L’Asia Centrale e il nuovo (inutile) “Grande Gioco”
di Andrea Forti
forti@ragionpolitica.it
giovedì 07 maggio 2009
A dispetto del «reset» fra le relazioni russo-americane solennemente proclamato il 6 marzo dal Segretario di Stato americano Clinton e dal suo omologo russo Sergej Lavrov sul campo non sembrano migliorare le relazioni fra la Federazione Russa e gli Stati Uniti. In questi giorni in una Georgia sconvolta da manifestazioni anti-governative e da voci di golpe si stanno svolgendo delle esercitazioni internazionali organizzate dalla Nato che, sebbene non coinvolgano molti dei membri europei occidentali e siano state all'ultimo momento boicottate anche dalla Serbia e da alcuni paesi della Csi, non possono non irritare Mosca, che da parte sua ha annullato un incontro fra il proprio stato maggiore e quelli della Nato previsto per il 7 maggio.
Oltre al fronte caucasico sembra che sia di nuovo l'Asia Centrale il fronte principale di questo nuovo «Grande Gioco» (così venne chiamata la competizione russo-britannica per il controllo dell'allora regione del Turkestan alla fine del XIX secolo). Questa delicata e volatile regione è governata, ora come duecento anni fa, da satrapi locali, ieri chiamati Khan e oggi Presidenti della Repubblica, astuti nel giocare per i propri interessi le varie potenze l'una contro l'altra, favorendo ora la Russia ora l'Occidente, che agli occhi di questi paesi coincide con l'America vista la sostanziale latitanza europea.
La nuova amministrazione Obama/Biden(/Clinton), pur evitando qualsiasi retorica anti-russa, sta mettendo a segno una serie di colpi ben assestati all'egemonia di Mosca sulle ex province centroasiatiche, che pareva oramai rafforzata e inossidabile dopo la recente chiusura della base aerea americana di Manas in Kirghizistan. Grazie all'intensa attività di un diplomatico come Richard Morningstar, veterano delle trattative energetiche con gli Stati centroasiatici fin dagli anni '90, quando lavorava per l'amministrazione Clinton, gli americani sono riusciti ad ottenere un allontanamento dalle posizioni russe dell'Uzbekistan e del Turkmenistan, due fra i più importanti Paesi dell'Asia Centrale.
Gli uzbechi hanno disertato il vertice dei ministri degli esteri della Csto (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, guidata dai russi) tenutosi a Erevan due settimane fa e il vertice di Mosca della SCO (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai) dedicato alla questione dell'Afghanistan, un inversione di rotta rispetto al riavvicinamento alla Russia intrapreso dalla dirigenza uzbeca dal 2006. Da parte sua il Turkmenistan, ricchissimo di gas naturale, sembra ora interessato ad esportarlo attraverso il (progettato) gasdotto occidentale Nabucco, un voltafaccia rispetto alle precedenti intenzioni di esportarlo attraverso il sistema di gasdotti russo.
Il «Grande Gioco» sembrerebbe un'equazione a due termini fra Stati Uniti e Russia se non ci fosse l'incognita cinese, un fattore colpevolmente ignorato quando in occidente si parla di Asia Centrale. La Cina, gigante in espansione nonostante la temporanea battuta d'arresto dovuta alla crisi, sta infatti costruendo un gasdotto che dovrebbe raggiungere i giacimenti del Turkmenistan passando attraverso Kazakhstan e Uzbekistan.
La sempre più invadente attività cinese nell'Asia Centrale si svolge nella cornice dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, e quindi gode della (apparente) non ostilità di Mosca, ma trova una insperata sponda anche da parte dell'amministrazione americana che, per bocca dello stesso Morningstar durante il summit energetico internazionale di Sofia di aprile, è convinta che il coinvolgimento cinese nello sviluppo dell'Asia Centrale «non sia una cattiva idea» e che ciò «aiuti i paesi dell'Asia Centrale».
Gli Stati Uniti non sono certamente favorevoli ad una crescita dell'espansionismo globale politico-economico della Repubblica Popolare Cinese, ma sanno bene che i reali punti di frizione fra i loro interessi e quelli di Pechino si trovano nella regione asiatica estremo orientale e del Pacifico; per questo è del tutto comprensibile come per Washington sia preferibile un'espansione economica e politica cinese nel «giardino di casa» della Russia piuttosto che verso Taiwan, il Sud-Est Asiatico o l'America Latina.
In questo quadro di generale mutamento degli equilibri centroasiatici (e mondiali) l'Europa sembra ancora assente, divisa fra un sostanziale disinteresse per quella regione e l'ingenua speranza che la diminuzione dell'influenza russa sulla regione coincida ipso facto con una democratizzazione dei sistemi politici locali. È molto probabile invece che il declino dell'influenza russa sull'Asia Centrale apra le porte alla Cina, un gigante politico, demografico e militare che oltretutto ha una storia di influenza e di dominio su quelle regioni ben più antica di quella americana e persino russa (la provincia cinese del Sinkiang è tutt'ora, per religione, etnia e cultura, parte dell'Asia Centrale).
Per questo motivo è interesse dell'Europa e della Russia mettere da parte nuove guerre fredde, o peggio caricature di scontri coloniali ottocenteschi, per intraprendere una reale collaborazione nello spazio eurasiatico, che metta la parola fine tanto agli impossibili sogni isolazionisti neo-imperiali accarezzati da alcune élites russe (non da Putin e Medvedev per fortuna!) che alle anacronistiche russofobie di alcuni paesi europei e neo-europei.