocialista con l’espressione ’Libertà Eguale’, che risale nel Settecento a Condorcet grondino, nel richiamo anche a modelli americani di Jefferson. C’è uno spirito ’riformista’ dietro tutta la tradizione, dal Settecento al Novecento. C’è un atteggiamento pragmatico, che non è trasformismo, ma è una filosofia democratica per eccellenza, che non presume la verità assoluta, che costruisce insieme, andando avanti per tentativi ed errori. Poi c’è l’insistenza sulla volontà (e richiama il volontarismo di Rosselli), che non ha avuto posto in un paese, come l’Italia catto-comunista, dove non c’è spazio per la volontà e la responsabilità personali, perché ci sono il partito e la chiesa che pensano per te e ti dicono quello che puoi e devi fare. Così si è dispensati dalla responsabilità. In questo paese manca l’etica protestante della responsabilità personale. Non c’è spirito sperimentale, di autocritica, nessuno dice: abbiamo votato male, allora cambiamo. C’è questo macigno secolare etico collettivo negativo che pesa.

    Il problema è come una tradizione così lunga possa avere un linguaggio per l’oggi, per le nuove generazioni. Ma non si può non passare per il recupero archeologico delle tradizioni.

    La guerra fredda fu poi funzionale ai due monoliti PCI-DC. Bobbio faceva opera liberalsocialista su posizioni minoritarie. Quella egemonia culturale in bianco e nero ci ha impedito di avere una cultura grigia, di chiaroscuro per vedere la complessità delle questioni. Il PCI (es. in Emilia Romagna, dove è nata la Urbinati) era riformista, laburista, socialdemocratica nei fatti, sui quali poi sputava teoricamente. Al riformismo è mancata un’anima. Prima c’era l’ispirazione tragica comunista, ora è rimasto come il guscio vuoto di una noce. Il liberalsocialismo può essere questa anima per le forze del centro-sinistra e così anche alimentare e rianimare una democrazia povera, quale quella italiana, così pericolosamente sbandata. E nel richiamare il valore della democrazia costituzionale, la Urbinati pone giustamente il problema se sia corretto il dibattito del Parlamento sulla riforma costituzionale, quando questi deputati e senatori sono stati eletti dal popolo senza che fossero stati delegati in tal senso dal popolo, senza che il popolo sapesse che potevano mettere mano anche alla modifica della Costituzione. Occorreva dirlo e dare la consapevolezza che si stava votando anche un’assemblea costituente. La non consapevolezza della gravità del comportamento parlamentare, l’assenza di reazione sui questo tema dimostrano quando la democrazia italiana è debole, fragile, in pericolo.

    Una serata intensa, ricca, come hanno confessato gli stessi relatori, il direttore Bosetti in testa, contento di questa occasione, di questa provocazione politico-culturale nel cuore di Roma.

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    Norberto Bobbio e il liberalsocialismo Scritto da Giancarlo Iacchini martedì 14 novembre 2006 Non è facile riassumere i quasi ottant’anni di vita culturale di Norberto Bobbio, il maggiore filosofo italiano del Novecento e colui che con il suo insegnamento proietta la sua figura austera e schiva ben oltre il passaggio al nuovo secolo e millennio. E sono tanti i modi per ricordare la sua lezione, i “tagli” con cui accostarsi alla sua opera, come dimostra il tanto (o il troppo poco?) che si è letto su tutti i quotidiani all’indomani della scomparsa (nel gennaio 2004, all’età di 94 anni) del grande intellettuale torinese.

    L’agiografia e l’esaltazione acritica sarebbero forse il modo peggiore di ricordare il maestro della ragione critica e dell’anti-ideologia, colui che si è definito l’“eterno dubitante” e che si è incaricato (socraticamente) di “seminare dubbi” anziché “raccogliere certezze”, cercando di scalfire “la pietra dura del dogma” qualunque fosse l’ambito (il diritto, la politica, la filosofia in senso stretto) di cui si occupava.

    Diciamo allora che il primo “messaggio” di cui far tesoro è l’invito (rivolto nel caso specifico al Pci togliattiano dopo la guerra, ma valido universalmente) di esercitare sempre virtù politiche e personali quali «l’inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filosofico, il senso della complessità delle cose».
    Atteggiamenti poco… radicali? Non è detto. Indubbiamente Bobbio, per usare le parole del suo “scomodo” amico e collega Goffredo Fofi, «non ha mai osato scegliere un fronte radicale», condizionato anche per carattere da «una sorta di eccesso di razionalità e di buon senso che sono stati, allo stesso tempo, il suo maggior pregio e il suo maggior limite». Si può ricordare a tal proposito una tacita soggezione nei confronti del potere tentacolare (specie nella sua Torino) della Fiat e della famiglia Agnelli, nonché certe sue incaute prese di posizione politiche, come l’adesione al progetto poi fallito di unificazione tra Psi e Psdi ed in seguito l’iniziale simpatia per la svolta craxiana (poi a onor del vero severamente bacchettata anche sul piano morale, ben prima del drammatico epilogo giudiziario del “craxismo” con l'inchiesta “Mani pulite” del ’92).

    Ma è stata sempre la dimensione teorica quella più consona all’indole di Norberto Bobbio. Basti ricordare il suo fondamentale contributo allo studio del diritto e della scienza politica, con particolare rilevanza ai fondamenti dello stato democratico: quel suo insistere sulla democrazia “senza aggettivi”, in tempi di scontri ideologici a colpi appunto di... aggettivi (“borghese” e “capitalistico” contro “proletario”, “socialista” o “comunista”, attribuiti a sistemi, regimi, società, governi e quant’altro fino al parossismo degli anni Sessanta e Settanta) e sulle regole del gioco doverosamente comuni agli schieramenti politici in lotta e alle maggioranze di governo le più alternative tra loro. Il che non gli impedì come è noto di schierarsi apertamente a sinistra, militando sia pure criticamente nel Partito d’Azione e poi intessendo un fitto e incessante dialogo con la sinistra politica di ieri (Pci, Psi) e di oggi. Considerato un maestro dagli attuali “riformisti” (e soprattutto in momenti di “smarrimento” e di crisi…), non sempre fu però seguito (anzi ben poco) nel suo filone culturale di riferimento, che risaliva non solo ai maggiori esponenti del razionalismo critico come Kant e Popper, ma - cosa per noi di estremo interesse - ai maestri italiani del liberalismo progressista come Cattaneo, Gobetti, Rosselli ed anche Capitini e Calogero, benché ad esempio avesse parecchio deluso quest’ultimo, nell’immediato dopoguerra, non inviando mai alcun articolo (come invece Calogero auspicava ed aveva più volte esplicitamente richiesto) alla rivista “Liberalsocialismo” da lui diretta, con la seguente pessimistica motivazione: «Le premesse per una politica liberalsocialista in Italia non ci sono, o ci saranno fra due secoli. Faremo i predicatori nel deserto». C’erano poi, tra i due alfieri del liberalsocialismo, differenze teoriche non di poco conto: mentre Calogero considerava intercambiabili e addirittura potenzialmente identici i concetti di libertà e di eguaglianza, Bobbio preferiva intendere l’accostamento come una sintesi tra “opposti”.

    E’ la discussa interpretazione che sta alla base del celebre libro “Destra e sinistra” (il più venduto ma probabilmente non il più riuscito tra i suoi numerosi testi politici) e che ha dato origine nel corso della sua riflessione a varie “sintesi dialettiche” dei due concetti fondamentali (libertà e uguaglianza), diverse a seconda degli ambiti in cui si realizzano: il concetto giuridico di “persona”, quello filosofico di “giustizia” o quello politico di "democrazia". Che ad esempio un sistema democratico, per essere tale, debba contemperare in qualche modo il principio della libertà con quello dell'eguaglianza, è un assioma forse scontato ma assolutamente basilare; che una politica “liberalsocialista”, seguendo il medesimo schema, debba aprire le libertà “liberali” all’aspirazione, propria della sinistra, a “più eguaglianza” è altrettanto ragionevole; ma che l’esigenza di “più libertà” possa essere appannaggio della destra (sia pure liberale) sarebbe francamente la deduzione meno felice dello schema appena citato, benché sia lo stesso Bobbio ad esorcizzarla asserendo nel ’76 che «l’ideale socialista è superiore a quello liberale» in quanto estende la libertà al maggior numero di persone.

    La scelta di un approccio più empirista alla questione, e dunque l’implicito abbandono degli affascinanti “ircocervi” teorici tipici di Guido Calogero (e ancor prima del comune, amatissimo maestro Piero Gobetti), è d’altronde evidente in questo passo autobiografico: «Ho sempre interpretato il liberalsocialismo non come una formula filosofica ma come il programma di un compromesso politico che avrebbe dovuto trovare la sua attuazione nel riconoscimento dei diritti sociali, richiesti dalla tradizione del movimento socialista, come precondizione del pieno esercizio dei diritti di libertà, richiesti dalla tradizione liberale».

    Un “compromesso” reso necessario, come spiegava altrove, dal fatto che «la realizzazione integrale della libertà tende a produrre disuguaglianze e, viceversa, una società che privilegia l’uguaglianza precipita spesso nel livellamento e nel conformismo». Gobetti, a parer nostro, avrebbe sicuramente condiviso il secondo lato della medaglia ma probabilmente non il primo: e ci pare evidente che con il suo “compromesso” pragmatico Bobbio abbia annacquato di molto la “rivoluzione liberale” del suo grande maestro e concittadino per sposare di fatto la moderazione pratica (e la revisione teorica) della moderna socialdemocrazia, la qual cosa non è certo in sé negativa, ma diventa un limite se valutata da un punto di vista libertario e “radicalsocialista”.

    Ciò detto (per quel dovere di onestà intellettuale che proprio lui ha insegnato alle numerose generazioni dei suoi discepoli), possiamo concludere questa breve rievocazione del "maestro e compagno" Norberto Bobbio (per parafrasare il titolo di un suo libro) tributandogli l’elogio che è dovuto al campione del pensiero laico, della moralità personale e politica, dell’antifascismo intransigente, della sinistra democratica e della democrazia tout court; all’implacabile critico dei totalitarismi di ogni colore, e che tuttavia ha sempre tenuto a respingere “l’abominevole equidistanza” tra fascismo e comunismo, invitando per esempio gli anticomunisti – all’indomani del crollo del Muro nel 1989 - a non farsi illusioni: «Le aspirazioni e gli ideali che hanno generato l’esperienza comunista non moriranno affatto assieme ai regimi del socialismo reale»; all’intellettuale che ha lucidamente indicato nel «promuovere la libertà e cercare la verità i doveri fondamentali dell’uomo di cultura».

    E pur comprendendone le motivazioni, non sottoscriviamo del tutto il mesto giudizio di Ezio Mauro in occasione della scomparsa del maestro: «Con Bobbio, gli azionisti se ne vanno in silenzio, da soli, in un’Italia che non li ha mai sopportati»; anche perché non ci pare davvero che Bobbio sia rimasto “solo”. In tanti a sinistra hanno in qualche modo, almeno in parte, appreso la sua lezione politica: tanti sono i “socialisti”, fin troppi i “liberali”, e tutti “democratici”. Ancora pochi, in effetti, gli autentici “liberalsocialisti”, specie in versione radicale, ma Bobbio, a metà Novecento, temeva di dover attendere “due secoli” per vedere qualcosa del genere nell’Italia delle fedi e delle ideologie: speriamo, anche con l’aiuto dei suoi scritti sempre vivi, di farcela un pochino prima.

  4. #4
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    compagno zulux, sono tre scritti molto importanti, con l'augurio che servano a fare capire cosa è il LIBERALsocialismo

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    propongo di far divenire questa discussione punto d'incontro del pensiero liberalsocialista

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    Citazione Originariamente Scritto da iares Visualizza Messaggio
    compagno zulux, sono tre scritti molto importanti, con l'augurio che servano a fare capire cosa è il LIBERALsocialismo
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    propongo di far divenire questa discussione punto d'incontro del pensiero liberalsocialista
    ma sì... portiamo avanti insieme il 3d

  7. #7
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    Dal " MANIFESTO DEL LIBERALSOCIALISMO "

    di Guido Calogero

    Di fronte al conservatorismo che si dà veste liberale, e all'estremismo sociale che non risolve i problemi necessari della libertà, noi affermiamo la nostra volontà di combattere per l'unico e indivisibile ideale della giustizia e della libertà. Facciamo nostra la rivendicazione e l'ulteriore promozione di tutti quegli istituti della libertà democratica che hanno assicurato il fiorire dello stato moderno, ma siamo convinti di poter procedere in tal senso solo affrontando e risolvendo insieme anche il problema sociale.

    Vogliamo che agli uomini siano assicurate non soltanto le garanzie istituzionali, giuridiche e politiche della libertà, ma anche le condizioni economiche, che permettano ad essi di valersene per la piena espansione della loro vita. Alla libertà di parola e di voto, non vogliamo che si accompagni la libertà di morire di fame. Ma nello stesso tempo sappiamo che nessuna riforma sociale può realmente assicurare agli uomini la giustizia, se in seno ad essa non opera, perenne, il controllo e l'iniziativa della libertà.

    Né la libertà può essere un futuro, rispetto alla giustizia, né la giustizia un futuro rispetto alla libertà. Entrambe debbono essere presenti ed operanti, a garantirsi e a promuoversi a vicenda.


    Contro l'attuazione di questi nostri ideali sta il fascismo, non solo come ideologia e come regime politico, ma anche come coalizione ed espressione di interessi oligarchici

    1. Liberalismo e socialismo, considerati nella loro sostanza migliore, non sono ideali contrastanti né concetti disparati, ma specificazioni parallele di un unico principio etico, che è il canone universale di ogni storia e di ogni civiltà. Questo è il principio per cui si riconoscono le altrui persone di fronte alla propria persona, e si assegna a ciascuna di esse un diritto pari al diritto proprio.

    2. Cosi, è lo stesso dovere etico che impone ad ognuno di riconoscere agli altri un pari diritto di opinare di parlare di votare, e un pari diritto di valersi della ricchezza del mondo. Tanto l'uno quanto l'altro è un diritto di disposizione, un diritto di libertà; un ambito dell' individuale possibilità di azione, che dev'essere lasciato libero. E la giustizia non è che l'equa ripartizione di tali sfere di libertà.

    3. Ma la distinzione, che non ha luogo nell'idea, ha avuto luogo nella storia. Essa è costituita dal fatto che, nella civiltà del mondo, lo sviluppo etico e giuridico delle abitudini e delle istituzioni dirette ad attuare la libertà del liberalismo è stato finora assai più vasto di quello delle abitudini e delle istituzioni dirette ad attuare la giustizia del socialismo.

    La tradizione morale ed istituzionale ha ormai tolto ad ogni uomo civile il gusto di negare al suo interlocutore un pari diritto di interloquire, ma non gli ha ancora tolto il gusto di possedere più di lui. Molti, che non tollererebbero più di disporre di due voti elettorali quando ogni altro cittadino disponesse di un voto solo, tollerano ancora di disporre di beni economici in misura decupla di quella di cui dispone la media del loro prossimo.

    4. Di conseguenza, dovunque sia lecito, con formula sommaria, dire che sussiste meno giustizia che libertà, lo sforzo etico-politico dev'essere prevalentemente diretto all'educazione socialista dell'uomo, il quale, sulla via ascendente della giustizia, non deve restare più in basso che sulla via della libertà.

    5. Sarebbe tuttavia un errore ristabilire il livello facendo retrocedere l'uomo sulla via della libertà. Ciò significherebbe non solo distruggere un già raggiunto grado di giustizia, non solo perdere una già compiuta conquista egualitaria, ma annientare lo stesso più efficace e pratico strumento delle conquiste ulteriori. Solo la libertà ci farà più liberi. Essa infatti è la stessa libertà di creare il socialismo. Noi dobbiamo mantenerla tale, renderla veramente tale dove non è, e servircene.

    6. Di qui i due principi fondamentali del liberalsocialismo:

    assicurare la libertà nel suo funzionamento effettivo, costruire il socialismo attraverso questa libertà.Alla stregua del primo principio, esso considera parte integrante del suo programma l'instaurazione e la difesa di quel "liberalismo armato ", che dev'essere, come si è visto, la base universale di ogni convivenza politica, e fin da oggi il fondamento del comune fronte della libertà. Alla stregua del secondo principio, esso vuole riforme sociali che non piovano dall'alto, ma siano figlie della democrazia e della libertà.

    7. Una delle prime mete di tali riforme sociali dev'essere il raggiungimento della massima proporzionalità possibile tra il lavoro che si compie e il bene economico di cui si dispone. Questa non è che una prima tappa sulla via del socialismo (ed è già superata, tutte le volte che con la ricchezza comune si soccorrono i deboli e gl'infermi, incapaci di lavorare). Comunque, è quella che si deve intanto cercar di percorrere. Di qui la fondamentale istanza anticapitalistica, che il liberalsocialismo fa propria: bisogna portare sempre più oltre la battaglia contro il godimento sedentario dell'accumulato e dell'ereditato.

    8. I mezzi tecnici e giuridici atti a realizzare progressivamente questo intento dovranno essere commisurati, caso per caso, alle possibilità della situazione. Quanto più i contadini, gli operai, i tecnici, i dirigenti saranno capaci di agire come imprenditori e amministratori, tanto meno dovrà esistere la figura del proprietario puro. Quanto più si svilupperà lo spirito della solidarietà e dell'uguaglianza, tanto più sarà possibile ravvicinare le distanze fra i compensi delle varie forme di lavoro, senza inaridire il gusto dell'operosità e l'iniziativa creatrice. Di qui la fondamentale importanza dell'educazione delle persone, e quindi, tra l'altro, del problema della scuola.

    9. Sul piano internazionale, il liberalsocialismo difende gli stessi principi di libertà e di giustizia per tutti. Niente nazionalismo, niente razzismo, niente imperialismo: niente distinzione di principio fra politica ed etica. Le assise fondamentali della civiltà debbono essere le stesse tra gli uomini e tra le nazioni: il dovere dell'onestà ed il riconoscimento che l'altrui diritto, non è soltanto una faccenda privata. Di conseguenza: difesa di ogni organismo che possa favorire la realizzazione di questi principi nel mondo; internazionalizzazione, almeno dal punto di vista economico, delle colonie e delle grandi fonti di materie prime; progressiva estensione dei diritti di cittadinanza al di là dei limiti delle singole nazioni.

    10. In queste sue concezioni, il liberalsocialismo è convinto di aver fatto tesoro del meglio dell'esperienza politica dei grandi partiti tradizionali.

    Ai liberali esso quindi dice: - Voi siete stati, in altri tempi, i protagonisti della lotta per la libertà, i primi alfieri della sua bandiera. Ma siete stati anche angosciati dall'incertezza circa il limite a cui vi fosse concesso di giungere nel disciplinare la libertà; e così, tra il desiderio dello stato forte e il timore di tradire la libertà per l'autorità, tra la nostalgia del laissez-faire e la simpatia iniziale per il fascismo, avete lasciato la libertà ai nemici della libertà, avete permesso alla dittatura di nascere, di crescere, di battervi. Il liberalsocialismo segna oggi il punto preciso che divide la libertà dall'autorità, chiarendo come la libertà sia solo per chi lavora per la libertà, e come per i suoi nemici ci sia la forza e la coercizione.


    11. Ai marxisti, del socialismo e comunismo, esso dice d'altronde: - La nostra aspirazione è la vostra aspirazione, la nostra verità è la vostra verità, quando essa sia liberata dai miti del materialismo storico e del socialismo scientifico. Ricordatevi del Marx agitatore infiammato dall'ideale etico della giustizia, e dimenticate il Marx teorico, che presupponendo quell'ideale nelle sue indagini economiche pensò, viceversa, di poterlo dedurre dalle sue stesse indagini economiche. E soprattutto non dimenticate che Marx scrisse il Manifesto e il Capitale a Londra, all'ombra delle libertà inglesi.

    12. Infine, ai cattolici, ai cristiani, a tutti gli uomini di vera religione esso dice: - L'ideale del liberalsocialismo non è che l'eterno ideale del Vangelo. Esso non è che una forma di cristianesimo pratico, di servizio a Dio calato nella realtà. Chi ama il suo prossimo come se stesso, non può non lavorare per la giustizia e per la libertà.

    A fondamento del liberalsocialismo sta il concetto della sostanziale unità e identità della ragione ideale, che sorregge e giustifica tanto il socialismo nella sua esigenza di giustizia, quanto il liberalismo nella sua esigenza di libertà. Questa ragione ideale coincide con quello stesso principio etico, col cui metro, in ogni passato e in ogni avvenire, si è sempre misurata, e si misurerà sempre, l'umanità e la civiltà: il principio per cui si riconoscono le altrui persone di fronte alla propria persona, e si assegna a ciascuna di esse un diritto pari al diritto proprio.

    Nell'ambito di questa universale aspirazione etica, liberalismo e socialismo si distinguono solo come specificazioni concomitanti e complementari, l'una delle quali mira alla giusta commisurazione di certe libertà, e l'altra alla giusta commisurazione di certe altre libertà. Il liberalismo vuole che fra tutti gli uomini sia equamente distribuito - in modo tale che il suo uso da parte di ognuno non leda e non soverchi il suo uso da parte di ogni altro - quel grande bene che è la possibilità di esprimere liberamente la personalità propria, in tutte le concepibili forme di tale espressione. Il socialismo vuole che fra tutti gli uomini sia equamente distribuito - in modo tale che il suo uso da parte di ognuno non leda e non soverchi il suo uso da parte di ogni altro - l'altro grande bene che è la possibilità di fruire della ricchezza del mondo, in tutte le legittime forme di tale fruizione.

    Così, il liberalismo vuole l'eguaglianza e la stabilità dei diritti e delle leggi, senza distinzioni dipendenti da religione, razza, casta, censo, partito; vuole la certa, imparziale, indipendente amministrazione della giustizia; vuole la derivazione di ogni norma giuridica dalla volontà dei cittadini, espressa secondo il principio della maggioranza; vuole l'ordinata partecipazione dei cittadini al governo, comunque specificato, della cosa pubblica; vuole la libertà di pensiero, di stampa, di associazione, di partito, quale fondamento dell'esercizio del reciproco controllo e dell'autogoverno, e quale premessa e manifestazione a un tempo di ogni perfezionamento del costume politico; vuole la libertà di religione, che permetta ad ognuno di adorare in pace il suo Dio.

    Parallelamente, il socialismo vuole che nella coscienza morale degli uomini s'impianti energicamente il principio che, anche sul piano della ricchezza, l'ideale è quello cristiano e mazziniano della giustizia e dell'eguaglianza, e che perciò bisogna tanto suscitare nel proprio animo il gusto del lavorare e del produrre, quanto reprimervi quello del guadagnare e del possedere in misura soverchiante la media comune. Vuole, di conseguenza, che ciascuno sia compensato, con la ricchezza prodotta, in misura congrua al suo effettivo lavoro; vuole che non sia riconosciuta la legittimità del possesso ed uso privato del puro interesse del capitale, ma solo quella del compenso della reale attività e fatica dell'imprenditore e del dirigente; vuole che con la ricchezza appartenente alla società (sia nella forma statale sia in quella provinciale, comunale e cooperativa) venga assicurato ad ognuno il diritto di partecipare al lavoro comune e di raggiungere la piena esplicazione delle proprie attitudini, e parimenti venga assicurato uno speciale soccorso per tutti coloro che si trovino comunque in condizioni di inferiorità; vuole che la società tenda con la massima intensità possibile (e con la sola avvertenza che la rapidità e l'ampiezza delle innovazioni non siano tali da pregiudicare l'opportunità e la durata delle innovazioni stesse) ad elaborare ed instaurare tutti quei progressivi assetti politici e giuridici, che appaiano atti a far procedere la civiltà in direzione della sempre maggiore socialità della ricchezza.

    D'altronde, in tali loro aspirazioni, tanto il liberalismo quanto il socialismo non possono non avvertire come ciascuno dei due grandi complessi di ideali etico-politici da loro propugnati sia, nelle sue specificazioni concrete, legato da infiniti vincoli all'altro, e presupponga l'altro nelle sue particolari possibilità di realizzazione. A chi combatte con la miseria, non si può offrire e garantire senza ipocrisia la semplice libertà di opinare e di votare, di svolgere ed approfondire la propria spiritualità. A chi soggiace alla dittatura, non si può concedere senza perfidia un innalzamento del livello economico della vita, a cui non vada congiunta la libertà dell'intervento critico e pratico nell'amministrazione della ricchezza comune. Non si può fare avanzare la libertà senza l'ausilio della ricchezza, né amministrare secondo giustizia la ricchezza senza l'ausilio della libertà. Non si può essere seriamente liberali senza essere socialisti, né essere seriamente socialisti senza essere liberali. Chi è pervenuto a questa convinzione, e si è persuaso che la civiltà tanto meglio procede quanto più la coscienza e gl'istituti del liberalismo lavorano ad inventare e ad instaurare sempre più giusti assetti sociali, e la coscienza e gl'istituti del socialismo a rendere sempre più possibile , intensa e diffusa tale opera della libertà, ha raggiunto il piano del liberalsocialismo.

    Il liberalsocialismo intende riaffermare ed approfondire i principali valori etico-politici, che sono stati difesi e propugnati dalle due grandi tradizioni a cui si ricollega. Perciò esso respinge energicamente la tesi dell'intrinseca inconciliabilità di liberalismo e socialismo, pur non negando l'esistenza di un liberalismo che non si accorda col socialismo, e di un socialismo che non si accorda col liberalismo.



    Il primo è il liberalismo ingenuo: il liberalismo di coloro che pretendono la libertà per sé, e non si danno pensiero della libertà degli altri. A questi più elementari zelatori della libertà, già la migliore tradizione ricorda che amare la libertà significa amare la legge, la quale, limitando la libertà propria, concede eguale spazio alla libertà altrui. Oppure è il liberalismo antiquato e conservatore: il liberalismo di coloro che sono pronti a commisurare equamente la libertà propria con l'altrui finché si tratta dei tradizionali diritti civili e politici, ma che nel campo dell'economia non tollerano legge, e lasciano al prossimo la libertà di morire di fame.

    Sono i liberali per cui la libertà è concetto supremo, la giustizia concetto inferiore.

    La giusta libertà altrui si dovrebbe manifestare invece non soltanto nel volere le norme che assicurano a tutti il diritto di parola e di stampa , di associazione e di voto, ma anche nel volere, poniamo, le norme che regolano la successione legittima, o l'amministrazione delle società anonime, o gli orari ed i salari dei lavoratori, sottraendoli al privato arbitrio economico del testante o dell'amministratore o del datore di lavoro.

    Il miglior liberalismo si è già distinto dal liberismo: quello di cui ancora deve spogliarsi, è l'indiferrenza per l'economia altrui.

    Il secondo, cioè il socialismo che non si accorda col liberalismo, è il socialismo marxistico ed autoritario, che vede nella dittatura del proletariato la condizione della futura libertà. E' il socialismo di chi ancora crede che l'ideale della giustizia sociale debba esser dedotto dalla scienza dell'economia, ed esser preveduto inevitabilmente vittorioso da chi intenda il razionale corso della storia. Nella sua evoluzione interna, il miglior socialismo è sempre più venuto abbandonando questi vecchi motivi: e se ha opportunamente continuato ad irridere la libertà senza giustizia del liberalismo conservatore, ha nello stesso tempo cessato di credere nella giustizia senza libertà di ogni utopia totalitaria. Esso non s'illude più che la ricchezza comune possa essere amministrata onestamente da chi non si sia elevato al senso dell'interesse collettivo attraverso l'esercizio del controllo e l'esperienza della legale libertà, e non continui ad operare in un ambiente di critica, di legalità e di libertà.

    Questo socialismo fondato sulla libertà e radicato nella più profonda aspirazione morale dell'uomo, quel liberalismo assetato di giustizia e deciso a non contentarsi di libertà che possano essere irrise come vuote, convergono e coincidono nel liberal-socialismo.

    Anche quando, del resto, si voglia considerare la questione del contrasto e dell'accordo tra liberalismo e socialismo non tanto dal più radicale punto di vista etico-politico quanto da quello storico-economico, al fine di trarre insegnamento da ciò che all'esperienza risulta dalla stessa evoluzione più moderna della tecnica e dell'economia, si trova riconfermato il principio che il miglior liberalismo è sostanzialmente concorde col miglior socialismo, e che quanto in essi non si concilia è solo il deteriore contenuto estremistico dell'uno e dell'altro.

    Quanto al socialismo, l'irrealizzabilità economica di un collettivismo totale è risultata palese da tutte le esperienze che se ne sono tentate.

    Il regime della libera concorrenza va conservato e favorito in tutti quei casi in cui le condizioni necessarie per tale libera concorrenza sussistono in tal misura da promuovere il vigore dell'iniziativa individuale e da escludere insieme, col loro stesso gioco, una disuguaglianza eccessiva dei successi e dei premi; va ristretto in tutti gli altri casi, in cui la minor funzionalità di un simile autoregolamento ponga l'esigenza di un regolamento diverso.

    Né dunque ha senso l'ideale economico dell'assoluto ed esclusivo collettivismo, né quello dell'assoluto ed esclusivo individualismo.

    Non c'è da un lato la collettività e dall'altro l'individuo; c'è solo, e sempre, l'individuo, che dev'essere educato tanto al personale gusto del suo lavoro, quanto al senso della divisione equa tra gl'individui di tutto ciò che derivi da questo comune lavoro. Nell'esigenza di quel primo aspetto dell'educazione è la verità del liberalismo economico; nell'esigenza del secondo aspetto, la verità del collettivismo. L'uno educa l'uomo ad essere attivo nel produrre, l'altro ad essere equo nel distribuire; e come non si dà economia senza produzione e distribuzione, cosi non si dà economia senza individualismo e collettivismo.


    ( dal " MANIFESTO DEL LIBERALSOCIALISMO "elaborato nel 1940 da Guido Calogero)

    Tra gli intellettuali italiani del Novecento che meriterebbero di essere riletti con attenzione, se non addirittura riscoperti, una delle personalità più singolari è senza dubbio quella di Guido Calogero (1904-1986). Formatosi filosoficamente alla scuola di Giovanni Gentile, come buona parte della sua generazione, Calogero non fu solo una grande studioso del pensiero greco, dai presocratici ad Aristotele, e un importante pensatore originale (come testimoniano innanzitutto i tre volumi einaudiani delle sue Lezioni di filosofia). Fu anche un intellettuale impegnato nella lotta politica, nel dibattito delle idee, nel giornalismo ; un protagonista di quella cultura laica e democratica che, numericamente minoritaria nell'Italia del dopoguerra, si ritrovò in una esperienza politica (di breve vita) come il Partito d'azione e in un giornale come "Il Mondo". Di quest'area Calogero è stato una delle menti più lucide. Ed è abbastanza strano che la cultura italiana degli ultimi tempi si sia piuttosto disinteressata di lui, perché Calogero fu uno di quelli che più decisamente prospettarono, già diversi decenni fa, idee che oggi tornano a interessaree a suscitare discussioni, come il tema del liberalsocialismo e quello dell' etica del dialogo.

    Nei suoi testi degli anni Trenta e Quaranta, infatti, Calogero aveva caratterizzato la moralità soprattutto come scelta altruistica. Vi è una scelta assoluta, diceva, alla quale nessun individuo si può mai sottrarre, ed è per l'appunto quella tra egoismo e altruismo, tra l'ignorare gli altri, l'usarli solo come strumenti, o invece tener conto di essi, non prevaricarli, aprirsi alla comprensione delle loro esperienze e delle loro necessità.

    Quest'ultima è appunto la scelta morale, che è totalmente rimessa all'individuo e alla sua autonomia. Con l'elaborazione della filosofia del dialogo, però, questa impostazione subisce un mutamento di grande rilievo: se si riformula il principio morale non più semplicemente come altruismo, ma più specificamente come dovere di comprendere gli altri e di ascoltare le loro ragioni, allora si scopre una situazione nuova e per certi aspetti sorprendente.

    Ci si avvede, in sostanza, che, formulato come principio del dialogo, il principio morale, pur restando rimesso alla scelta autonoma dell'individuo, ha però una sua forza peculiare, che ci autorizza a considerarlo come l'unico principio indiscutibile del quale noi disponiamo, la sola "piattaforrna stabile", così lo definisce Calogero, nel grande e inquieto mare delle convinzioni discutibili, delle teorie scientifiche rivedibili, delle opinioni destinate a mutare con la trasformazione del paesaggio storico.

    L'etica del dialogo quindi, nella visione che ne elabora Guido Calogero, si salda perfettamente con una prospettiva politica liberalsocialista, quella che Calogero stesso aveva delineato, collaborando anche con Aldo Capitini, nel famoso manifesto del liberalsocialismo redatto nel 1940.

    Il nerbo teorico del liberalsocialismo viene enunciato da Calogero in modo chiarissimo in questo e nei tanti scritti successivi: esso si può riassumere nella convinzione che libertà e giustizia sociale (diversamente da quanto crede un pigro senso comune) non sono tra loro né confliggenti né tantomeno incompatibili ma, al contrario, sono a ben guardare profondamente e radicalmente solidali, fino al punto da costituire in realtà un ideale unitario. Le questioni concernenti la giustizia economica non sono altra cosa rispetto alla problematica della libertà, ma la riguardano direttamente: non è libero chi non ha la possibilità di fruire dei benefici della cooperazione sociale, e di soddisfare attraverso di essa i propri bisogni e le proprie aspirazioni. E d'altra parte è del tutto illusorio, ammoniva Calogero rivolto ai suo amici di sinistra, pensare che possa darsi giustizia sociale là dove manchino le condizioni essenziali di libertà politica. Le istituzioni della libertà politica e quelle della giustizia economica si sostengono e si richiedono vicendevolmente; esse sono legate, scriveva Calogero, da un "nesso indissolubile di reciproca presupposizione".

    Nella loro nettezza e radicalità (che sembrerà a qualcuno un po' utopistica) le sue pagine meriterebbero ancor oggi di essere meditate. Se non altro come antidoto rispetto a quelle forme di liberalismo socialmente insensibile e ultraliberista che oggi tornano in auge e di cui non pochi subiscono il fascino un po' sinistro.

    da:http://www.skepsis.it/

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    L'utopía della libertà uguale

    di Alberto Leiss

    Rispondendo a Guido Calogero, che nel novembre del '45 lo invitava a collaborare alla sua nuova rivista "Liberalsocialismo", Norberto Bobbio scriveva: "Mi interessa e mi piace il programma della tua rivista ( .. ) per quanto l'esperienza ci abbia insegnato che le premesse per una politica "liberalsocialista" in Italia non ci sono, o ci saranno tra due secoli. Faremo i predicatori nel deserto, come del resto "abbiamo sempre fatto...".Di secolo ne è passato solo mezzo, e oggi sembra che la prospettiva più forte, se non l'unica, per ridare "anima", come si dice, e un fondamento etico-teorico alla sinistra erede del socialismo e del comunismo, sia proprio un approccio molto vicino al "liberal-socialismo".
    Termine tuttavia controverso ancor oggi. Nel volume recentemente pubblicato da Einaudi che raccoglie, a cura di Michelangelo Bovero, una quarantina dì saggi di Bobbio ordinandoli sotto il titolo "Teoria generale della politica", si ritrova la discussione (pag. 306 e seguenti) che lo stesso Bobbio sviluppa a partire dall'osservazione di Dahrendorf sulla parola "liberalsocíalismo", un "termine italiano che mi sembra leggermente assurdo".Siamo negli anni '90 e il filosofo torinese ripercorre in sintesi la storia europea del "termine leggermente assurdo", rivendicandone la fondatezza e storicizzandone la funzione. Nato per rimediare in nome del socialismo agli effetti pratici negativi del liberalismo, ora è il fallimento del comunismo che lo ha "resuscitato".
    Gran parte della genealogia citata da Bobbio in questo scritto è ripresa e sviluppata nel libro di Franco Sbarberi "L'utopia della libertà eguale" (Boringhieri): una galleria di ritratti concettuali che va dal rapporto tra Gramsci e Gobetti alle tesi di Carlo Rosselli, di Guido Calogero, Calamandrei fino allo stesso Bobbio, in un ultimo capitolo denso di informazioni sul carteggio tra Bobbio e Calogero, dal quale abbiamo tratto la citazione iniziale.
    Uno degli elementi di interesse, naturalmente, è il rapporto sempre stretto e difficile tra questa tradizione "liberalsocialista" italiana e il comunismo italiano. Dall'amicizia e la stima reciproca tra Gramsci e Gobetti, il quale vedeva nella classe operaia torinese le capacità egemoniche e democratiche "borghesi" che mancavano alla borghesia italiana, alla rozza stroncatura che Togliatti scrisse nel 1931 delle tesi di Rosselli, alla nota frase di Bobbio a Amendola negli anni '60: "Noi abbiamo bisogno della vostra forza, ma voi avete bisogno dei nostri principi". In fondo l'attrazione tra queste due culture politiche può essere rintracciata nel fatto che la sensibilità "sociale" dei comunisti italiani non era impermeabile al tema della libertà, mentre i liberal-socialisti erano ben consapevoli che senza libertà "dal bisogno" non ci sono veri diritti di cittadinanza.
    Questa sorta di "pendolo teorico" della sinistra tra libertà e uguaglianza, e che investe il rapporto tra motivazioni etiche della politica e forme della democrazia si è sicuramente spostato dopo l'89 sul primo dei due termini. Ma oggi la discussione torna sui nessi contraddittori tra le due polarità. Passando da un'approccio di teoria politica a uno di sociologia della politica è interessante il percorso del binomio etica-libertà-solidarietà che Arnaldo Bagnasco disegna nel suo "Tracce di comunità" (Il Mulino) calandolo nelle realtà concrete della moderna "società di mercato".Tra l'ottimismo di Antony Giddens per una ripresa di comportamenti sociali razionali liberi e solidali e il pessimismo "morale" di Zygmut Bauman, Bagnasco alla fine sembra inclinare per il secondo, a dimostrazione del fatto che molto lavoro teorico e analitico deve ancora essere fatto da una sinistra orfana del comunismo ma anche dello "stato sociale".

    Norberto Bobbio, "Teoria generale della politica", Einaudi, pag. 684, lire 58.000
    Franco Sbarberi, "L'utopia della libertà uguale", Bollati Boringhieri pag. 218, lire 35.000
    Arnaldo Bagnasco, "Tracce di comunità", Il Mulino, pag. 179, lire 20.000

    La Stampa
    30 dicembre 1999

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    Norberto Bobbio ricorda Guido Calogero

    "Lo conobbi nel 1933 a un congresso hegeliano M´impressionarono lo sguardo e la bravura"


    Il testo inedito di Norberto Bobbio che pubblichiamo in versione quasi integrale è stato scritto per la riedizione del saggio di Guido Calogero Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo, apparso la prima volta nel 1968 e ora riproposto da Diabasis (pagine 148, lire 30.000). La riedizione è curata dal giovane studioso Thomas Casadei, autore di un´ampia introduzione (Le radici della democrazia possibile). Il contributo di Bobbio (Il più giovane dei miei maestri) è stato raccolto dallo stesso Casadei (lo scorso febbraio) e rivisto, dopo la trascrizione, dal professore. Nato nel 1904, morto nel 1986, Calogero ha sviluppato l´attualismo di Gentile in prospettiva etica. E´ stato un grande amico di Bobbio, come documenta il loro epistolario. Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo è il suo libro più noto, in cui analizza i rapporti che si stabiliscono fra democrazia, politica e i diritti dell´uomo.

    Il ricordo che ho di Calogero è quello di una bella amicizia, ma prima di tutto di una profonda, straordinaria, ammirazione: di quell´ammirazione che si prova di fronte ad un maestro. Mi viene subito alla mente quel disegno di Renato Guttuso che documenta anche il mio ingresso nell´antifascismo attivo, era il 1939. Prima a Camerino, dove dal 1935 ero docente di filosofia del diritto, poi a Siena, dove insegnavo, dopo aver vinto il concorso, dalla fine del 1938, avevo iniziato a frequentare le riunioni del movimento liberalsocialista, animato da Calogero e da Aldo Capitini. Il disegno di Guttuso, allora giovane e promettente pittore, rappresenta la testimonianza di una di queste riunioni: siamo raffigurati io, Umberto Morra (proprietario della villa presso Cortona dove spesso si tenevano le nostre riunioni e che ci presentò lo stesso Guttuso), Cesare Luporini (che poi divenne comunista), Capitini e, appunto, Calogero con il dito alzato. Entrambi tengono un libro in mano: su quello di Calogero si legge Liberalismo sociale, su quello di Capitini Non violenza. Dell´artefice del disegno si vede la nuca. La prima volta che vidi Calogero fu nel 1933, a Roma, ad un Congresso hegeliano. Presiedeva Giovanni Gentile, che tenne il discorso d´apertura, Calogero era fra i relatori ed io ero fra il pubblico. Mi impressionarono la sua bravura, la sua intelligenza, il suo sguardo. Eravamo entrambi molto giovani (io avevo ventiquattro anni, lui era di soli cinque anni più grande di me), ma rimasi stupito dalla sua maturità: era giovane d´età, ma sembrava un uomo "già arrivato". Questo aspetto destava grande e profonda ammirazione in noi aspiranti studiosi. Calogero aveva un viso "aperto" e i suoi occhi esprimevano, per così dire, quella volontà di discussione che ne faceva un "maestro del dialogo". Non è un caso che i ragazzi della Federazione giovanile del Partito d´Azione si rivolgessero a lui per farsi chiarire la struttura e il senso delle principali regole della discussione democratica, per essere educati alla procedura, nella fase in cui la dittatura fascista sembrava realmente potersi sostituire con un nuovo ordine. I diversi interventi apparvero, in un primo momento, su quello che era il giornale del Partito d´Azione, l´Italia libera. Calogero era dunque per noi più giovani un simbolo, un esempio da ammirare e possibilmente da seguire. Era diventato professore universitario molto presto. Oltre che essere di una intelligenza precoce aveva una grande capacità di apprendere: si era dedicato alla filosofia, ma avrebbe potuto insegnare lettere classiche; oltre al latino, sapeva benissimo il greco, lo leggeva perfettamente: del resto fu traduttore di opere come il Simposio e il Critone. Dimostrava una straordinaria facilità di apprendimento: oltre al greco, conosceva in modo approfondito il tedesco e sapeva anche l´inglese. Non so quando l´avesse studiato, ma lo parlava correntemente, tanto che nel 1950 fu chiamato a dirigere l´Istituto italiano di Cultura a Londra.

    Era un uomo di un´intelligenza estremamente rapida. Cominciò prestissimo a scrivere: poesie, recensioni, apparse queste ultime sul Giornale critico della filosofia italiana diretto da Gentile. Compose la sua prima opera molto giovane, nel 1927, a ventitré anni: i Fondamenti della logica aristotelica, che ampliava e rielaborava la sua tesi di laurea (discussa nel 1925); ma il suo primo scritto risale a qualche anno prima, al 1923, ed era dedicato a Pindaro, l´autore al quale Calogero, giovane studente di filologia classica presso l´Università di Roma, pensava di dedicare la tesi; questo prima di conoscere Gentile e dedicarsi agli studi filosofici.

    Dimostrava una precocità fuori dal comune nell´imparare le cose difficili, la logica, le lingue straniere, antiche e moderne. Tutto questo ci affascinava e ce lo faceva vedere, appunto, come un maestro. La sua sfortuna fu che così come aveva iniziato molto giovane finì il suo cammino di studioso non vecchio: ricordo benissimo quando la sua intelligenza cominciò a deperire, a degenerare. Mi vengono alla mente i colloqui che ebbi con sua moglie, Maria Comandini, e il racconto delle sue difficoltà. I suoi ultimi libri risalgono alla fine degli Anni Sessanta, per quanto poi continuasse a scrivere su periodici, riviste e quotidiani. Gli anni precedenti alla sua scomparsa furono terribili, si era appannata la sua intelligenza

    L´incontro con Capitini

    A quel periodo risale anche la mia conoscenza dell´altro ispiratore del liberalsocialismo: Aldo Capitini. Prima di insegnare a Siena, come accennato, ero professore a Camerino. E ricordo di esserlo andato a trovare a Perugia, nel momento in cui stava per pubblicare il libro che lo rese noto, Elementi di un´esperienza religiosa, che è del 1937, mentre il libro di Calogero, altrettanto fondamentale per la mia generazione, La scuola dell´uomo, è del 1939. Questi sono i due libri che rappresentano come dire un precorrimento, una specie di anticipazione, di quella che era la lotta politica antifascista clandestina, che però si manifestava nelle opere scritte, con molta cautela come dimostra il titolo del libro di Capitini, che in realtà celava una trattazione strettamente politica. Capitini e Calogero furono due figure assolutamente centrali per la mia formazione e per il mio ingresso nell´antifascismo attivo. E tuttavia erano personaggi molto diversi fra loro.

    Si possono individuare due fasi del loro rapporto. Dapprima c´è un dialogo legato al liberalsocialismo, che sta a cavallo fra la fine degli Anni Trenta e l´inizio degli Anni Quaranta. In estrema sintesi, mentre il liberalsocialismo di Capitini era di evidente orientamento social-religioso e non soltanto politico, quello di Calogero si caratterizzava per l´approccio giuridico. C´è poi una seconda fase di scambio fra i due, a metà degli Anni Sessanta, poco prima della morte di Capitini (che avviene nel 1964), che riguarda la filosofia del dialogo. Sulle riviste Azione non violenta (diretta da Capitini) e La Cultura (diretta da Calogero) uscirono articoli dell´uno e dell´altro sulla nonviolenza, il dialogo e l´"apertura" in cui i due affrontavano queste tematiche: l´uno, Capitini, partendo da un profondo senso religioso, l´altro, Calogero, da un forte afflato morale di matrice laica, che già in La scuola dell´uomo trova una testimonianza esemplare. Il problema centrale, comunque, nel quadro dei rapporti fra i due, è quello della nonviolenza. Calogero aveva una mentalità giuridica che Capitini certamente non aveva e questo portava il primo a sostenere (cosa che anch´io ho sempre pensato) che la nonviolenza finirebbe per essere una teoria disarmata, inefficace, senza il diritto. Come ho sottolineato in molti scritti, il diritto senza forza non si dà, come sanno tutti quelli che hanno studiato giurisprudenza, il diritto senza possibilità della sanzione, che operi qualora si verifichi la violazione delle norme, non esiste. Calogero e Capitini avevano senz´altro qualcosa in comune sul piano intellettuale, legato alla formazione idealistica, all´insegnamento di Croce e Gentile, da cui poi entrambi si distaccarono.

    Il modello Inghilterra

    Calogero era un idealista immanentista, la sua filosofia derivava da quella che era allora la filosofia dominante in Italia. Ma sulla questione del diritto e della nonviolenza le loro posizioni erano senz´altro diverse, e alcuni passaggi del saggio I diritti dell´uomo e la natura della politica, contenuto in questa raccolta, ne sono una chiara dimostrazione. Un altro punto su cui mi preme soffermarmi è il suo modo di intendere il socialismo. La sua simpatia per questa prospettiva culturale e politica va senz´altro attribuita alla sua ammirazione per l´Inghilterra e per il laburismo. Naturalmente bisognerebbe anche rivedere il suo libro sul marxismo, Il metodo dell´economia e il marxismo, che a suo tempo ebbe una certa fortuna tra coloro che si stavano avviando sulla strada dell´antifascismo. Sarebbe una buona occasione, fra l´altro, per richiamare l´attenzione su un testo ormai dimenticato e che pure presenta, ancora oggi, qualche interesse rispetto al dibattito continuato e sempre attuale sulla storia del marxismo. Le istanze socialiste di Calogero si raccolgono attorno all´idea di una società giusta fondata sul dialogo e la reciprocità, su un´idea di democrazia come colloquio integrale perché tutti devono avere il diritto-dovere di prendervi parte. Scrive per esempio Calogero in L´abbiccì della democrazia: "L´unità della democrazia è l´unità degli uomini che, per qualunque motivo, sentono questo dovere di capirsi a vicenda e di tenere reciprocamente conto delle proprie opinioni e delle proprie preferenze". E´ un modo singolare e originale di definire la democrazia. Quando si parla di democrazia s´intende, primariamente, la partecipazione al potere, richiamando una nozione di potere dal basso.

    L´uguaglianza è libertà

    Calogero fa riferimento al rapporto fra gli individui, alla relazione dialogica, alla democrazia come ciò che rende possibile il dialogo, che non è la definizione più comune di democrazia, per cui usualmente si intende, appunto, il rapporto fra l´insieme dei singoli e il potere. Questo in Calogero è implicito. Egli si richiama costantemente al rapporto fra gli individui, al dialogo inteso come reciprocità, ad un continuo domandare e rispondere: la democrazia è vista attraverso il dialogo, che è regola fondamentale ma anche valore. L´ideale della democrazia come colloquio spiega in qualche modo anche la sua visione sociale degli assetti democratici: tutti devono avere la possibilità di prendere parte allo scambio dialogico, devono avere l´effettiva capacità e l´effettivo potere di discutere con gli altri. E´ forse qui che si può rinvenire un´istanza propriamente socialista, in quanto l´effettività presuppone forme di eguaglianza fra gli individui: l´idea di eguaglianza - principio guida dell´azione del movimento operaio fin dai suoi esordi - arricchisce il liberalismo, come ho sostenuto in più occasioni. Ma per Calogero eguaglianza e libertà sono intimamente unite, inseparabili e, attraverso la loro unità, definiscono i cardini di una società giusta. Qui può situarsi un fecondo spazio di congiunzione fra il liberalsocialismo e le odierne forme di contrattualismo rilanciate da John Rawls e ispirate al principio dell´equità. La ricerca di Calogero di coniugare le due universali aspirazioni di libertà ed eguaglianza fu continua e sostanziata da uno spirito che, in fondo in fondo, sembra richiamare - anche se in un contesto laico - la lezione evangelica. Una tendenza questa che si può rinvenire del resto anche in alcuni autori del laburismo inglese, esperienza politica alla quale, come accennato, Calogero guardava come fondamentale riferimento per le sorti della nostra democrazia e, in particolare, della sinistra.

    Il tentativo di enucleare alcuni caratteri irrinunciabili del sistema democratico, alla ricerca delle modalità e delle ragioni di una convivenza sostanziata di valori autentici, e la possibilità di sviluppare l´idea liberalsocialista al fine di realizzare una società giusta attestano, a tutt´oggi, la vitalità della riflessione politica di Calogero.

    La Stampa
    21 dicembre 2001

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    Calogero, teorico della "società giusta"
    La nascita italiana della filosofia civile

    di STEFANO PETRUCCIANI

    Alla scoperta di un grande maestro dimenticato; in libreria gli atti di un convegno dell'Università di Pisa.
    "Liberalsocialismo", "etica del discorso", ormai se ne parla da anni. Ma a scoprirli per primi fu Guido Calogero, un figlio della tradizione idealistica, nella cui riflessione affiorano con singolare nettezza i temi delle etiche filosofiche più in voga.

    Tra gli intellettuali italiani del Novecento che meriterebbero di essere riletti con attenzione, se non addirittura riscoperti, una delle personalità più singolari è senza dubbio quella di Guido Calogero (1904-1986). Formatosi filosoficamente alla scuola di Giovanni Gentile, come buona parte della sua generazione, Calogero non fu solo una grande studioso del pensiero greco, dai presocratici ad Aristotele, e un importante pensatore originale (come testimoniano innanzitutto i tre volumi einaudiani delle sue Lezioni di filosofia). Fu anche un intellettuale impegnato nella lotta politica, nel dibattito delle idee, nel giornalismo un protagonista di quella cultura laica e democratica che, numericamente minoritaria nell'Italia del dopoguerra, si ritrovò in una esperienza politica (di breve vita) come il Partito d'azione e in un giornale come "Il Mondo".

    In anticipo su tutti
    Di quest'area Calogero è stato, insieme a Bobbio, col quale molto discusse e si confrontò, la mente più lucida. Ed è abbastanza strano che la cultura italiana degli ultimi tempi si sia piuttosto disinteressata di lui, perché Calogero fu uno di quelli che più decisamente prospettarono, già diversi decenni fa, idee che oggi tornano a interessare e a suscitare discussioni, come il tema del liberalsocialismo e quello dell'etica del dialogo.
    Molto tempo primo di Apel e di Habermas, i filosofi di Francoforte che, a partire dai tardi anni settanta, hanno lanciato sulla scena della filosofia europea la proposta teorica dell'"etica del discorso", Guido Calogero elaborò (nel volume del 1950 Logo e dialogo, poi ripreso nella più ampia raccolta Filosofia del dialogo, Edizioni di Comunità, Milano 1962) la sua etica del dialogo. In essa all'elogio laico dello spirito critico e della libertà di coscienza (una battaglia, questa, molto caratterizzante per il Calogero pubblicista, sempre impegnato sul fronte della laicità della scuola e della Cultura) si accompagna un interessantissimo ripensamento della natura stessa dell'etica che approfondisce e trasforma l'approccio alla moralità che era stato caratteristico del pensiero calogeriano fino a quel momento.
    Nei suoi testi degli anni Trenta e Quaranta, infatti, Calogero aveva caratterizzato la moralità soprattutto come scelta altruistica. Vi è una scelta assoluta, diceva, alla quale nessun individuo si può mai sottrarre, ed è per l'appunto quella tra egoismo e altruismo, tra l'ignorare gli altri, l'usarli solo come strumenti, o invece tener conto di essi, non prevaricarli, aprirsi alla comprensione delle loro esperienze e delle loro necessità.
    Quest'ultima è appunto la scelta morale, che è totalmente rimessa all'individuo e alla sua autonomia. Con l'elaborazione della filosofia del dialogo, però, questa impostazione subisce un mutamento di grande rilievo: se si riformula il principio morale non più semplicemente come altruismo, ma più specificamente come dovere di comprendere gli altri e di ascoltare le loro ragioni, allora si scopre una situazione nuova e per certi aspetti sorprendente.
    Ci si avvede, in sostanza, che, formulato come principio del dialogo, il principio morale, pur restando rimesso alla scelta autonoma dell'individuo, ha però una sua forza peculiare, che ci autorizza a considerarlo come l'unico principio indiscutibile del quale noi disponiamo, la sola "piattaforma stabile", così lo definisce Calogero, nel grande e in inquieto mare delle convinzioni discutibili, delle teorie scientifiche rivedibili, delle opinioni destinate a mutare con la trasformazione del paesaggio storico. Ma donde trae il principio morale questa forza e sembra sottrarlo a ogni oscillazione e assicurargli una validità di ombre e di incertezze?
    La risposta di Calogero, argentata come poteva fare un discepolo della dialettica platonica e aristotelica, è un buon esempio di sottigliezza filosofica. Il dovere di ascoltare le ragioni degli altri e di comprenderli è indiscutibile, sostiene Calogero, perché chi volesse contestarlo o demolirne la validità dovrebbe a sua volta entrare in un confronto di discorsi e di argomenti, e quindi sarebbe costretto proprio ad accettare quel principio del dialogo o della discussione che invece pretendeva di criticare o di rifiutare. Inteso come dovere di intendere gli altri, dunque, il dovere morale è un dovere che io prescrivo a me stesso in piena autonomia, ma di cui nessuno riuscirà mai a smentire la validità, perché per farlo dovrebbe appunto impegnarsi in una discussione con altri, ma con ciò avrebbe già accettato quel principio morale che intendeva respingere.

    La polemica con Bobbio
    A questa acuta argomentazione di Calogero fu a suo tempo obiettato, proprio da parte di Bobbio, che il dovere di discutere, e di prestare ascolto alle ragioni degli altri, è un imperativo dell'onestà intellettuale, ovvero dello spirito critico e antidogmatico, ma non esaurisce l'ambito della moralità. L'etica insomma, sosteneva Bobbio, non si può ridurre a un'etica della discussione. È questa un'obiezione molto simile a quelle che più di recente sono state rivolte all'etica del discorso di Apel e di Habermas. Acuto e non privo di forza persuasiva era però il modo in cui Calogero rispondeva ad essa: comprendere gli altri, prestare ascolto alle loro ragioni, implica il riconoscere, senza riserva alcuna, il loro diritto di esprimersi, di prendere la parola; ma con ciò è già implicitamente riconosciuto il diritto dell'individuo ad essere preso in considerazione e rispettato in tutta l'ampiezza delle sue esigenze e dei suoi bisogni. La legge del dialogo, dunque, non vale solo per la società degli intelletti, ma anche per quella degli uomini e dei cittadini: se ognuno ha diritto di essere ascoltato nelle sue idee, ha anche il diritto di vedere soddisfatti i suoi bisogni e le sue aspirazioni, in misura pari a come vengono soddisfatti i bisogni di ogni altro membro della società.
    L'etica del dialogo quindi, nella visione che ne elabora Guido Calogero, si salda perfettamente con una prospettiva politica liberalsocialista, quella che Calogero stesso aveva delineato, collaborando anche con Aldo Capitini, nel famoso manifesto del liberalsocialismo redatto nel 1940.
    Il nerbo teorico del liberalsocialismo viene enunciato da Calogero in modo chiarissimo in questo e nei tanti scritti successivi: esso si può riassumere nella convinzione che libertà e giustizia sociale, diversamente da quanto crede un pigro senso comune, non sono tra loro né confliggenti né tantomeno incompatibili ma, al contrario, sono a ben guardare profondamente e radicalmente solidali, fino al punto da costituire in realtà un ideale unitario. Le questioni concernenti la giustizia economica non sono altra cosa rispetto alla problematica della libertà, ma la riguardano direttamente: non è libero chi non ha la possibilità di fruire dei benefici della cooperazione sociale, e di soddisfare attraverso di essa i propri bisogni e le proprie aspirazioni. E d'altra parte è del tutto illusorio, ammoniva Calogero rivolto ai suo amici di sinistra, pensare che possa darsi giustizia sociale là dove man chino le condizioni essenziali di libertà politica. Le istituzioni della libertà politica e quelle della giustizia economica si sostengono e si richiedono vicendevolmente; esse sono legate, scriveva Calogero, da un "nesso indissolubile di reciproca presupposizione". Nella loro nettezza e radicalità (che sembrerà a qualcuno un po' utopistica) le sue pagine meriterebbero ancor oggi di essere meditate. Se non altro come antidoto rispetto a quelle forme di liberalismo socialmente insensibile e ultraliberista che oggi tornano in auge e di cui non pochi subiscono il fascino un po' sinistro.

 

 
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