Il duello Fiumicino-Malpensa, che la politica vuol trasformare in un duello Berlusconi-Bossi, è nello stesso tempo il sintomo e il simbolo di quella che, magari con un po’ d’enfasi, viene definita la «questione settentrionale». Ridotta all’osso, la protesta nordista contro un accordo sull’Alitalia che premia Fiumicino e che benedice il matrimonio dell’Alitalia stessa con Air France, può essere così sintetizzata: è giusto che il cuore economico dell’Italia - evito l’immeritata qualifica di «capitale morale» un tempo attribuita a Milano - risulti inadatto a far funzionare un «hub» aeroportuale? È giusto riservarlo a Roma, che non voglio bollare bossianamente come ladrona, ma che di sicuro non ha credenziali luminose di efficienza organizzativa?
Nonostante le sue ricadute economiche e sociali, quello dell’Alitalia è un episodio. Rispecchia, tuttavia, un disagio che dura da tempo, dalla «linea gotica» in su. Questo disagio non ha avuto una eco culturale adeguata. Ha imperversato anzi negli ultimi anni un revisionismo tendente a smitizzare - fino all’umiliazione - i miti del Risorgimento, e a riabilitare i Borboni, il sillabo, il brigantaggio meridionale. S’è insistito - con ragione - sull’arroganza con cui l’Italia fu piemontizzata subito dopo l’Unità. (Viene invece coperto di contumelie chi oggi osi sottolineare la realtà d’una Italia dove la stragrande maggioranza del personale burocratico proviene da Sicilia, Calabria e Campania, non proprio le aree a maggior tasso d’efficienza e dal maggior senso civico).
Ma, poco presente nella saggistica, la questione settentrionale è acutamente sentita dalla gente. La Lega è stata l’interprete di questa insofferenza. Ha saputo cogliere uno stato d’animo che come i fiumi carsici percorreva il sottosuolo d’una politica intrisa di retorica e di manuale Cencelli. Bossi ha dato al nord la consapevolezza della sua forza, Berlusconi gli ha dato l’occasione per essere protagonista. Craxi era stato un presidente del Consiglio milanese assediato dalle falangi dei soliti inquilini del Palazzo, Berlusconi ha promesso di portare a Roma una ventata di decisionismo milanese.
L’ha portata in effetti. Ma - dicono i nordisti scontenti - per risolvere il problema dei rifiuti a Napoli, per ripianare i deficit romani o di Catania o di qualche altro disastrato Comune del sud, per privilegiare Fiumicino, per tollerare che la regione Sicilia abbia un personale scandalosamente più numeroso e costoso di quello della Regione Lombardia.
Si pretende forse troppo da Berlusconi, supponendo che con i modesti poteri di cui dispone il governo gli sia possibile di ripulire l’Italia dalle incrostazioni parassitarie che si sono accumulate in decenni. Il compito d’un governo che si proponga d’incidere sui privilegi e sugli sprechi è immane. La Lega può permettersi - e non sempre lo fa - d’essere draconiana, perché ha un elettorato concentrato in ben determinate zone, e con ben determinati assetti culturali e sociali. Ma un grande partito come il Popolo della libertà deve ascoltare le sollecitazioni virtuose, in tema di gestione del pubblico denaro, dei lombardi, e nello stesso tempo ascoltare le sollecitazioni alla spesa dei siciliani. Il rimedio sembra ovvio: basta rendere virtuose le zone che non lo sono. L’esperienza insegna invece che i vizi sono molto più contagiosi delle virtù. Eppure è questo lo sforzo che l’Italia deve fare, e da questo punto di vista la questione settentrionale rappresenta non una meschina rivendicazione settoriale, ma un appello perché quella balena arenata che è l’amministrazione italiana, e con lei l’Italia ufficiale, riescano a riprendere il largo.