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    LA REGINA DEL SUD
















  2. #12
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    BRIGANTI O PATRIOTI?

    Recensione di Romano Ricciotti su : F.M.Agnoli, Dossier Brigantaggio


    L'ultima fatica di Francesco Mario Agnoli, lo scrittore che si è meritata una posizione di primo piano fra gli storici delle Insorgenze (i moti popolari di difesa e di reazione contro le truppe francesi e quelle dei loro alleati "giacobini" della Repubblica Cisalpina, negli anni dal 1796 al 1815), è dedicata ai Briganti, ossia a coloro che si batterono nell'Italia meridionale contro le truppe del Regno d'Italia appena costituito (1961).

    Agnoli è un valoroso magistrato, da sempre addetto alla giurisdizione civile, abituato, quindi a scrivere sentenze. Questa volta il suo libro, dal titolo di Dossier Brigantaggio (che non è all'altezza del valore dell'opera) ha il taglio di una requisitoria. Certamente una requisitoria non di quelle acri, ottuse, acritiche come accade ahimè di sentire sovente nelle aule di giustizia. No, la sua è intelligente, ariosa, dotta, criticamente aperta alla riflessione sui fatti contrari alla tesi sostenuta e alle opinioni altrui. E questa scelta letteraria giova non poco alla leggibilità del libro, che è avvincente.

    Agnoli immagina di "compiere un viaggio nei territori del brigantaggio politico meridionale negli anni dal 1860 al 1870" scegliendo le propri guide "fra i dimenticati o vilipesi abitanti di quelle terre".
    Va detto subito che l'opera è il frutto di una "scelta di campo". Non è la storia della "liberazione" ma della "conquista" del Sud da parte delle truppe piemontesi, nel solco aperto da Carlo Alianello con i suoi romanzi e i suoi saggi.

    Chi erano i briganti? Secondo la storiografia ufficiale, erano bande di malfattori che, scorrevano, come si dice, le campagne, taglieggiavano le popolazioni e si opponevano armati alla forza pubblica, inviata nelle regioni del soppresso Regno delle Due Sicilie per restaurare l'ordine pubblico.

    Secondo la storiografia alternativa, oggi di gran moda - e secondo Agnoli - erano patrioti fedeli al Re borbone, che si ribellavano alle vessazioni dell'amministrazione pubblica del Regno d'Italia (leggi Piemontesi), e per questo, si univano alle bande dei briganti, creando in tal modo un fenomeno politico-militare nuovo, il brigantaggio politico.

    Le simpatie di Agnoli vanno decisamente verso i briganti, anche se il nostro Autore non è uno di quelli per i quali un marcel diventa ogni villan che parteggiando viene.

    Egli sostiene che "… la presenza di briganti nelle fila dei sostenitori dei borbonici, non significa affatto che la loro guerra sia, necessariamente, guerra di briganti. E' questione non solo e non tanto di numero e proporzione, ma di indizi gravi, precisi e concordanti, che impongono di affermare che, fatte salve poche eccezioni, quei briganti non sono più tali nel momento stesso in cui decidono di unire le sorti a una delle parti in lotta: si tratti dei garibaldini, dei comitati insurrezionali liberali o di quelli borbonici. Se si leggono senza tabù e pregiudizi le cronache del tempo e gli stessi atti ufficiali, con particolare riguardo a giudiziari, risulta evidente come la molla di simili decisioni non sia affatto il desiderio di rapina".

    E', ad avviso dell'Autore, "in apparenza più ragionevole la tesi che crede di trovare la prova della trasformazione dei ribelli borbonici in briganti nella ferocia con la quale viene condotta la guerriglia, nei saccheggi, nell'uccisione dei prigionieri, nelle estorsioni a danni dei ga1antuomini (ricchi borghesi), a volte senza distinguere fra liberali e borbonici. Mezzi e modi disapprovati anche [il loro alleato] Borges e dall'altro generale carlista Rafael Tristany, i quali, a loro volta, d'accordo in questo con i piemontesi, considerano non guerriglieri ma briganti, combattenti come il lucano Carmine Crocco, il ciociaro Luigi Alonso detto Chiavone e i loro più stretti collaboratori".

    [Il Borges, evocato da Agnoli, è il generale spagnolo Josè Borges, reduce dalle guerre carliste, sbarcato in Calabria e unitosi a Carmine Crocco, per contribuire alla cacciata dell'esercito piemontese. Ma presto si rese conto che Croco era un volgare bandito e se ne distaccò, per andare a morire fucilato dai Piemontesi. Borges non poteva più a lungo rimanere con Crocco, che considerava "un ladro, anzi il re dei ladri".]

    Insomma, i briganti erano davvero briganti. Ma Agnoli è persuaso che "… non servirebbe a tracciare una linea di demarcazione fra briganti e combattenti un'indagine diretta ad accertare chi per primo abbia fatto ricorso a sistemi avversi alle regole che il diritto internazionale prevede anche per il caso di guerra, comunque contrari all'umanità. L'operazione può non essere del tutto inutile, ma solo al fine di esprimere per una delle parti un giudizio di minore responsabilità, di concedere l'attenuante della provocazione, infine di fornire una parziale giustificazione a chi abbia reagito, sia pure, a sua volta, eccedendo i limiti, ad una eccessiva violenza altrui. Tuttavia, se ci si pone su questo piano, sono proprio le responsabilità dei piemontesi a soverchiare di gran lunga quelle dei cosiddetti briganti borbonici (…) Né va dimenticato che, come sempre accade nelle guerre di rivolta, i borbonici per procurarsi non solo le armi, ma addirittura il cibo indispensabile alla sopravvivenza. possono contare unicamente sui contributi volontari della popolazione, che condivide la causa per cui essi combattono. Se questi vengono meno per effetto della disaffezione, della diffusa miseria o, come quasi sempre avviene, dei terrore di crudelissime rappresaglie, del vuoto provocato da stragi, incendi, indiscriminate carcerazioni, non rimane che il ricorso ad un terrore altrettanto forte, al saccheggio e alle estorsioni nei confronti di chi parteggia, per connivenza o viltà, col nemico o viene additato, non sempre giustamente, come tale". "Le stesse considerazioni - prosegue Agnoli - non valgono per i piemontesi, scesi al Sud con grande abbondanza di mezzi di ogni genere e ben presto impadronitisi anche delle risorse, incluse quelle, finanziarie, delle Due Sicilie".

    E questo giustifica i saccheggi di interi paesi e gli incendi appiccati dai briganti alle case dei galantuomini, ossia dei possidenti, vittime di rapine, di estorsioni e sovente anche assassinati.

    Esempi di "un terrore altrettanto forte" ce ne sono tanti. Basta consultare Internet. Abele De Blasio, per esempio, narrando le storia del brigante Michele Caruso (www.il brigantaggio.net), riferisce che

    "Nei pressi di Morcone in contrada Cuffiano, il colonnello bussa alla masseria di Pasquale De Maria. I Fuschi non possono più aiutarlo; sono in galera per avergli dato ricovero e provviste. Chiede foraggio per le bestie e cibo per tutti. Berardino Polzella venuto ad aprirgli la porta dice che il padrone Pasquale non c'è e nulla nella sua assenza è autorizzato a dare. "Come - dice Caruso - le Autorità non vogliono che voi ci diate da mangiare? Mettetevi tutti in fila!" Obbediscono Luigia Pietrangelo, Berardino Polzella con la moglie Marta Zeoli, i figli Giuseppe, Mariantonia, Luigi, Domenico e Michele. Tutti fucilati, indi fatti a pezzi e sfigurati con colpi di pugnale; tutti, anche Luigi di nove anni, Domenico di sette e il piccolino Michele di appena quattro anni. Il medico legale attesterà che la più giovane era stata violentata sino alla morte da quasi tutta la banda, forte di oltre cinquanta briganti. (…) Caruso si è messo in via per Benevento il giorno dopo, il 6 ottobre lo ritroviamo a S. Giorgio la Montagna, attualmente S. Giorgio del Sannio. Riceve polvere da sparo; immediata esercitazione sulla schiena di nove contadini che lavorano la terra. Su nove infelici, cinque rimangono stecchiti, gli altri gravemente feriti. Il 12 ottobre ripassa a Decorata di Colle Sannita nello stesso fondo in cui ha ucciso il 1° settembre Giuseppe Ciccaglione; vede la figlia Filomena intenta con altre donne alla semina. L'afferra e la issa sul proprio cavallo. Per ben quattro volte Filomena si getta giù per sottrarsi al suo rapitore. Egli la trascina nel bosco di Riccia e in una grotta la violenta, indi la rimette in sella e la costringe ad una lunga cavalcata …"

    A imprese siffatte seguivano - sanguinose e incivili - le "rappresaglie" da parte dei reparti piemontesi. Incendi, sparatorie contro gli sventurati che cercavano di sfuggire al fuoco, fucilazioni indiscriminate di contadini e borghigiani, perpetrate allo scopo di dissuadere quelle popolazioni dal dare assistenza ai briganti.

    Le "rappresaglie" erano indegne di un popolo e di un esercito civile, per crudeltà e per sproporzione.

    Tuttavia erano reazioni a imprese altrettanto barbariche, come quella narrata dallo storico Emidio Cardinali (che Agnoli non ritiene degno di fede ma cita senza negare la vicenda).

    Scrive Cardinali: "Celebre sarà nella storia la terribile giustizia fatta in Pontelandolfo e Casalduni. I briganti con cui avevano stretto causa comune i cittadini di que' due villaggi, misero in pezzi un'avanguardia di quarantadue soldati italiani. Ciò fu nulla: quello che faceva trasalire dal disdegno e dal ribrezzo si fu il macello commesso su i cadaveri delle vittime. Trofei di militari divise strappate dai corpi; gambe, braccia, teste orribilmente peste e mutilate, altre membra... inchiodate qua e là a dileggio vergognoso, colmarono la misura del furore".

    Era l'agosto 1862.

    Qualche giorno dopo piemontesi piombarono sui due villaggi, diedero alle fiamme Pontelandolfo, fucilarono tutti coloro che ne uscivano per sfuggire alle fiamme; e su Casalduni, dove vi furono in grande quantità uccisioni stupri, violazione di chiese e di altari, e anche lì incendi.

    Certamente fu una strage orrenda, non una rappresaglia militare.

    A Gioia del Colle, nel corso di una giornata di insurrezione, i paesani fedeli al Re borbone uccisero "un bambino meno che decenne, colpito, dopo qualche esitazione, perché una madre imprudente lo aveva vestito con una divisa in miniatura da guardia nazionale e, soprattutto, perché alla domanda rivoltagli, proprio da chi voleva salvarlo, se volesse per Re Francesco II o Vittorio Emanuele, aveva ingenuamente risposto, come gli era stato insegnato in famiglia, Vittorio Emanuele

    Ne seguì un'altra rappresaglia ferocissima.

    Questo è un piccolo saggio delle vicende narrate da Francesco Mario Agnoli, che mostra comprensione per le malefatte dei briganti e non tiene conto di quali impulsi selvaggi suscitino nella truppa la visione dei commilitoni uccisi, squartati, dei bambini uccisi per nulla, la consapevolezza di poter essere bersaglio di colpi provenienti a sorpresa da un bosco, da una siepe, da un fosso, e di essere crudelmente uccisi in caso di cattura.

    Personalmente, mi sentirei più propenso a vergognarmi di quel che fecero gli uni e gli altri (di più, i piemontesi). Ma mi sento anche - dopo centocinquant'anni - di commiserare il nostro popolo, che subì le dolorosissime conseguenze del travaglio dell'unificazione italiana. E di pensare con ammirazione agli eroi dell'una e dell'altra parte con doverosa pietas anche gli assassini, briganti e militari piemontesi, protagonisti di quella che Agnoli giustamente definisce una guerra civile.

    Non condivido il disprezzo per il "cosiddetto Risorgimento", che ebbe scopi, eroi, vittime nobilissimi.

    Il Risorgimento secondo Agnoli, non è riuscito a "dare il senso dell'identità nazionale". Non il Risorgimento, direi, ma uomini del Risorgimento. L'Italia è fatta, bisogna fare gli italiani, disse Massimo D'Azeglio, che, nel Purgatorio, dove probabilmente si trova per la grande misericordia di Dio, certamente riflette sulla colpa di non aver fatto gli Italiani, ma di averli divisi.

    L'Italia fu fatta con sacrifici e anche con genio politico. Mancò, negli uomini che la fecero, i liberali, il senso italiano di umanità (parcere subiectis) e la consapevolezza che l'identità nazionale italiana è romana e cristiana insieme.

    Solo la Conciliazione del 1929 mise in qualche modo le cose a posto. E, se il Cardinale Ruini può, oggi, pronunciare un'omelia davanti alle bare di diciannove Carabinieri e soldati caduti nel compimento del dovere, in una Roma ornata di tricolori, invocando la benedizione di Dio sui Caduti, sulla Nazione e sulla Patria, se l'intera Nazione si è stretta intorno a quelle bare con il cuore gonfio di commozione, se gli Italiani, oggi, amano i Carabinieri e i Bersaglieri, tutto questo è dovuto alla Conciliazione.

    Gli Italiani, è vero, non sono ancor fatti. Ma abbiamo la speranza di riuscirvi. La vita dei popoli si conta per secoli.

    FRANCESCO MARIO AGNOLI, Dossier Brigantaggio, Viaggio tra i ribelli al borghesismo e alla modernità, Controcorrente, Napoli, 2003, pp. 390, euro 20.000.


    da Identità europea

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    grazie mille e per la rassegna fotografica dell eroica(anche per l esercito sardo piemontese che alla fine dell assedio di gaeta le tributo gli onori militari)regina del sud moglie del santo sovrano dello Stato delle due Sicilie

  4. #14
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    José Borges. Valoroso soldato cristiano

    di Francesco Mario Agnoli


    Il generale José Borjes

    In località La Lupa, comune di Sante Marie, un cippo marmoreo collocato dall'amministrazione comunale e dal Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio ricorda che lì, l'8 dicembre 1861, «s'infranse l'illusione del gen. José Borjès e dei suoi compagni di restituire a Francesco II il Regno delle Due Sicilie. Catturati da soldati italiani e guardie nazionali di Sante Marie al comando di Enrico Franchini furono fucilati lo stesso giorno a Tagliacozzo». Dall'8 dicembre 2003 questo cippo, sostituendo il precedente, che definiva Borges (o Borjés come si continua a scrivere in Italia) e i suoi seguaci, spagnoli e “duosiciliani”, banditi e mercenari, ne riabilita ufficialmente la memoria, riconoscendo la dignità, morale e politica, della causa per la quale si battevano, che tuttavia andava ben oltre la semplice restaurazione della monarchia borbonica.

    In realtà, tanto questa quanto l'unificazione politica italiana (per come la intesero e realizzarono i suoi protagonisti) si inquadrano nello scontro epocale fra due civiltà che, dopo oltre due secoli di preparazione, ebbe in Francia nel 1789 la prima esplosione in armi. Da entrambi i lati della barricata se ne era consapevoli. Non per nulla, per molti anni dopo la proclamazione del Regno d'Italia anche su giornali ufficiali ed ufficiosi si continuò a scrivere che le lotte per l'unificazione politica della nazione italiana non erano «rispetto all'umanità, null'altro che mezzi per conseguire quel fine, che a lei sta sommamente a cuore, della totale distruzione del medioevo nel l'ultima sua forma: il cattolicesimo» (così scriveva Il Diritto dell'11 agosto 1863, il giornale che svolgeva la funzione di portavoce ufficioso di Agostino Depretis).

    Nel campo opposto, nella primavera del 1861, la notizia dell'insurrezione del popolo napoletano contro il nuovo potere "piemontese" aveva entusiasmato i legittimisti di tutta Europa per il ritorno della Vandea, di una nuova Vandea che avrebbe saputo infliggere ai "giacobini" una sconfitta definitiva.

    È questa convinzione a spiegare l'accorrere da tutta Europa (e addirittura dagli Stati Uniti e dal Canada) di volontari pronti a battersi per restituire il trono a Francesco II. La simpatia per il giovane re, brutalmente spodestato contro tutte le regole del diritto internazionale, vi aveva la sua parte, ma la molla profonda era la consapevolezza di un nuovo scontro fra il "vecchio" mondo, nel quale la distinzione fra Dio e Cesare non negava l'influenza sociale della religione e l'obbligo del potere politico di rispettare i principi essenziali di un naturale ordine superiore (nient'altro significa la formula tradizionale "Trono e Altare"), e il "nuovo", deciso a distruggere la religione (e in particolare il cattolicesimo) o, nei più moderati, a ridurla a un fatto intimistico e privato.

    Di questa guerra José Borges, nato nel 1813 a Fernet, piccolo villaggio catalano, fu per tutta la vita consapevole protagonista. Figlio di un militare legittimista e cresciuto nel clima e nel ricordo della gloriosa insurrezione del popolo spagnolo contro le armate napoleoniche, non ebbe esitazione a partecipare, ancora giovanissimo, alle "guerre carliste", schierandosi fra i legittimisti, che appoggiavano le aspirazioni al trono di don Carlos, fratello di Ferdinando VII, contro i liberali, sostenitori di Isabella, figlia minorenne del defunto re, e della reggente Maria Cristina.

    Costretto dalla sconfitta all'esilio in Francia, Borges accettò con entusiasmo la proposta dei comitati borbonici di recarsi nell'Italia meridionale per dare organizzazione militare agli insorti (i "briganti" della nostra storiografia ufficiale) e assumerne il comando, ma si accorse ben presto che le capacità organizzative dei comitati non erano all'altezza dell'impresa. Quando, nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1861, sbarcò, con 18 spagnoli e 2 napoletani, sulla spiaggia di Gerace, nei pressi di Capo Spartivento, non solo non trovò ad attenderlo i duemila uomini ben armati che gli erano stati promessi, ma il momento d'oro dell'insorgenza borbonica, quando paesi e piccole città accoglievano in trionfo gli insorti sventolando le bianche bandiere gigliate, era passato e il paese giaceva prostrato sotto la cupa violenza di una feroce repressione.

    Nonostante la delusione Borges volle persistere nell'impresa, utilizzando il migliaio di uomini che al comando di un contadino di Rionero, Carmine Donatello Crocco, pur costretti dalla controffensiva "piemontese" ad abbandonare i maggiori centri abitati, tenevano sotto controllo un vasto territorio fra Calabria e Lucania. Tuttavia Borges era troppo buon cristiano e troppo soldato per tollerare l'eccessiva inclinazione alla violenza e al saccheggio di Crocco, che considerava un brigante e che, a sua volta, mal sopportava di obbedire ad un forestiero di troppi scrupoli. Il fallimento, dopo alcuni illusori successi, del tentativo di prendere Potenza per insediarvi un governo provvisorio rese inevitabile la separazione. Crocco, in vista dei difficili approvvigionamenti invernali, suddivise l'armata contadina in piccoli gruppi; Borges, con una dozzina di spagnoli e otto “duosiciliani”, prese la via di Roma per fare rapporto al re.

    Il cippo di Sante Marie

    Il viaggio, con freddo intenso fra le montagne abruzzesi coperte di neve, è reso ancora più duro dalla necessità di evitare le pattuglie di bersaglieri e guardie nazionali. Nella tarda notte fra il 7 e l'8 dicembre nei pressi di Tagliacozzo, a quattro miglia dal confine pontificio, la salvezza è a portata di mano, ma i napoletani, che non hanno cavalcature, non sono in grado di proseguire. Per non abbandonarli il generale ordina una breve sosta alla cascina Mastroddi in località La Lupa.

    La decisione segna il destino di tutti. Poche ore dopo la cascina è circondata dai bersaglieri del maggiore Enrico Franchini. Nello scontro cadono tre spagnoli. Gli altri sono costretti ad arrendersi dopo che il maggiore ha fatto appiccare il fuoco ai piani bassi della fattoria. Da soldato, Borges porge la spada al maggiore che, sprezzante, la rifiuta.

    I prigionieri sono trasportati a Tagliacozzo e qui, verso le otto della sera, frettolosamente fucilati. Il Franchini concede un confessore, ma nega la fucilazione al petto. Lo spagnolo Pedro Martinez chiede un foglio e, anche a nome dei compagni, scrive un ultimo messaggio: «Gesù e Maria. Noi siamo tutti rassegnati ad essere fucilati. Addio. Ci ritroveremo nella valle di Giosafat; pregate per tutti noi». La scarica dei fucili tronca le preghiere recitate ad alta voce dai condannati.


    Il Timone, marzo 2006

  5. #15
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    e per la presentazione dell ultimo legittimo sovrano che abbiamo avuto.sono sempre piu i neolaureandi in facoltà storiche in italia che affrontano nelle tesi di laurea in chiave revisionistica il fenomeno del brigantaggio postunitario e dei plebisciti fasulli.

  6. #16
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    Giacinto de' Sivo (1814-1867)

    di Francesco Pappalardo



    1. Dalla letteratura alla storia attraverso la politica

    Giacinto de' Sivo, scrittore e storico napoletano, nasce a Maddaloni, in Terra di Lavoro, il 29 novembre 1814, da una famiglia di militari devota alla dinastia borbonica. Il nonno, pure di nome Giacinto, aveva armato a proprie spese soldati per la difesa del regno in occasione dell'aggressione giacobina e francese, e lo zio Antonio era stato fra gli ufficiali del card. Fabrizio Ruffo (1744-1827), che nel 1799 aveva animato e guidato l'impresa della Santa Fede; anche il padre, Aniello, era stato un valoroso ufficiale dell'esercito napoletano, ma aveva dovuto lasciare il servizio attivo a causa di un infortunio.

    Il giovane Giacinto preferisce l'arte della penna a quella delle armi e frequenta a Napoli la scuola del marchese Basilio Puoti (1782-1847), maestro di lingua e di elocuzione italiana. Di tale insegnamento si possono riconoscere le tracce in tutti i suoi scritti, in prosa o in versi: la classica armonia delle strutture, la purezza delle voci e le preziosità lessicali, che rendono il suo stile non sempre agevole, ma denso e caustico. Nel 1836, poco più che ventenne, dà alle stampe un volumetto di versi, cui segue, quattro anni dopo, la prima di otto tragedie, alcune delle quali saranno rappresentate con discreto successo e stampate più volte; quindi pubblica un romanzo storico, Corrado Capece. Storia pugliese dei tempi di Manfredi. Nel 1844, sposa Costanza Gaetani dell'Aquila d'Aragona, figlia del conte Luigi, maresciallo di campo e aiutante generale del re, dalla quale avrà tre figli.

    Parallelamente all'attività letteraria, entra a far parte della Commissione per l'Istruzione Pubblica e, nel 1848, è nominato consigliere d'Intendenza della provincia di Terra di Lavoro. L'anno seguente è capitano di una delle quattro compagnie della Guardia Nazionale di Maddaloni, fino allo scioglimento di questa milizia, quindi comanda per alcuni mesi la ricostituita Guardia Urbana. Gli avvenimenti del biennio rivoluzionario 1848-1849, che recano le prime gravi minacce all'integrità dell'antico Stato napoletano, turbano il giovane letterato e lo inducono a dedicarsi alla riflessione storica per comprendere le ragioni dell'immane tragedia che sconvolge l'Europa. Sospende per qualche tempo la composizione tragica e comincia a scrivere una monografia sugli avvenimenti recenti, che non pubblica immediatamente "[...] per non parer di percuotere i vinti e inneggiare a' vincitori", e che rappresenterà il nucleo generatore della Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861. I tristi presentimenti diventano presto realtà e, nel 1860, aggredito dalle bande garibaldine e dall'esercito sardo, il Regno delle Due Sicilie cessa di esistere dopo una storia sette volte secolare.

    De' Sivo, fedele alla dinastia legittima, è destituito dalla carica di consigliere d'Intendenza e imprigionato. Scarcerato alcune settimane dopo, è nuovamente arrestato il 1° gennaio 1861; finalmente liberato due mesi dopo, vuole sperimentare la "vantata libertà della parola" e inizia la pubblicazione di un giornale legittimista, La Tragicommedia. Il vessillo del giornale è il "prepotente amore" alla patria, che non è la "Patria" astratta e letteraria dei rivoluzionari, bensì "idea semplice cui ciascuno intende senza dimostrazione; è il suolo ove siam nati, ove stan l'ossa degli avi, la terra de' padri". La Tragicommedia, che nasce anche con l'intento di "[...] ricordar le ricchezze dileguate, l'armi perdute, fra' rimbombi de' cannoni, e i gemiti de' fucilati, e i lagni de' carcerati", viene soppresso dalle nuove autorità dopo i primi tre numeri. Imprigionato per la terza volta, lo storico napoletano sceglie la via dell'esilio e il 14 settembre 1861 parte per Roma, da dove non farà più ritorno. Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati alla difesa, spesso polemica, dell'identità nazionale del paese - appartengono a questo periodo gli opuscoli Italia e il suo dramma politico nel 1861 e I Napolitani al cospetto delle nazioni civili - e, soprattutto, alla riflessione e alla ricostruzione storica. Dà alle stampe una Storia di Galazia Campana e di Maddaloni e porta a termine la Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, che rappresenta il culmine della sua produzione letteraria e storica. Il primo volume è recensito su La Civiltà Cattolica dal gesuita Carlo Maria Curci (1809-1891), che lo giudica lavoro di "altissimo pregio" quanto "a sanità di principii, a nobili sentimenti di onestà e di religione, a coraggiosa franchezza nel qualificare le cose e le persone coi proprii loro nomi, e, per ciò che noi possiamo giudicarne, eziandio quanto a veracità di fatti narrati".

    De' Sivo intraprende quindi un nuovo lavoro, una difesa storica del Papato contro le calunnie rivoluzionarie, ma la morte lo raggiunge a cinquantadue anni, il 19 novembre 1867, proprio nei giorni in cui - come fu scritto nel necrologio apparso su Il Veridico. Foglio popolare, il settimanale antirisorgimentale la cui prima serie venne pubblicata a Roma dall'agosto del 1862 all'11 settembre 1870, sotto la direzione di monsignor Giuseppe Troysi - "la gloriosa vittoria di Mentana gli allegrava la magnanima ira e il settenne dolore d'ingiusto esilio e gli stenti di morbo rincrudito".

    2. La "damnatio memoriae"

    Il trattamento inflitto all'opera di de' Sivo è conseguenza dello sforzo compiuto dalla cultura dominante per manipolare o per cancellare la memoria storica del popolo italiano attraverso l'inquinamento del patrimonio culturale della nazione e l'abbandono nell'oblio di avvenimenti e di personaggi particolarmente significativi.

    Per circa sessant'anni sull'opera dello storico di Maddaloni ha gravato una coltre di silenzio, sollevata da Benedetto Croce (1866-1952) - partenopeo di adozione ma privo di una comprensione adeguata della storia napoletana, a causa dei suoi pregiudizi storicistici - con un breve saggio, Uno storico reazionario: Giacinto De Sivo, che ne offre però un'interpretazione riduttiva e deformante. Soltanto nel secondo dopoguerra viene data alle stampe, un secolo dopo la prima edizione, la Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861; e vede la luce la prima biografia dell'autore, scritta con affettuosa "compassione" dallo storico Roberto Mascia, scomparso nel 1972. Seguono quindi le riedizioni de I Napolitani al cospetto delle nazioni civili e dell'Elogio di Ferdinando Nunziante, e la ristampa dei tre numeri del periodico La Tragicommedia.

    3. L'insegnamento storico e morale

    L'opera storica di de' Sivo non si esaurisce nello sterile rimpianto del passato e nella difesa incondizionata della dinastia borbonica, ma costituisce un'aperta denuncia della malizia e della strategia rivoluzionarie, nonché dell'inettitudine e dell'impreparazione di quanti avrebbero dovuto opporre prima una resistenza e poi, eventualmente, una reazione agli accadimenti.

    Anche quando prevalgono lo sdegno per la violazione del diritto e la protesta contro l'"iniquo servaggio" che grava sulle contrade napoletane, non viene meno la consapevolezza del carattere rivoluzionario dell'aggressione al Regno delle Due Sicilie, che è soltanto un episodio - anche se macroscopico - dello scontro gigantesco in atto fra la religione e l'ateismo. La "cruenta e atrocissima" lotta che contrappone italiani a italiani passa in secondo piano di fronte a un male più grave, cioè il "dileggio" che lo Stato unitario fa del diritto, della morale e della religione. L'unità politica, dunque, non è sempre un bene, anzi è un male quando viene realizzata contro la Chiesa e le autorità legittime, a danno dei valori spirituali e civili della nazione. In opposizione al piano rivoluzionario, che vuole "l'unità geografica e la disunione morale", egli prospetta l'ipotesi di una confederazione, sul modello di quella svizzera e degli Stati germanici, affinché possano sopravvivere le autonomie, le leggi, le tradizioni di ciascun popolo della penisola "[...] e l'Italia cristiana riederà al suo naturale primato", alla sua vocazione storica, che è quella di accogliere e di proteggere la Cattedra di Pietro.

    De' Sivo apporta alla cultura cattolica contro-rivoluzionaria un contributo non trascurabile sia per la comprensione della dinamica delle ideologie, che si affermano nella storia - come ebbe a scrivere Papa Giovanni Paolo II nel messaggio per la XVIII Giornata Mondiale della Pace, dell'8-12-1984, al n. 6 - attraverso "disegni nascosti" - accanto ad altri "apertamente propagandati" - "miranti a soggiogare tutti i popoli a regimi in cui Dio non conta", sia per la conoscenza dei meccanismi di tale dinamica, messi in moto soprattutto da circoli settari di origine massonica, che - dopo avere sradicato la religione dalle classi dirigenti nel corso del secolo XVIII - perseguono l'obiettivo della "democratizzazione dell'irreligione". Anche la dinastia borbonica e le classi dirigenti del regno hanno gravi colpe, la cui "confessione" non è meno utile della denuncia delle manovre settarie. Le calamità del secolo XIX sarebbero incomprensibili senza gli errori del secolo precedente: l'adesione degli intellettuali all'illuminismo, la decadenza colpevole della Nobiltà, il contributo decisivo dato dalla monarchia assoluta all'opera di laicizzazione dello Stato e di secolarizzazione della società, hanno indebolito il regno, che nel momento decisivo non seppe resistere all'aggressione interna ed esterna.

    4. "Tacito della tirannide settaria"

    Poiché la Rivoluzione - cioè l'opera plurisecolare tesa alla distruzione della Cristianità e alla costruzione di una realtà storica a essa diametralmente opposta nei princìpi e nei fatti - ha potuto procedere solo grazie all'occultamento del suo volto e dei suoi fini ultimi, il mezzo più efficace per combatterla - secondo la lezione del pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) nell'opera Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, del 1959 - consiste nel denunciarne lo spirito e la strategia: "Strapparle, dunque, la maschera significa sferrarle il più duro dei colpi". Ebbene, de' Sivo ha svolto tale compito con efficacia, meritando l'appellativo di "Tacito della tirannide settaria" - attribuitogli dall'anonimo estensore del citato necrologio - per aver "strappato coraggiosamente all'ipocrita la rossa camicia e il tricolore paludamento, disvelando sott'esso di che lagrime grondi e di che sangue". Inoltre, insegna a Napoli e a tutto il Mezzogiorno d'Italia che l'attesa rinascita religiosa e civile può essere perseguita e conseguita soltanto compiendo un profondo esame di coscienza nazionale e ricuperando le proprie radici storiche e spirituali, da tempo conculcate e disprezzate, non solamente da parte di allogeni.



    --------------------------------------------------------------------------------
    Per approfondire: fra le opere principali di Giacinto de' Sivo, ripubblicate negli ultimi decenni, vedi Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Berisio, Napoli 1964; I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, Borzi, Roma 1967, e, con una introduzione di Silvio Vitale, Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini 1994; Storia di Galazia Campana e di Maddaloni, La Fiorente, Maddaloni (Caserta) 1986; Elogio di Ferdinando Nunziante, presentato e pubblicato da Bruno Iorio con il titolo Un "eroe" borbonico, Galzerano, Casalvelino Scalo (Salerno) 1989; e il periodico La Tragicommedia, ristampato - a cura di Francesco Maurizio Di Giovine e di Gabriele Marzocco - dall'Editoriale il Giglio, Napoli 1993; di Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861 vedi due recensioni su La Civiltà Cattolica, una al primo volume, a firma di padre Carlo Maria Curci S. J. (anno XV [1864], serie V, vol. X, fasc. 340, pp. 444-463), e l'altra al terzo volume, a firma di padre Francesco Berardinelli S. J. (1816-1892) (anno XVII [1866], serie VI, vol. VII, fasc. 392, pp. 200-212); l'unica biografia completa dello storico napoletano è Roberto Mascia, La vita e le opere di Giacinto de' Sivo (1814-1867). Il narratore - Il poeta tragico - Lo storico, Berisio, Napoli 1966; il saggio di Benedetto Croce, Uno storico reazionario: Giacinto De Sivo, Tipografia Giannini, Napoli 1918, è ora in Idem, Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici, Laterza, Bari 1949, pp.147-160.

    http://www.alleanzacattolica.org/idis_dpf/voci/s_giacinto_de_sivo.htm

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    Carlo Alianello: la prosa di uno scrittore contro corrente


    di Mario Santoro


    Carlo Alianello, dal carattere riservato e schivo, era figlio di un ufficiale di artiglieria e, a causa del lavoro del padre ha dovuto cambiare spesso residenza maturando diverse esperienze ambientali: ha frequentato le scuole elementari alla Maddalena, le scuole medie a Firenze, il ginnasio e il liceo a Roma. Laureato in lettere giovanissimo fu vincitore di concorso ed ha insegnato nei licei di Rieti, di Camerino e poi di Roma ed ha chiuso la sua carriera facendo l’ispettore centrale al Ministero della Pubblica Istruzione.
    Era un uomo, non solo capace di sfuggire alle mode e alle tentazioni, ma anche orgogliosamente legato al suo porsi al di fuori e al suo ricercare l’isola di Robinson, con le implicite conseguenze.
    La voglia di isolamento, il bisogno di ritrovarsi solo con se stesso, la ricerca anche insistenza di allontanamento dal chiasso e dal rumore gli facevano spesso dire:

    “…della sua isola deserta, chi ha coscienza di scrittore non può farne a meno, mai, dove possa comporre in pace il mondo col proprio silenzio e riscoprirselo pian piano, a modo suo. Che è poi l’innocenza attiva dell’arte”.

    E questo serve anche a farci capire meglio la sua condizione di scrittore diverso per cui diventa difficile inquadrarlo entro certi parametri e cercare di farlo rientrare in qualche scuola del dopoguerra.
    Certamente appare finanche scontato sostenere che è un erede del romanzo ottocentesco, quello di tipo tradizionale, inteso nella accezione migliore. Ma va precisato subito che Carlo Alianello si pone in posizione scomoda nel suo sforzo di contribuire alla revisione del nostro Risorgimento con riferimento al Sud. E’ quanto si può notare nei suoi romanzi e soprattutto ne “L’alfiere” che è considerato, in qualche modo, il capolavoro dell’autore. Fu pubblicato nel 1943 e diede subito una certa notorietà.
    Infatti l’autore ricevette sinceri consensi da alcuni critici ma alcuni, ancora legati al fascismo che pure era in declinio, si schierarono apertamente contro di lui.
    Lo accusarono addirittura di disfattismo e, per questa ragione, egli fu condannato al confino, ma, per sua fortuna, la caduta del fascismo consentiva di veder sospeso il provvedimento e addirittura il commissario repubblichino dell’Einaudi giudicò il libro utile alla causa perché esaltava il senso dell’onore dei soldati borbonici.
    Come si può facilmente comprendere, la condizione del regno di Napoli era abbastanza simile a quella della repubblica di Salò.
    Alianello è sinceramente convinto che la storia non debba essere tutta scritta dai vincitori e che quindi una guerra civile, come può considerarsi quelle combattuta al Sud durante e dopo l’unità d’Italia, non può essere intesa in maniera faziosa come purtroppo appare ai suoi occhi di studioso, ma deve saper guardare ai fatti con distacco ed obiettività. Di conseguenza non accetta l’idea che tutte le virtù siano da una parte, quella dei vincitori, e tutti i difetti dall’altra.
    E, a sua difesa, ammesso che ce ne sia bisogno, va detto che l’autore si pone sempre con atteggiamento di analisi attenta e distaccata, e dedica a questo aspetto storico importante ben quattro romanzi: ”L’alfiere” che copre gli ultimi mesi del Regno delle Due Sicilie; “Soldati del re che riguarda il 1848 a Napoli; “L’eredità della priora” che ha per oggetto il brigantaggio; “L’inghippo” che sfiora di riflesso la tematica perché pone in evidenza la divisione fra italiani che si perpetua ancora negli anni Novanta.
    Certamente c’è nell’autore molta simpatia per il regno borbonico anche per il legame di affetto e di stima per il nonno ufficiale borbonico, fedele al re di Napoli Francesco II, per l’ammirazione per lo stesso e per i racconti, carichi di forti suggestioni e le storie che nel suo ambiente familiare dovevano circolare. Questo, forse, può aver condizionato la sua scelta di parteggiare per i Borboni, per i vinti, ma da sola non basta perché risulterebbe troppo sbrigativa e del resto sono in molti a non condividerla.
    Fausto Gianfranceschi, nella prefazione al volume “L’alfiere” sostiene, e con convinzione, esattamente il contrario:

    “Bisogna subito eludere un possibile equivoco: Alianello non ha mai voluto identificarsi con il legittimismo borbonico. In lui prevalgono soltanto il risentimento morale per l’oblio di virtù e di momenti eroici, che pure furono vissuti da italiani, e l’aspirazione ideale e poetica che lo convince a pesare il valore degli uomini indipendentemente dalle loro ‘scelte storiche’, contro ogni discriminazione. Qualcosa di simile sentì Lincoln all’indomani della guerra tra nordisti e sudisti, inducendolo a promuovere la riconciliazione”.

    Certo è che il romanzo che ancora oggi appare controcorrente quando usci per la prima volta nel 1943, cioè in pieno fascismo, dovette porsi immediatamente come anticonformista se si considera che il regime aveva sposato in piena la causa risorgimentale che indicava nei piemontesi e nei garibaldini gli eroi e vedeva nel sud, briganti, delinquenti, ignoranti e vigliacchi.
    Protagonista è l’alfiere Pino Lancia che dalla Sicilia a Gaeta combatte gli invasori. Egli combatte sin dall’inizio, con spirito di avventura e con convinzione, contro i garibaldini ed è certo della vittoria perché le truppe di cui dispongono i borbonici sono di gran lunga superiori a quelle degli avversari.
    Dopo la prima vittoria egli può sposare una fanciulla romantica e bella e intanto prosegue la sua carriera e tutto sembra dover andare per il meglio anche se negli scontri i borbonici sistematicamente subiscono gravi perdite e vengono battuti dagli avversari. Egli sente che non è giusto che le cose vadano così ed avverte che forse la colpa non è delle truppe che si battono con valore ma piuttosto dei capi che non solo all’altezza del loro compito.
    Ed è così che gradualmente e fatalmente Pino Lancia cade in una sorta di solitudine che lo tormenta anche perché la fidanzata lo abbandona nell’assurda convinzione che un vero eroe romantico deve battersi per l’unità d’Italia; di conseguenza, non sopporta l’idea che egli sia solo un ufficiale legittimista.
    Le sorti delle battaglie sono poi favorevoli quasi sempre ai garibaldini e ciò determina nel protagonista un ulteriore senso di frustrazione.
    Arriva inevitabilmente l’ultimo scontro e Pino è consapevole del fatto che la storia gli darà torto perché molta gente della sua parte ha tradito e chi non è passato apertamente con il nemico, spesso ha dimostrato debolezza, incapacità, passività, e ciò lo angustia.
    Un nuova amore dolcissimo lo potrebbe davvero consolare e una ferita da guerra consiglierebbero al giovane di rientrare a Napoli. Egli è sinceramente tentato e raggiunge la città ma, quando la resa finale si fa vicina, preso dal desiderio del dovere e dal giuramento di fedeltà, lascia la città e si porta a Gaeta dove incontrerà la morte non prima di aver di aver lanciato una parola di affetto finanche verso i piemontesi e verso lo stesso Garibaldi.
    Il romanzo presenta una scrittura sostenuta, anche se lineare e chiara, attraverso un periodare dall’andamento morbido e, per certi versi, addolcito. Non mancano elementi dialettali che vengono presentati per bocca dei personaggi più umili e vi sono ricche e dotte descrizioni condotte con gusto e linearità come si può notare sin dalle prime pagine:

    “Il caldo era atroce e pioveva giù dal cielo bianco, abbacinato, saliva su dalla sassaie roventi; d’afa, d’ansito, di lezzo, di fumo era impastata l’aria che pesava fra le due schiere.
    Erano a trenta passi e pareva si soffiassero, bocca a bocca, ventate d’odio bollente.
    L’alfiere se lo sentiva sulle gote, sul collo, quell’ansito, quell’affanno, quell’odio corporeo senza parole, quel balbettio rauco di maledizioni scagliate da una parte all’atra del ripiano, col tanfo del cuoio impregnato di sudore, della lana bruciacchiata, dell’arsura.
    E ogni tanto qualcuno cadeva, vicino, lontano, con uno sbatter di ferraglie. Il suono ribolliva nel suo cervello, liquido, senza rapprendersi, ché troppo ce ne voleva entrare. Il fragore, ora che avevan cominciato a sparare i due cannoni dalla cima del poggio era immenso. Pure nei radi momenti di tregua si udivano strepitare pe’ campi attorno le cicale”

    L’autore sa raccontare riportando alla luce anche particolari e minuzie soprattutto quando si riferisce alle divise così come sa indicare elementi specifici del regolamento militare che hanno lo scopo di spingere il lettore a proiettarsi indietro nel tempo e a ricreare situazioni.
    La ricerca storica è sempre in primo piano e suggerisce, dettando, pagine di realismo condotte sempre con modulazione ordinata e convincente e anche i personaggi si caricano di elementi connotativi che li pongono al di sopra e al di fuori da riferimenti limitati e chiusi.
    I fatti non si svolgono quasi mai in maniera lineare perché coinvolgono sempre i sentimenti e quindi evidenziano dubbi, profonde crisi di coscienze, contrasti forti, posizioni anche di comodo e conseguentemente forme di compromessi che danno al romanzo consistenza e problematicità e lo rendono per questo anche più interessante come sottolinea Dino Satriano che scrive:

    “Probabilmente, il carattere migliore del romanzo sta proprio nelle profonde contraddizioni in cui si trovano ad agire molti personaggi, a cominciare dallo stesso protagonista, l’alfiere Pino Lancia, che nell’animo è un liberale, ma una volta diventato ‘soldato del re’, il suo re borbonico, per scelta paterna impossibile da discutere, sente l’obbligo morale di restare al suo servizio fino alla fine.
    Ci sono contrasti intimi, e altri ne creano le circostanze: padre Carmelo, che regge il filo religioso della storia (cui Alianello dà molto rilievo) ed è un frate siciliano del convento di Calatafimi, medita di mettersi al seguito di Garibaldi, ma si ritrova dopo varie peripezie sul continente e arruolato nei pressi di Latina come cappellano borbonico del reparto dei peggiori, cioè volontari ex galeotti, ex sbirri,sbandati e derelitti di ogni risma”.

    Altre scelte saranno dettate da convenienze politiche come testimonia Tore Lo Russo che in Sicilia era agli ordini di Pino Lancia e combatte contro i garibaldini e poi diserta, quando il ministro degli interni scioglie l’apparato poliziesco, perché continuamente assaltato e messo in estrema difficoltà, e al suo posto offre il comando alla camorra.
    In tal modo anche Lo Russo, che una volta era nel giro della malavita, diventa commissario come altri capi camorristi e dirige tranquillamente il rione di Montecalvario.
    Ma accanto a situazioni fortemente contrastanti o furbescamente scelte per il proprio tornaconto, non mancano atti di eroismo autentici, e soprattutto il senso del rispetto per gli altri e l’attaccamento al proprio dovere e difesa ad oltranza come testimonia la chiusa del libro con la solitudine pensierosa di pino e con le parole di Franco:

    “Solo era e solo sarebbe rimasto sempre… E il padre Carmelo non veniva!
    Con quell’universo che gli dissolveva attorno anche le sue amicizie, i suoi affetti, se ne andavano, ché via glieli portava la separazione, la morte, l’ignoto.
    Invocò Titina dal fondo dell’animo, ma neppure lei gli rispose, fantasma labile, dissolto in ricordo verso il cumulo di tanta angoscia. Era solo.
    E allora ricordò le parole di fra Carmelo:’…ognuno ha dentro di sé Cristo e il proprio dovere e col Cristo dovrà vincere, e solo con Lui, il peccato del mondo.
    Cos’era finito? Un governo, un regno, un’idea…Ma non il male del mondo, né la sua anima.
    Balzò in piedi e s’appoggiò alla feritoia respirando forte. Dentro la casamatta era già tenebra fitta, ma fuori il giorno non era ancora tutto spento. E Cristo c’è. La sua anima gli restava e Dio e la sua lotta.
    Con un guizzo il sole sprofondò nel mare e quell’aureola dorata stretta in un fascio di luce, salì sull’orizzonte e si diffuse sperdendosi nel cielo già pallido.
    Nella sua branda Franco si scosse, si rigirò, annaspò un poco respirando forte e ripeté ancora:’Io non ho capitolato”.

    Altro romanzo, ugualmente molto importante è: “L’eredità della priora”. Esce nel 1963 in un momento storico particolare per l’Italia, divisa fortemente tra un nord ricco e ancora sotto gli effetti del miracolo economico ed il mito della realizzazione di una società opulenta o almeno capace di consentire la conquista delle tre M (mestiere, moglie, macchina) e un sud sempre più abbandonato a se stesso e costretto dalle necessità più urgenti a ricorrere all’emigrazione di massa, all’abbandono delle campagne e allo spopolamento dei paesi.
    La corsa affannosa verso il triangolo industriale e la mitizzazione di un benessere che al nord sembrava inarrestabile grazie alle fabbriche che promettevano un lavoro assai più leggero di quello dei campi, per certi versi riproponeva temi e questioni legati alla differenziazione e alla separazione netta del Paese e consentiva all’autore, in qualche modo, di risperimentare la storia dell’Ottocento e di rivivere, col romanzo in questione, i primi due anni dell’unità d’Italia con le contraddizioni e gli scontri, ma anche con una visione di partecipazione umana e religiosa e con una sorta di filo conduttore che tende al superamento delle difficoltà e delle barriere e ad una visione di vera e propria comunione.

    Non c’è più in Alianello spirito polemico, rabbiosa voglia di far emergere le ragioni del sud e di confermare la prepotenza dello stato piemontese nella guerra di conquista e non di liberazione, non c’è più il tono che è presente, per esempio nel lavoro “La conquista del sud” che evidenzia, anche troppo chiaramente il suo attacco al Nord, non c’è nulla di tutto questo, ma il tono tende a farsi placato se non tranquillo.
    Il clima è totalmente diverso come le atmosfere che si vengono a creare. Lo scrittore fa filtrare i suoi sentimenti e sa tener conto della sua storia individuale.
    Non va dimenticato che, se il nonno era stato ufficiale borbonico che aveva rifiutato di giurare fedeltà a Vittorio Emanuele II, per la qual cosa si era ridotto, praticamente, in miseria, il padre era un ufficiale del nuovo stato, del regno d’Italia ed egli stesso non era riuscito a coronare il suo sogno, che era quello di indossare la divisa, a causa di una forte miopia che lo aveva visto escluso da un mondo che in qualche modo sentiva suo.
    Ma non va nemmeno dimenticato che egli era scrittore cattolico tradizionale, ossia intimamente religioso e fornito di fede sicura, e libero da schematismi ideologici.
    E mi pare abbia ragione Fausto Gianfranceschi quando scrive:

    “Per un cattolico che si rivolge al mondo,vale innanzitutto l’esistenza individuale, qui e subito,per come la si accetta e la si vive. Pertanto, nell’atto di scrivere, Alianello definisce i ruoli guardando a come ognuno li impersona, vedendo ovunque, senza preconcetti, sia la virtù, sia la corruzione. Il principio di selezione etica trascende il calcolo del successo storico: gli uomini debbono svolgere il ruolo assegnato ad essi dal destino, anche se è contro la Storia, perché giudice è Dio e non la Storia”.

    E a Gianfranceschi sembra far eco Giovanni Caserta quando scrive:

    “Proprio questa amorosa comprensione per vinti e vincitori, e questa capacità di sentirli ugualmente uomini, cioè grumo di sogni e aspirazioni, è quel che segna la rievocazione degli eventi che si svilupparono nell’Italia meridionale, e in gran parte della terra di Basilicata, tra la primavera del 1861 e la primavera del 1962. Il romanzo, movendosi tra l’epico e l’elegiaco, segna il trionfo della migliore poesia cattolica, che raccoglie i suoi frutti più interessanti, quando sa collocarsi da un punto di vista superiore, affettuoso e comprensivo, risolvendo tutte le divisioni e le rivalità”.

    Il senso della pietà presente dovunque e tocca in alcuni punti momenti significativi come in occasione della morte di Maria Palumba, la vedova contadina che si sacrifica per Ugo Navarra, l’intellettuale che impara dalla contadina il valore della fede e il significato della religione fino al punto che mentre i carabinieri sparano su di lui, egli recita ad alta voce l’Ave Maria:

    “Subito gli ritornò addosso Dio. E’ naturale che chi è stato per tanti anni buon cristiano si rivolga nel pericolo a Dio. Presto! Presto, Gesù! Perché forse non ha più tempo davanti a sé… Bisogna riconciliarsi con Dio, ché gli permetta di portare con sé un’altra Maria Palumba, quella vera, quella pietosa, amata d’amore…
    S’inginocchiò per sé e per Maria Palumba che ancora ha bisogno,bisogno di vita, dove sta, e lui gliene può dare un poco nell’animo suo, solo sela rivede ancora una volta dentro la mente, com’era quando si chinava su di lui e gli porgeva da bere e gli posava le mani fresche sulla fronte. Solo pregando spera che quella donna peccatrice sia viva ancora, fuori dai desideri della carne… Allora si levò in piedi e giunse le mani; la preghiera gli venne naturale, come una polla di sorgente. Pregò a voce alta:’Ave o Maria, piena di grazia, il Signore è conte.Benedetta fra le donne…’
    Sentì ruzzolare un sasso proprio dietro di sé e un virgulto spezzarsi:’e benedetto il frutto del tuo ventre, Gesù…’
    Subito gli arrivò lo scatto di un moschetto che s’armava. Non volle voltarsi; ormai per lui non c’era più scampo e però alzò ancora la voce:’Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori…’
    Gli spararono in tre o quattro insieme, ed erano carabinieri”.

    I personaggi, quasi senza distinzione alcuna, pur nelle peculiarità di ciascuno, sono calati nel dato reale ma al tempo stesso sembrano fuori dal tempo, per il loro essere sognatori e romantici e per l’inevitabile e prevedibile sconfitta.
    In un modo o nell’altro i sogni di tutti crollano e questo vale per il barone Andrea Guarna, per l’intellettuale Ugo Navarra, per la contadina Maria Palumba e finanche per la serva di una casa di nobili. Il crollo dei sogni e delle ideologie sembra l’elemento dominante e comune a tutti e indipendentemente dalle aspettative di ciascuno.
    Va detto poi che quasi tutti i personaggi provengono dalla Basilicata, terra che assurge a livello di purezza e di incontaminazione.
    Il romanzo si avvale di un linguaggio robusto e sostenuto capace di piegarsi, tuttavia, alle situazioni ed ai personaggi e quindi di riproporre in forma dialettale i dialoghi con resa piacevole oltre che credibile e con efficacia per la rapidità delle parti dialogative e conversative. Si tratta di un mescolamento,non confusionario ma voluto di forme dialettali nelle quali non mancano elementi di napoletanità, qualche termine piemontese e francese su una sorta di base meridionale e lucana:

    “Don Ciccio era prosaico; mentre diluviava, senza alzare il capo dal piatto, chiese:’E dopo che ci sta?’
    ‘Salsicce,’ annunziò il gobbo, con una nocetta di grillo trionfante.
    ‘E appresso?’
    ‘Caciocavallo,butirri, nocelle, mandorle…’
    ‘E niente chiù?? E allora… che mangiata e mangiata è chesta!’ protesto don Ciccio, amatore famoso della buona tavola. ‘Tu chiamalo spuntino, merendella! Nu saucicchio e bona sera!’
    Don Totonno mazza s’era fatto scuro. S’aderse in tutta la sua statura così che venne ad occupare con l’onere della pancia buona parte del tavolo, protestando: ‘Commendatò, vui pazziate? Avete assaggiate mai le salcicce mie? Ve ne siete mai reso conto? Quelle sono il biggiù delle salcicce! Lu saucicchio con la cerasela e l’oliva è la base di tutte cose…Ma che ci sta attorno! Si ve mangiate nu saucicchio r’o mio, vi tenete la pancia piena, comoda, riposata… Na panza signora…Ma mò stu miracolo l’avita veré cu l’uocchie vuoste…’”

    Come si può notare il linguaggio muta repentinamente e sale di tono e di qualità quando a parlare è lo scrittore che punta ad una sorta di sogno globale nel quale gli uomini possono eliminare rivalità e fazioni per porsi sul un piano di sostanziale rispetto ed uguaglianza.
    Altro libro importante è “Soldati del re”.
    Il quadro di fondo è ancora una volta costituito dai fatti straordinari della rivoluzione napoletana liberale del 1848.
    I protagonisti sono: una ballerina, un ufficiale dei lancieri, un’attrice drammatica, uno studente in legge e un povero cafone. Essi, curiosamente si ritrovano insieme a vivere nella confusione del momento, tra spari e scontri tra le opposte barricate, una sorta di piccola epopea. Si tratta di gente semplice e al di fuori dei circuiti della grande storia. Ciascuno a suo modo, per volontà dello scrittore è alfiere dei propri ideali e tutti, a modo loro sono con i re.
    Son tutti personaggi trattati con molta delicatezza dall’autore che nutre verso gli stessi un atteggiamento di indulgenza e di affetto e per tutti basterebbe considerarne uno, anche scelto a caso, che in qualche modo diventa emblematico della situazione e del clima nel quale è calato.
    Val la pena di ricordare la figura di Rocco Sminuzzo che compare nella terza parte del libro. E’un fuciliere ma ancora matricola e quindi deve imparare il regolamento che il caporale gli ripete in maniera monotona e quasi canzonandolo. E il fuciliere fa il suo dovere nel modo più semplice e più scrupoloso possibile. Incontra tre giovani e diventa oggetto del loro gratuito scherno. Egli sopporta pazientemente ma è anche deciso a far rispettare le regole e dopo averli messi in guardia ed ordinato loro di andare via ed aver tergiversato a lungo in mezzo ad una piccola folla di curiosi, messo alle strette è costretto suo malgrado a sparare, prima di stramazzare a terra egli stesso, colpito a sua volta:

    “Rocco non capì, ma intese che insultava la Vergine, la mamma sua grande. E allora irrigidì le spalle, gonfiò il petto. Tutto nella mente sua si discioglieva, tutto mutava; via il prevosto, via il caporale, via persino al ragazza dalla bocca rossa e lo studente.Ma uno sfavillare potente di luci, uno squillare di trombe. Una fiamma, e un trono; quasi la macchina dove al suo paese portano quella bella Vergine, il giorno della festa. E in cima ci sta Lei, mite e possente, in una cerchia di raggi d’oro e d’angeli. E poi tamburi, pifferi e stendardi. Sotto l’insulto l’anima reagiva inebriandosi.
    Comandò alto:’Scioglietevi o sparo!’.
    Dalla folla – già empivano la strada adesso, e le donne e i bambini erano spariti – esplose un turbine d’insulti:’Boia! Venduto! Camorrista!’ Lo studente si fece sotto, petto a petto:’Non li vuoi i tre ducati? Allora tiè! Tre ducati e mezzo sigaro!’ e gli gettò in faccia quel mozzone che aveva tenuto sino allora in bocca lui, maciullandolo fra i denti.
    Rocco Sminuzzo chiuse gli occhi un istante, ma neppure torse il viso. Invece con quanto fiato aveva in corpo gridò:’Alla guardia!’. E fu un grido potente e sicuro. Poi fece un passo indietro e sparò.
    Mentre lo studente cadeva girando su se stesso, s’udì un altro colpo, poi un altro ancora. E anche il fuciliere cascò. Dalla tunica aperta sul petto gli usciva lo scapolare della Madonna del Carmine e un po’ di sangue lo teneva incollato su quella P, quasi un braccio di traverso, come una croce. Intanto accorrevano i soldati della guardia vociando”.

    L’episodio si chiude così, con la stessa naturalezza con la quale ha preso avvio e l’autore non interviene assolutamente né per esprimere giudizi, né per tentare una qualche forma di giustificazione. Lascia che sia il lettore a farsi una sua convinzione personale tanto relativamente al singolo episodio quanto a tutta la storia che alla fine vede lo scontro tra persone al di la dei segni dell’appartenenza.

    Storia completamente diversa è il romanzo “Nascita di Eva”. Dello stesso si può leggere in seconda di copertina:

    “La Bibbia prima e la pittura poi ci hanno consegnato l’immagine di un a Eva-simbolo, di un personaggio che pronunzia le poche parole e compie soltanto i gesti in virtù dei quali diverrà uno dei cardini della storia dell’uomo. Una protagonista di eventi unici, lontana tuttavia da nostro sentire, affidato com’è sempre e soltanto al mistero della sete di conoscenza, alla ‘caduta’, al primo peccato. Ecco adesso che questa figura simbolica si muove, prende vita sotto i nostri occhi, diventa una creatura di sangue e di carne: una donna audace e timida, crudele e amorosa, intelligente, avida di vita e folgorata dal dramma del vivere.
    L’Eva delle prime pagine del romanzo è appena uscita dall’Eden: è adulta d’ingegno e di corpo, ma finora non ha conosciuto che l’assoluto, il Bene o il Peccato. Soffrirà dolori fisici e patimenti morali, vivrà il peccato di saziare nuovi appetiti e affronterà le tremende privazioni, la sua mente sarà travagliata dai dubbi”.

    Il romanzo risulta scritto in forma decisamente chiara ed è godibile perché immediatamente genera nel lettore il senso della curiosità, proiettandolo in un tempo lontanissimo e non ben definibile e conducendolo gradualmente alla scoperta che la nostra progenitrice sarà costretta a fare.
    Fin dall’inizio sulla donna e sul suo uomo incombe il senso della punizione divina ma non come terribile conseguenza.
    Il libro si apre con il girovagare apparentemente senza senso e senza meta dei due che scoprono i fenomeni della natura nella loro potenza e prepotenza ma anche negli aspetti più belli; accade di tutto o quasi e, con grande meraviglia Eva scopre sensazioni nuove, non tutte piacevoli, anzi. Ma quello che la sorprende e un po’ la sgomenta e la sua capacità di sperimentare su se stessa e nel suo animo impressioni che risultando solo sue e che non corrispondono sempre a quelle di Adamo.
    Esce fuori così il senso della originale incomunicabilità che caratterizza l’identità dell’uomo. E si può cogliere l’emozione di Eva:

    “Da un pezzo lui pensava alle bestie, da quando s’erano sciolti dal bene e s’erano messi a camminare.
    Eva s’azzittì, ma subito quel po’ di bosco le parve pieno d’artigli e di denti, di tonfi, di scricchiolii, di ansiti; lo svolazzare di un pipistrello che rientrava al suo buco le strappò un grido acuto che spaventò la bestia; quelle ali frangiate che si staccavano nette contro la chiarità d’una luna incerta, s’agitarono frenetiche e si persero d’improvviso nel buio… Lei non voleva sapere quello che avevano fatto, ché anzi la sua mente negava a se medesima di saperlo. E’ accaduta una cosa che è come uno strappo nel tempo, un buco nero dove non c’è nulla e nulla ci deve essere. Perché il suo uomo voleva ricordarla? Allora nel pensiero quel senso di desolazione vaga si raggrumò e le parole una appresso all’altra le si condensarono in fila: dunque lei e lui non pensano le cose nel medesimo modo, dunque c’è una scissione nella mente. Rabbrividì: intanto le nuvole avevano ricoperto ancora quel barlume di luna”

    Ma Carlo Alianello è anche autore di altri lavori tra i quali dobbiamo sicuramente ricordare il romanzo “Maria e i suoi fratelli” del 1955, “Il mago deluso” del 1947 e ancorale due commedie dal titolo “Teatro codino” del 1965. Pure valido risulta il racconto per ragazzi “Il galletto rosso” e certamente non all’altezza dei migliori lavori è “L’inghippo” che pure ricevette il premio “Lo Specchio”.
    Capace di aprirsi ad altre esperienze culturali e letterarie, Carlo Alianello si impone per il suo modo di narrare estremamente ordinato, nel solco della buona tradizione e diventa un punto di riferimento per quanto vogliono interrogare la storia in controluce e cioè contro gli automatismi e il riferimento scontato che vede sempre la condanna dei perdenti e forse, in questa prospettiva andrebbe ancora riletto e rimeditato per una valorizzazione piena della sua opera.

  8. #18
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    Carlo Alianello: La Conquista del Sud
    Il Risorgimento nell'Italia meridionale



    Presentazione della Biblioteca Il Giglio


    il libro che ogni Meridionale dovrebbe leggere, regalare agli amici, consigliare ai colleghi.

    La sua prima edizione, nel 1972, ebbe un effetto dirompente: la storia del Risorgimento che si insegnava a scuola era tutta da riscrivere! Se non fu il primo a ricostruire la verità, Carlo Alianello, giornalista, storico e scrittore di origini lucane, ebbe il merito di essere il primo a farla arrivare al grande pubblico, portandola fuori da quei ristretti circoli culturali e accademici dove veniva a malapena sussurrata e subito occultata, ed ebbe il merito, ancora maggiore, di averla raccontata così com'era, senza il filtro delle ideologie tanto in voga presso gli intellettuali dell epoca.

    Col suo stile semplice e diretto, romanzando la storia nel senso di renderla viva attraverso i suoi personaggi, Alianello scrisse che l'unificazione d'Italia fu una guerra di conquista; i"padri della patria" erano dei massoni interessati all'oro più che agli ideali; il brigantaggio non fu lotta di classe per il possesso delle terre, ma guerra di difesa contro l'invasore, in nome di Dio e del re Borbone. Ne La conquista dei Sud narrò le luci e le ombre di quel 1860 come avrebbe fatto un testimone oculare, con lo stesso coinvolgimento, gli stessi sentimenti, lo stesso malinconico orgoglio: «Quando s’intese che la truppa piemontese era entrata nel regno, invece d'accomodarsi alla circostanza, i popolani gridarono "Viva Francesco II , posero la borbonica coccarda rossa sul cappello e si armarono di armi rurali per tener testa ai piemontesi.

    E questo perché? Per una ragione semplicissima: da noi il popolo minuto aveva sempre considerato i piemontesi non come italiani ma come straniera non gente della nostra terra, ma invasori, saraceni, turchi, austriaci o francesi che fossero. Solo i signori erano italiani, ma per gli interessi loro. Un esercito d'occupazione, insomma, con le sue crudeltà, i suoi saccheggi, le case distrutte, le donne violentate a forza». La lettura di questo libro (giunto alla terza edizione e ormai introvabile in libreria per la chiusura della Casa editrice) ha consentito a migliaia di Meridionali di riscoprire fatti ed avvenimenti accaduti nei propri paesi, i cui protagonisti erano stati i propri antenati, ma dei quali non era rimasta traccia, dei quali loro stessi non avevano memoria. E appunto la memoria era stata cancellata, da oltre un secolo, perché non contrastasse con la vulgata ufficiale che parlava di camicie rosse e di tricolori, di eroi, di liberatori e di oppressi avviliti, di progresso e di miseria.

    La conquista del Sud ha riportato alla luce quei fatti, per spiegare come e perché il Meridione era divenuto una "questione" e su chi ricadeva realmente la responsabilità di quelle che venivano imputate come sue "colpe": la povertà, l'immobilismo, la delinquenza mafiosa, la disaffezione allo Stato. Per molti, le sue pagine hanno segnato l'inizio del cammino di recupero della propria identità culturale, di ricerca delle radia, di ricostruzione della memoria storica; hanno chiarito il significato profondo dell'appartenenza ad un popolo, ad una Nazione, al di là e nonostante i mutamenti imposti dal tempo. Un libro veramente indispensabile, per conoscere e riconoscersi.

    --------------------------------------------------------------------------------

    Recensione trasmessaci dal sig. Ciro La Rosa


    Per chi vuole addentrarsi a studiare, capire e riappropriarsi della propria storia regionale ed in special modo quella del periodo borbonico del Regno delle Due Sicilie, dell’occupazione piemontese del Sud dell’Italia non può farsi mancare il testo fondamentale che ha dato inizio, silenziosamente, alla revisione del “Risorgimento”: il saggio storico di Carlo Alianello “La Conquista del Sud – Il Risorgimento nell’Italia Meridionale”.

    Nel libro pubblicato nel 1972, a cui sono seguite altre ristampe nell’82 e sul finire degli anni ’90, egli spiega apertamente, con un linguaggio semplice, della conquista militare piemontese che portò al peggioramento delle condizioni sociali ed economiche delle popolazioni del Meridione .

    Alianello ristabilisce la verità storica, che ancora per molti suscita incredulità, sulla colonizzazione e distruzione della memoria collettiva, presenta documenti inediti sul retroscena dell’invasione piemontese, i tradimenti orditi dagli stessi “Napoletani” venduti allo straniero, sulla buona e cattiva amministrazione dei Borbone, i crimini e gli errori connessi con l’unità d’Italia che portarono allo stremo, in pochi anni, l’amministrazione e l’economia dell’ex Regno delle Due Sicilie.

    Gli ultimi capitoli sono dedicati al movimento di resistenza ai piemontesi “Il Brigantaggio” che fu una lotta contro l’invasore, che presentatosi con le vesti di liberatore - liberarci da che cosa ? – fu un oppressore ed un aguzzino.

    Significativo è il capitolo “Giustizia è fatta” nel quale egli testualmente scrive “Finiamola di definirci i buoni d’Europa; e nessuno dei nostri fratelli del nord venga a lamentarsi delle stragi naziste. Le SS del 1860 e degli anni successivi si chiamarono , almeno per gli abitanti dell’ex reame, Piemontesi”.

    Mentre è emblematico e carico di significati storici il capitolo “Al chiaro di Luna” nel quale come in un sogno, trovandosi a Messina nei pressi dei ruderi della ex cittadella militare borbonica, egli incontra il fantasma di un soldato borbonico con il quale avvia una discussione sui tempi andati.

    Carlo Alianello (Roma 1901 – 1981) era figlio di genitori lucani, il padre ufficiale dell’esercito italiano a sua volta figlio di un ufficiale dell’esercito Borbonico che non avendo giurato fedeltà alla nuova Italia si ridusse a vivere in miseria. Professore di liceo, collaborò come pubblicista a varie testate giornalistiche tra le quali : il “Corriere della Sera”, “Il Giornale d’Italia”, “il Messaggero”. Il suo primo romanzo fu “L’Alfiere” pubblicato nel 1943, nel quale egli rovescia l’interpretazione tradizionale della spedizione dei Mille e dell’unità d’Italia, schierandosi con i vinti e contro la retorica risorgimentale e per tali sue affermazioni venne accusato di disfattismo e condannato al confino dal regime fascista. Ben pochi sanno che il romanzo “L’Alfiere” fu il primo sceneggiato della storia della televisione italiana andato in onda nel 1958 sull’allora unico “canale nazionale” della RAI per la regia di Anton Giulio Majano.

    Seguirono altri romanzi tra cui “Il Mago deluso” premio Bagutta nel 1947, “Soldati del Re” premio Valdagno 1952, “L’Eredità della Priora” premio Campiello nel 1963 dal quale negli anni ’80 venne tratto uno sceneggiato televisivo a puntate anch’esso andato in onda sui canali della RAI.

    Intensa fu la sua attività di scrittore nel decennio dal 1963 – 73 durante il quale pubblicò vari romanzi e opere teatrali. Egli fu in fervente cattolico e da questo suo modo di essere si spiega il suo istintivo schierarsi con i vinti e quindi con le vittime, la sua polemica antiliberale e antiunitaria sono implicitamente conseguenti al suo modo di interpretare da credente la vita.

    Ciro La Rosa


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    http://www.ilportaledelsud.org/conquistasud.htm

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    http://www.youtube.com/watch?v=cGjd3yY6WZc

    L'eredità della Priora (Sceneggato TV)

  10. #20
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    L'eredità della Priora
    Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.



    Nazione: Italia
    Anno: 1980
    Formato: miniserie TV
    Genere: storico/ drammatico
    Puntate/episodi: 7
    Lingua originale: italiano
    Colore: colore
    Regia: Anton Giulio Majano

    Interpreti e personaggi

    Alida Valli: La priora
    Giancarlo Prete:
    Luigi La Monica:
    Evelina Nazzari:
    Corrado Gaipa:
    Carlo Giuffré: don Matteo
    Ida Di Benedetto:
    Mario Piave:
    Giuseppe Anatrelli



    L'eredità della priora è uno sceneggiato televisivo in sette puntate di Anton Giulio Majano andato in onda su Rai Uno nel 1980, basato sull'omonimo romanzo di Carlo Alianello. È ambientato durante il periodo del brigantaggio, a seguito della conquista del regno delle Due Sicilie da parte dell'esercito piemontese dei Savoia.

    Tra gli interpreti principali vi sono Alida Valli, Giancarlo Prete, Luigi La Monica, Evelina Nazzari, Corrado Gaipa, Carlo Giuffré, Ida Di Benedetto, Mario Piave, Giuseppe Anatrelli.

    Trama

    La vicenda è incentrata su tre ufficiali borbonici: Gerardo Satriano, Andrea Guarna e Ugo Navarra, che, per diversi motivi, a seguito della caduta del Regno, si recano in Lucania per partecipare alle insurrezioni contro gli occupanti piemontesi insieme truppe di briganti, capeggiate da Carmine Crocco, che si stavano creando in Basilicata.

    La complessa trama si intreccia con la vicenda dell'eredità della priora, la duchessa Guarna (Alida Valli), il cui fratello, don Matteo (Aldo Giuffrè), diseredato sotto il Regno delle due Sicilie perché liberale e massone, diventerà sempre più deluso dal modo in cui verrà realizzata l'unità d'Italia, fino a fare il doppio gioco, da una parte per i liberali filo-Sabaudi, dall'altra per i borbonici, così come molti altri personaggi che acquisteranno potere politico durante il processo di unificazione.

    Tra i personaggi significativi vi è Iuzzella, serva contadina, costretta a cedere il suo corpo agli ospiti del padrone, che si innamora di Gerardo Satriano, e scappa con lui, divenendo testimone suo malgrado delle trame dei borbonici. Quando i doppiogiochisti capiranno che è troppo tardi per continuare a sostenere la rivolta, la sua presenza diventerà troppo scomoda, e finirà uccisa in uno scontro a fuoco con i briganti.

    Tutti e tre gli ufficiali falliranno nella loro missione. Ugo Navarra verrà ucciso mentre si nasconde in montagna con la sua donna, come un semplice brigante; il barone Andrea Guarna, tornerà a Roma scappando con la sua promessa sposa, la cugina Isabellina. Dopo aver attraversato la frontiera, però, ha un ripensamento e decide di tornare a combattere. Infine, Gerardo Satriano, reo di aver ucciso un carabiniere, fuggirà in America e si arruolerà nell’esercito nordista per combattere la guerra di secessione come mercenario.

    La lotta al brigantaggio

    Lo sceneggiato condanna il modo in cui è stato realizzato processo di unificazione italiana, che ha avuto tutte le caratteristiche di una guerra civile, mascherata da repressione al brigantaggio, con atrocità e barbarie perpetrate da entrambe le parti. Tra gli episodi che vengono riportati, vi è l'esposizione dei cadaveri dei briganti per macabre rappresentazioni fotografiche, fenomeno effettivamente diffuso all'epoca, come rappresentato in diverse testimonianze fotografiche. Viene anche mostrata l'esposizione di cadaveri o di teste mozzate di presunti briganti.

    Nella parte finale dello sceneggiato, Iuzzella assiste alla fucilazione di un giovane contadino, reo, in nome delle leggi speciali vigenti, di essere in possesso di un paio di scarpe dell'esercito piemontese.


    Musiche

    Le musiche dello sceneggiato sono state scritte dal gruppo Musicanova, di cui facevano parte Eugenio Bennato e Carlo D'Angiò, e pubblicate nell'LP Brigante se more. Tra le canzoni più celebri, le sigle di testa e di coda, rispettivamente Brigante se more e Vulesse addeventare, ma anche i temi Canzone per Iuzzella ed il Tema di Isabellina, associati alle due protagoniste femminili.

    Lo stesso Eugenio Bennato appare nello sceneggiato in veste di comparsa, suonando la tammorra durante una festa per la conquista di un paese da parte dei briganti.


    Bibliografia

    Carlo Alianello, L' eredità della priora, Milano, Feltrinelli, 1963. riediz. Venosa del 1993. ISBN 88-8167-016-X


    http://it.wikipedia.org/wiki/L'eredit%C3%A0_della_priora

 

 
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