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Discussione: dossier Palestina

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    Predefinito dossier Palestina

    Hamas: «La tregua è finita» Ma Israele non chiude la porta

    http://www.radicali.it/view.php?id=133854
    • da Corriere della Sera del 15 dicembre 2008, pag. 15

    di Francesco Battistini

    Lo speaker: «Invito i fratelli a dare il via allo spettacolo!». Una voce invoca i razzi lanciati su Israele: «Guardate gli eroi dei Kassam!». Parte la musica, s’alzano i fumogeni, la spianata di Gaza è uno sventolio di bandiere verdi, bambini di verde vestiti. Il verde di Hamas. Portano sul palco un ragazzo pallido, con la divisa dell’esercito israeliano, e da lontano sembra quasi lui: Gilad Shalit, il soldato ostaggio da più di 900 giorni. E’ solo un attore, però. E lo speaker lo spiega: «Oggi vedremo un’opera, uno spettacolo di Hamas!». Il finto Shalit ha un finto padre che l’aspetta e si tormenta: «Come farò a liberarti?...». Il prigioniero fac-simile vien fatto inginocchiare come un agnello sacrificale. Le mani sul viso, gli tocca dire: «Shalom papà, shalom mamma! Vi prego, dite al premier Ehud Olmert che faccia qualcosa per me!...». La fiction è di qualche minuto, l’applauso poco convinto: chissà, forse qualcuno s’aspettava pure una finta esecuzione sulla pubblica piazza.

    Si celebrano i primi 21 anni di Hamas, a Gaza. E s’aspettano gli ultimi 26 giorni di Abu Mazen. Il movimento islamico porta duecentomila persone nelle strade della Striscia, cortei d’auto e slogan, l’ordine è di celebrare l’anniversario e mandare un messaggio. «I sei mesi di tregua sono finiti», annuncia Khaled Meshaal dalla Siria: da venerdì prossimo, si torna al terrore. «Una vera tregua non c’è mai stata», è più possibilista Ismail Haniyeh, sul palco di Gaza: il leader non dice che ci sarà un nuovo accordo con Israele, ma nemmeno lo esclude. Elenca i venti palestinesi uccisi alla frontiera l’ultimo mese, sorvolando sui Kassam che bersagliano Sderot, invoca l’unità di Gaza e Cisgiordania («i palestinesi non devono dividersi»), ironizza su Abu Mazen «presidente della Palestina» e gl’intima lo sfratto: «Lo dice la Costituzione, il 9 gennaio scade il suo mandato e se ne deve andare».

    Hamas vuole che per due mesi lo rimpiazzi Abdel Aziz Dweik, portavoce del Parlamento palestinese che peraltro sta in carcere. Quindi, le elezioni: e sia «il popolo a decidere che Hamas deve comandare ovunque».

    E il povero Shalit? Rapito il 25 giugno 2006 con un’incursione oltre il confine di Gaza, il soldato sarebbe nascosto da qualche parte nella Striscia. Nessuno ha mai potuto visitarlo, qualche giorno fa è stata respinta anche la Croce Rossa. Lo scambio proposto è sempre lo stesso: mille palestinesi fuori dalle prigioni, «e in 24 ore ve lo ridiamo». L’elenco però comprende terroristi, e su questo non si trova un accordo. Il tema è ormai l’inizio della campagna elettorale, coi leader in difficoltà che cercano di recuperare un po’ di consenso: Ehud Barak, ministro della Difesa, dice che «non passa giorno senza che io non pensi a come portare a casa Shalit»; Tzipi Livni, ministro degli Esteri, che «il prezzo richiesto potrebbe essere troppo alto» e in fondo «un soldato è un soldato». Il negoziato continua. Per ora, ci si deve accontentare d’una controfigura.

  2. #2
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    Hamas


    • da La Stampa del 5 gennaio 2009, pag. 5

    di Giuseppe Zaccaria

    Prima zeloti, poi terroristi e dopo l'attacco di queste ore magari anche forza di guerriglia, almeno agli occhi dei palestinesi. La sanguinosa parabola dei militanti di Hamas, finora è stata questa, storia di un movimento sunnita che come nella migliore tradizione araba mostra un volto duplice, equivoco, e proprio per questo particolarmente esasperato in ogni sua espressione. In Hamas (nato proprio a Gaza ventidue anni fa con l'incoraggiamento di alcuni servizi di informazione occidentali a opera di Ahmed Yassin, Abdel al-Rantissi e Mohamad Taha) l'ala militare è stata sempre pronta a sovrastare la rappresentanza politica, le rare aperture negoziali puntualmente sono riaffondate nella palude dell'isolamento, gli accordi sono crollati producendo stragi e attentati.

    Anzi si può dire che per il movimento che dalla Striscia spara missili su Israele il classico torbido avvitamento mediorientale si sia riprodotto in forme più accelerate ed esasperate che mai. Israele risponde agli attacchi distruggendo e isolando, fra le macerie aumentano i bisogni dei sopravvissuti, l'estremismo islamico fronteggia questi bisogni e dunque acquista nuovi consensi. Questa in estrema sintesi è la ragione per cui un gruppo che ha sempre suscitato forti diffidenze anche all'interno del mondo arabo, adesso a causa dell'azione militare di Israele sia sul punto di nobilitare il proprio profilo, ripulendolo da scorie ventennali. I manuali informano che Hamas in arabo significa appunto zelo, ma la sigla si può leggere anche come acronimo di «movimento di resistenza islamico». Un po' meno pubblicizzato è il fatto cui accennavamo prima, cioè che per gli arabi ammassati nel carnaio di Gaza in assenza di ogni altro aiuto questa sigla significa anche scuole, ospedali, istituti religiosi, assegni di sussistenza. Da questo punto di vista la vera crescita del movimento si è verificata negli ultimi due o tre anni.

    Quando nel 2006 Hamas vinse a sorpresa contro Fatah le elezioni palestinesi nel vicino Oriente la famosa spirale cominciò a prodursi in un altro dei suoi famosi avvitamenti: il mondo sospese ogni aiuto alla Striscia, i terroristi zeloti riuscirono comunque a procurarsi fondi con cui continuare l'assistenza alla popolazione proprio mentre fra i palestinesi si scatenava la guerra civile. Gli analisti affermano che grazie a finanziamenti dell'Iran, di famiglie saudite e di connazionali all'estero il movimento dispone di circa 70 milioni di dollari l'anno che in parte consentono l'acquisto di armi e missili ma per quasi il novanta per cento sarebbero destinati a salute e educazione, cioè al proselitismo.

    Questo contribuisce a spiegare come la popolarità di Hamas sia cresciuta in maniera esponenziale fra la gente dei territori mentre cala a picco quella di Mahmud Abbas (conosciuto anche come Abu Mazen), presidente di un'Autorità palestinese ritenuta troppo supina alle richieste di Israele. Nella carta costitutiva del movimento, il cosiddetto «Statuto», compaiono affermazioni agghiaccianti, quella fondamentale recita: «Non esiste soluzione alla questione palestinese se non nella “jihad”» e i paragrafi successivi specificano che «non un solo figlio di Israele può sfuggire alla “guerra santa", né i civili e neppure i bambini». Poco più sotto si può leggere: «La Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell'Islam fino al giorno del giudizio».

    Un'altro passaggio afferma: «Il Profeta dichiarò: l'ultimo giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei e li uccideranno e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l'albero diranno: O musulmano, c'è un ebreo nascosto dietro di me, vieni e uccidilo». Il popolo ebraico viene indicato come responsabile di tutti mali del mondo, della Rivoluzione francese, del colonialismo, delle due guerre mondiali. Hamas nega del tutto che sia esistito un Olocausto, afferma che le famose farneticazione dei «Protocolli dei savi di Sion» siano autentiche, e se la prende anche con massoneria, Lions Club e Rotary, che «lavorano nell'interesse del sionismo». Per nostra fortuna il movimento nato con i finanziamenti segreti dell'Ovest adesso limita le sue farneticazioni al territorio palestinese e non si occupa di guerre sante fuori dai suoi confini. In questi anni l'indecifrabile movimento non ha esitato di fronte a nulla: attentati su spiagge e autobus, bombe umane (anche numerose donne e alcuni bambini) che si sono fatte saltare nei supermercati mentre alle famiglie di ciascun «martire» andavano 5000 dollari di premio.

    Gli esperti calcolano che l'ala militare, denominata brigate Izz-al-Din al Qassam disponga di circa 15.000 combattenti anche se a questa cifra andrebbe aggiunto il sostegno di quasi tutta la popolazione della Striscia. Piuttosto, le tattiche usate negli ultimi tempi, il ricorso a gallerie sotterranee per i rifornimenti e l'occultamento dei missili nonché la perizia dimostrata dai militanti sul terreno paiono certificare che i guerriglieri hanno ricevuto un nuovo addestramento sull'esempio degli Hezbollah sciiti del Libano. In vent'anni, un movimento che fu registrato in Israele come costola dei Fratelli Musulmani e inizialmente il governo Begin tollerò, incoraggiò quasi in chiave anti-Fatah (allora a condurre i giochi era ancora Yasser Arafat), è cresciuto e si è «incistato» proprio in quei luoghi che sessant'anni di guerre hanno ridotto sempre più a sentine del mondo. Adesso le organizzazioni islamiche insorgono da tutti gli angoli del globo in difesa di Hamas, nell'intero Occidente si moltiplicano i cortei di protesta, da Beirut risuona perfino l'anatema di Hassan Nasrallah, e gli stragisti rischiano di tramutarsi in campioni dell'Islam.

  3. #3
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    Chi sono i veri responsabili


    • da Corriere della Sera del 5 gennaio 2009, pag. 1

    di Piero Ostellino

    Di fronte alle morti e alle distruzioni di Gaza, «l’obiettivo dell’abolizione della guerra - per dirla con le parole di Immanuel Kant - è un imperativo della ragione». Ma la ragione vuole anche che si sappiano distinguere chiaramente le responsabilità delle parti in conflitto.

    La pietà per i morti palestinesi fa dire a Adriano Sofri che «gli invasati, o i farabutti, non rendono un popolo correo del loro fanatismo: nemmeno quella metà del popolo che li ha votati in un’elezione» («Le vittime che servono per dire basta», la Repubblica di ieri). E la stessa conclusione cui erano pervenuti gli spiriti liberi da pregiudizi ideologici, e falsamente antropologici, a proposito dell’accusa di una «responsabilità collettiva» del popolo tedesco per il nazismo e per la seconda guerra mondiale. C’è, invece, come ha scritto Hannah Arendt sul processo Eichmann, una «banalità del male» che inchioda alle proprie responsabilità individuali l’ottuso fanatismo dei farabutti.

    Ma se i palestinesi di Gaza cadono, sì, sotto le bombe israeliane, la responsabilità prima di quelle morti e di quelle distruzioni - che ci fanno orrore, come la morte di ogni uomo per mano di un altro uomo - è di Hamas; così come quella delle morti e delle distruzioni delle città tedesche bombardate dagli alleati era di Hitler. Hamas, da un lato, condanna, ora, la reazione militare di Israele come il male, ma poi, dall’altro, sembra dimenticare di aver fornito una giustificazione politica, e persino religiosa, ai propri attacchi missilistici ai territori israeliani limitrofi che l’hanno provocata. Non lo dovrebbero dimenticare, anche e soprattutto, coloro i quali, in Occidente, bruciano le bandiere di Israele e inneggiano alla «guerra di liberazione» dell’integralismo antisemita islamico di Hamas.

    Se ai palestinesi che ancora attendono la nascita del proprio Stato - la risoluzione dell’Onu del 1947 di spartizione della Palestina lo prevedeva, con quella di Israele - fosse stato dato di conoscere davvero la natura delle decisioni, ieri dei governi arabi, oggi dei loro rappresentanti, saprebbero che il proprio vero interesse sta nella pace. E che la sola condizione per realizzarla, attraverso il diritto, compreso quello di Israele alla propria esistenza, sarebbe - come ha scritto Jeremy Bentham nel «Progetto di pace universale e perpetua» (1786-1789) - un governo democratico che li rappresentasse.

    La pace è la condizione necessaria per assicurare al popolo palestinese libertà e indipendenza. Le guerre - che, a partire dal giorno stesso della sua nascita, gli Stati arabi hanno fatto a Israele; e il terrorismo, che il fanatismo religioso gli ha scatenato contro dalla prima Intifada l’hanno impedita. Le guerre e il terrorismo - cioè la dichiarata e costante volontà di distruggere Israele e di sterminare gli ebrei - hanno trasformato due diritti «eguali», e parimenti legittimi, ad avere un proprio Stato, in due diritti «contrastanti».

  4. #4
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    Daniel Cohn-Bendit: le armi sono inutili, dobbiamo trovare il coraggio della pace


    • da Il Messaggero del 6 gennaio 2009, pag. 2

    di Walter Rauhe

    Figlio di una coppia di ebrei costretti a lasciare la Germania nel 1933 per scampare alle persecuzioni razziali naziste, Daniel Cohn-Bendit (63 anni) è oggi uno dei più fervidi difensori dei diritti umani e di un pacifismo non dogmatico che non esclude a priori l’uso della forza militare. In veste di co-presidente del gruppo Verde al Parlamento europeo oltre che di ex leader del Maggio parigino nel 1968 al quale deve il suo soprannome di "Dany le rouge" (Dany il rosso), Cohn-Bendit è uno degli esponenti di maggior spicco di una sinistra europea non schierata a favore di un’unica posizione, sia questa filo-palestinese o filo-israeliana.

    Signor Cohn-Bendit, crede ancora in una possibile soluzione del conflitto israelo-palestinese alla luce degli attuali fatti?
    «Una soluzione esiste oggi, come è sempre esistita negli anni e decenni passati. E questa soluzione può essere solo quella dei due stati. Uno stato israeliano e uno stato palestinese. Il problema però è come arrivare a questa situazione, alla coesistenza di due stati sovrani, democratici e che si rispettano reciprocamente. Questo obbiettivo può essere raggiunto solamente se sia Israele. sia la Palestina rinunciano a una parte del loro grande sogno».

    Il che significherebbe però rinunciare anche a buona parte dei propri territori.
    «Esatto. Rinunciare a parte del sogno e rinunciare a parte del territorio. Non possiamo ostinarci a ridurre la definizione di sionismo a linee di demarcazione che risalgono al 1947 o al 1963. E troppo poco. E anche i palestinesi devono comprendere che la loro idea di nazione non può solo definirsi con le linee di demarcazione, i confini, i territori».

    Il problema però è che queste linee di demarcazione vengono oggi violate con razzi e missili che dalla striscia di Gaza colpiscono insediamenti israeliani. E legittima la reazione d’Israele a questi attacchi?
    «La domanda che ci dobbiamo porre non è tanto quella sulla legittimità della reazione israeliana. Io sono l’ultimo politico che metterebbe in discussione la legittimità dello stato d’Israele. Domandiamoci piuttosto sul senso, sullo scopo degli attacchi israeliani nella striscia di Gaza. Ogni guerra deve avere uno scopo, un obiettivo. Lo scopo israeliano è quello di garantire sicurezza ai propri cittadini e di porre fine al lancio di razzi dalla striscia di Gaza. Con questa guerra, come con altri interventi analoghi avvenuti in passato, la sicurezza per il popolo israeliano non aumenta. Al contrario. E allora questa guerra è del tutto inutile, è una follia».

    E quali alternative propone lei?
    «Quello che fa Israele a Gaza è colonialismo, occupazione. Come fece un tempo la Francia in Algeria. Israele, che è un paese democratico, non può dettare la linea politica palestinese».

    Dovrebbe allora trattare con Hamas?
    «Hamas è stata eletta democraticamente. Le elezioni, questo lo confermano tutti, erano regolari e democratiche. Che ci piaccia o no dobbiamo per forza trattare anche con Hamas. E poi ci vuole un ritiro completo dalla striscia di Gaza e l’intervento per un periodo di transizione di una forza di pace della quale deve far parte anche la Lega araba e non solo una Nato o l’occidente».

    Ma attualmente chi meglio può svolgere un ruolo di mediazione?
    «L’Ue è certamente indebolita dalla presidenza ceca e dimentichiamoci dunque pure di Vaclav Klaus. Tutti gli altri grandi leader europei lo possono fare. Ben venga anche l’iniziativa di Sarkozv anche se la sua motivazione è quella di ripetere il successo ottenuto nella crisi in Georgia. Ancora non so invece se gli Stati Uniti di Obama e della Clinton troveranno il coraggio di abbandonare la strategia di incolpare sempre e solo Hamas, i palestinesi radicali. E un vicolo cieco e bisogna anche prendere atto che da un lato si contano 500 morti dall’altro solo 5, massimo 50!»

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    Tregua, subito


    • da La Stampa del 6 gennaio 2009, pag. 1

    di Abraham B. Yehoshua

    Se abbiamo a cuore la nostra sopravvivenza futura non dobbiamo dimenticare una cosa fondamentale mentre è in corso l’operazione «Piombo fuso», così chiamata a citazione di una canzoncina di Hannukah che racconta di una piccola trottola.

    Quella trottola, uno dei simboli della festività, è ricavata dal piombo fuso.
    Gaza non è il Vietnam, né l’Iraq, né l’Afghanistan, e non è nemmeno il Libano. È una regione che fa parte della patria comune a noi e ai palestinesi. Una patria che noi chiamiamo Israele e loro Palestina.

    A Gaza vivono un milione e mezzo di persone, membri di un popolo che conta un altro milione e trecentomila componenti in Israele e più di due milioni in Cisgiordania. Gli uomini e le donne di Gaza sono innanzi tutto nostri vicini e vivranno spalla a spalla con noi per sempre, anche se separati da una frontiera. Le nostre case e le nostre città sono a pochi chilometri di distanza dalle loro, i nostri campi lambiscono i loro. Gli uomini di Gaza, attivisti o poliziotti di Hamas che osserviamo attraverso binocoli militari, erano in passato attivisti o poliziotti di Al Fatah, nati a Gaza o giunti lì come profughi durante la guerra del 1948, o in altre guerre. Nel corso degli anni sono stati muratori nei nostri cantieri edili, lavapiatti in ristoranti dove abbiamo cenato, negozianti presso i quali abbiamo acquistato merci, operai nelle serre di Gush Katif, o altrove. Sono nostri vicini e lo saranno in futuro e questo ci impone di considerare con molta attenzione quale tipo di guerra combattiamo contro di loro, il suo carattere, la sua durata, la portata della sua violenza.

    Noi israeliani non abbiamo nessuna possibilità di estirpare il governo di Hamas a Gaza, come non avevamo nessuna possibilità di estirpare l’Olp dal popolo palestinese. Sharon e Begin arrivarono fino a Beirut, pagando un prezzo terribile e sanguinoso, per ottenere questo risultato. E che accadde? Sia Sharon sia Netanyahu sedettero a un tavolo con Arafat e i suoi rappresentanti per tentare di negoziare un accordo. E ora il vice del defunto leader palestinese, Abu Mazen, è ospite fisso e gradito presso di noi.

    Dobbiamo rendercene conto: gli arabi non sono creature metafisiche ma esseri umani, e gli esseri umani sono soggetti a cambiamenti. Anche noi cambiamo le nostre posizioni, mitighiamo le nostre opinioni, ci apriamo a nuove idee. Faremmo bene a levarci di testa al più presto l’illusione di poter annientare Hamas, di poterlo sradicare dalla Striscia di Gaza. Dobbiamo invece lavorare con cautela e buon senso per raggiungere un accordo ragionevole e dettagliato, una tregua rapida in vista di un cambiamento di Hamas. È possibile, è attuabile.

    È accaduto più volte nel corso della storia. Ma anche se cominceremo fin da oggi a lavorare a una tregua ci aspettano ancora giorni di guerra, di lanci di razzi. Almeno, però, avremo la consapevolezza di non combattere per un obiettivo irrealizzabile che porterà altro sangue e devastazione. Sangue e devastazione che peseranno sulla memoria collettiva dei figli dei nostri vicini i quali resteranno all’infinito tali, anche se la trottola continuerà a girare.

  6. #6
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    Il fronte dell’Iran


    • da Il Foglio del 7 gennaio 2009, pag. II

    di Christian Rocca

    In America comincia a circolare un’interpretazione diversa sull’attuale crisi a Gaza: "Israele - ha scritto sull’Atlantic Monthly Robert Kaplan, saggista stimato a destra come a sinistra - in realtà ha lanciato la guerra contro l’impero iraniano che il presidente George W. Bush e in particolare il vicepresidente Dick Cheney hanno soltanto potuto considerare". Kaplan non è il solo a sostenere questa tesi. II neoconservatore Bill Kristol, sul New York Times, ha scritto più o meno la stessa cosa. Così come Michael Ledeen, ora alla Foundation for Defense of Democracies, sul suo blog. David Brooks, sempre sul New York Times, ha spiegato che la battaglia di Gaza in realtà è una guerra per la fiducia e per il morale dei due fronti, perché nessuno dei due contendenti può sconfiggere l’avversario: l’obiettivo degli estremisti è quello di uccidere il numero più alto di ebrei e per il resto di affidarsi a Dio e all’Iran, mentre quello di Israele è realisticamente di sopprimere il terrorismo settimana dopo settimana, mese dopo mese, "La violenza, in questo caso, non crea necessariamente violenza. Qualche volta la previene", ha aggiunto Brooks.

    Il Wall Street Journal ha spiegato in un lungo editoriale che la politica estera di Barack Obama, già più forte grazie alla vittoria in Iraq, potrà trarre ulteriori benefici dal successo di Israele a Gaza: "Il presidente eletto dice che intende dedicarsi a un grande patto con l’Iran, ma i mullah saranno molto più interessati a una soluzione diplomatica se i loro alter ego militari saranno stati sconfitti. Gli israeliani hanno fatto a Obama un favore reagendo ad Hamas prima che lui entri alla Casa Bianca e in modo che il presidente Bush possa sopportare la solita denuncia globale agli Stati Uniti per il sostegno a Israele”.

    L’interpretazione del Wall Street Journal e degli altri non può essere più diversa da quella tradizionale, e frequente nelle cancellerie europee, di cui si fa portavoce Gideon Rachman sul Financial Times: "L’offensiva israeliana è pericolosamente vicina al fallimento", perché priva di strategia e di via d’uscita. Ma la prospettiva è diversa se si analizza l’operazione contro Hamas nell’ambito della più ampia minaccia, non soltanto contro Israele, costituita dai movimenti islamici radicali, i gruppi terroristici e gli ayatollah teocratici alla ricerca della bomba atomica. Se Israele non riuscirà a indebolire Hamas e a fermare la ricostruzione di uno stato terrorista a Gaza, ha scritto Bill Kristol sul New York Times, l’Iran potrà vantare un grande successo e sarà meno suscettibile alle pressioni di Obama per fermare il programma nucleare: "Ma una sconfitta di Hamas a Gaza, dopo il successo in Iraq, sarebbe un vero colpo per l’Iran, renderebbe più facile assemblare una coalizione regionale e internazionale per fare pressioni sull’Iran. Potrebbe anche avere un effetto positivo sulle elezioni iraniane di giugno e potrebbe rendere il regime iraniano più aperto a una trattativa". Secondo Kristol, Obama prima o poi potrebbe trovarsi in una situazione in cui l’uso della forza contro il programma nucleare iraniano sia l’opzione più responsabile, come è successo in questi giorni al governo israeliano- "Ma la volontà di Israele di combattere a Gaza rende più possibile l’ipotesi che non debbano essere gli Stati Uniti a farlo".

    La tesi di Robert Kaplan
    L’articolo di Robert Kaplan, in particolare, è quello più citato sui blog americani. Gaza, sostiene il giornalista dell’Atlantic, è l’avamposto occidentale dell’impero iraniano che ad oriente si estende fino all’Afghanistan. L’offensiva israeliana è la prima contro l’Iran, dopo la guerra contro Hezbollah nel 2006, e "se Obama è intelligente in questo momento starà tifando silenziosamente per Israele", Israele, sostiene Kaplan, non combatte contro uno stato, ma contro un’ideologia antioccidentale e antisemita, alimentata dalla religione islamica e rafforzata dai servizi segreti iraniani. E’ la stessa ideologia, aggiunge, che tiene unita la grande sfera d’influenza iraniana che comprende Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano. il movimento Mahdi nel sud dell’Iraq e che spera nel consenso dei milioni di arabi sanniti egiziani delusi dall’autocrazia del Cairo, giudicata troppo vicina agli Stati Uniti e a Israele. Il paradosso è che l’unico posto dove ì musulmani sono scettici dell’Iran è proprio l’Iran, spiega Kaplan, perché la popolazione è più filo occidentale rispetto al mondo arabo e il regime può vantare su una base di sostegno modesta, specie ora che lo stato è al disastro economico malgrado le vaste riserve energetiche.

    Le chance diplomatiche occidentali con l’Iran, sostiene Kaplan, sono legate alla vittoria di Israele a Gaza: "Dobbiamo crearci un vantaggio strategico prima di negoziare con il regime clericale e questo vantaggio può venire soltanto da una vittoria morale di Israele che faccia vacillare di spavento anche i siriani pro iraniani pronti ad aiutare Hamas".

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    Mack Smith: polveriera Palestina, cinquant’anni di occasioni perdute


    • da Il Messaggero del 7 gennaio 2009, pag. 6

    di Raffaello Uboldi

    «L’opinione pubblica inglese segue con disorientamento gli avvenimenti a Gaza, incerta tra simpatia e condanna, tenendo presente che la Gran Bretagna non fu particolarmente favorevole in quel lontano 1948 alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina, considerandolo un errore, magari un errore inevitabile, che forzava di molto i vecchi accordi con il movimento sionista internazionale per la creazione di un focolare ebraico, che non voleva dire uno Stato, nella regione. Fu per questo che contro il mandato britannico si scatenò a partire dal chiudersi del 1945 il terrorismo di alcune organizzazioni estremiste ebraiche, specie l’Irgun e il Gruppo Sterri, con episodi quali la bomba fatta esplodere nel luglio del 1946 dai terroristi dell’Irgun all’hotel King David di Gerusalemme. che causò un centinaio di morti fra inglesi, arabi ed ebrei».

    Dopodichè...
    «Il governo di Londra affidò la questione palestinese all’Onu che mise in atto un piano perla creazione in Palestina di uno Stato ebraico e di uno Stato arabo. Un piano approvato dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, ma respinto dalla Lega araba. Si arriva così al termine del mandato inglese sulla Palestina, e il capo del governo provvisorio ebraico, Ben Gurion decide di bruciare le tappe, proclamando la nascita dello Stato d’Israele. La Lega araba reagisce facendo entrare le sue truppe in Palestina. Scoppia la prima guerra arabo-israeliana. Gli ebrei sembrano dapprima a mal partito, in seguito riescono a ribaltare la situazione fino ad una serie di accordi di armistizio che non cancellano le cause del conflitto. Lo Stato d’Israele si annette un territorio quasi doppio rispetto alle previsioni dell’Onu, l’Egitto occupa Gaza, la Transgiordania si annette la Cisgiordania, e per circa un milione di palestinesi fuggiti dalla guerra non resta che l’amaro destino dei campi profughi nei paesi vicini, in condizioni di vita a dir poco terribili».

    Ottantanove anni di età in questo 2009 (è nato a Londra nel 1920), ma la voce sempre squillante, il modo di ragionare esemplarmente lucido, Denis Mack Smith, grande studioso del Risorgimento italiano, e non solo, giudica i fatti di Gaza con il disincanto dello storico, che per principio rifugge dalle passioni, ma guarda ai fatti concreti, non ad altro. Da qui la risposta che dà quando gli si rammenta che la creazione dello Stato di Israele fu una sorta di risarcimento per l’Olocausto ebraico in Europa: «E’ vero, ma a pagare furono gli arabi di Palestina».

    E adesso?
    «Per rispondere mette conto di ricordare qualche altra data e qualche altro fatto. Per cominciare le due guerre arabo-israeliane del 1957 e del 1973 passate alla storia come la guerra dei Sei Giorni e quella dello Yom Kippur. Con la prima guerra Israele conquistò altri territori arabi, compresa la città santa di Gerusalemme, nel corso di quella dello Yom Kippur lo Stato ebraico corse un grave pericolo fino alla controffensiva di Dayan oltre il Canale di Suez. Poi ci fu quello straordinario viaggio dell’egiziano Sadat a Tel Aviv col suo discorso alla Knesset quando disse agli ebrei: "Noi vi accettiamo nella regione". E più avanti gli accordi negoziati fra Arafat e Itzhak Rabin perla nascita di una Autorità palestinese, preludio alla formazione di uno Stato arabo di Palestina. Fu un momento di quasi incredibile speranza che purtroppo si scontrò con le ali più intransigenti dei due schieramenti, e abbiamo l’assassinio di Sadat e quello di Rabin, due martiri sull’altare della pace, che diventò più che mai una pace mutilata, per non dire impossibile, con negoziati interminabili da una parte e dall’altra senza approdare a nulla di concreto, il moltiplicarsi del terrorismo anti-ebraico, la Palestina che addirittura si divideva in tre Stati, Gaza sotto il controllo degli estremisti di Hamas, una Autorità palestinese in Cisgiordania, Israele naturalmente, e vari paesi arabi, quali la Siria, o l’Iran che arabo non è, che soffiavano sul fuoco».

    Il che significa che non c’è soluzione?
    «Tutt’altro, significa soltanto che né il terrorismo, né le guerre risolvono alcunché. Cito ad esempio l’attentato di Bin Laden alle Torri Gemelle newyorkesi. Forse che il mondo islamico si è sollevato come un sol uomo all’appello per una guerra santa? Affatto. E Hamas che cosa ottiene coi suoi missili contro Israele? E gli israeliani portando la guerra a Gaza? Il fatto è che la storia dei rapporti arabo-israeliani è una storia di occasioni perdute. Israele esiste, La Palestina araba esiste, il diritto dei palestinesi ad avere, pure loro, una patria, è innegabile».

    E allora?
    «E allora c’è una enorme responsabilità della comunità internazionale per essersi semplicemente divisa in un atteggiamento di simpatia o di antipatia verso l’una o l’altra parte in conflitto, più che intervenire per obbligare arabi e israeliani a regolare al meglio le loro dispute che non possono essere fatte di guerre intervallate da periodi di incerta pace, o di attentati privi di sbocco. Rendiamocene conto e tanto meglio sarà».

  8. #8
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    Amos Oz: giusto reagire ma l’invasione non ha senso


    • da Il Messaggero del 7 gennaio 2009, pag. 5

    di Eric Salerno

    «La morte dei bambini, della gente che si era rifugiata nei locali della scuola delle Nazioni Unite? Non conosco i dettagli. Comunque, è terribile. L'attacco israeliano contro Hamas è totalmente sproporzionato». Amos Oz, uno degli scrittori israeliani più noti in Italia, fondatore con altri intellettuali di un nuovo movimento politico per la pace, ascolta le tragiche notizie che arrivano da Gaza. «Su un elemento non faccio marcia indietro. L'ho già detto. Israele ha fatto bene a rispondere alle provocazioni di Hamas, alle migliaia di missili lanciati contro la popolazione nel sud d'Israele, ma ero e sono contrario all'operazione di terra. Avrei sottoscritto sicuramente un attacco limitato contro Hamas per vedere poi come il movimento avrebbe reagito. L'invasione non ha senso».

    Ora da Hamas cosa s'aspetta? Il movimento di resistenza islamica era disposto a rinnovare la tregua, scaduta a metà dicembre dopo sei mesi, ina chiedeva il rispetto di alcuni delle clausole, a suo giudizio, non rispettati da Israele. So-
    prattutto la fine del blocco e la riapertura dei valichi.
    «Loro, i terroristi, vorrebbero il libero passaggio per cannoni, artiglieria pesante e missili inviati dall'Iran».

    Missili e artiglieria? Non sarebbero mai passati dai valichi controllati da Israele.
    «Certamente no, ma Hamas era ed è interessato soprattutto ali' apertura del confine di Rafah, ossia quello tra la striscia di Gaza e l'Egitto».

    Ora cosa succederà?
    «Ci sarà una tregua- E mi auguro che arrivi presto. L'avrei voluto vedere in effetto già qualche giorno fa. Ossia prima dell'avvio delle inutili e pericolose operazioni di terra».

    All'inizio anche molti arabi guardavano con un certo favore a una risposta militare limitata. Ma con l'aumento delle vittime civili le cose stanno cambiando. La gente guarda ai numeri. In sette anni, per i kassam di Hamas, è morta una ventina d'israeliani e voi avete ucciso più di seicento palestinesi in dieci giorni.
    «Non potevamo dire ad Hamas di continuare tranquillamente a bersagliare Israele soltanto perché non abbiamo avuto molte
    vittime».

    Ma ora ci sarà una tregua e Hamas griderà vittoria.
    «Lo farebbe in ogni caso. Griderebbe vittoria anche se i morti a Gaza fossero seimila. Hamas è un movimento terroristico, cinico, privo di rispetto per la vita umana».

    E allora, con Hamas che griderà vittoria, come procedere?
    «Considerare il problema alla luce della realtà. Ci sono ormai due entità: Gaza in mano a Hamas e la Cisgiordania controllata dall' Anp. Israele deve raggiungere una tregua duratura con chi comanda a Gaza e negoziare la pace con i palestinesi del presidente Mahmoud Abbas».

    Israele ha sempre sostenuto che non è praticabile un negoziato che prenda in considerazione un pezzo soltanto della Palestina.
    «E Israele deve cambiare posizione. Deve, senza perdere altro tempo, raggiungere un vero, completo, accordo di pace per la Cisgiordania nella speranza che poi saranno trascinati dagli eventi anche i palestinesi di Gaza».

    Ormai tutti, come ha ricordato il premier Olmert, sanno cosa serve. Il governo che uscirà dalle elezioni del 10 febbraio, sarà capace di fare la pace, di sottoscrivere le concessioni indispensabili su Gerusalemme, frontiere, rifugiati?
    «Sarà sicuramente in grado. Avrà la forza per farla».

    Dunque è convinto che vincerà la coalizione al potere ed è convinto che Barak e Livni sono disposti a procedere su quella strada?
    «Chiunque vinca le elezioni sarà nella condizione di fare la pace. Non dimenticare che in passato la destra ha compiuto passi enormi in quella direzione mentre la sinistra guardava come paralizzata al conflitto».

    Allora il prossimo governo farà la pace?
    «Questo non lo so. Avrà la forza politica per farla, Se userà questa fona nella giusta direzione, lo sanno soltanto i profeti. E io non sono un profeta. Troppa concorrenza in questa terra: ve ne sono già troppi».

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    La Cisgiordania stanca di guerre resta in silenzio sull’invasione di Gaza


    • da Corriere della Sera del 7 gennaio 2009, pag. 5

    di Francesco Battistini

    «Io abito proprio nel mezzo della Cisgiordania», dice Zmiro Hamdan, che da una vita fa il portaborse ai deputati arabi della Knesset: «La prima sera dei raid aerei, ho dormito a Gerusalemme. E neanche la sera dopo volevo tornare a casa: quando qui si vota qualcosa contro la nostra gente, i primi con cui se la prendono siamo noi. Mi trovo sempre la macchina sfondata di sassate. Qualcuno che m’insulta. Stavolta no, invece. Torno a casa tutte le sere, senza problemi. Magari mi fermano per strada, per sapere. Magari mi gridano che questo massacro di Gaza è un crimine. Dico anch’io che lo è. E infatti i nostri deputati hanno votato contro. Però non ho paura. Non so perché, ma mi lasciano stare».

    Don’t cry for me, Palestina. La guerra delle pietre non c’è più. Al massimo, si fa la guerra con le scritte. Su una casa all’ingresso di Hebron, l’altra notte qualcuno ha graffitato: «Hebron è la città di Hamas». Lo spray nero è durato lo spazio d’un mattino, quando sono arrivati i solerti attivisti dell’Autorità palestinese, l’Anp, e hanno sbianchettato in modo islamicamente più corretto: «Hebron è la città di Khalil Al Rahman», nome del profeta Ibrahim. Territori silenziosi. Nell’assordante quiete mediorientale che circonda la tragedia della Striscia - gli Hezbollab libanesi che non si danno troppo da fare, l’iraniano Ahmadinejad di poche, insolite parole -, è la calma della Cisgiordania a stupire di più. Sugli ulivi non volano molte pietre. La pax del Fatati regna sovrana e guai a chi solidarizza troppo. A parole i. leader dell’Anp s’indignano. «E’ una vergogna per tutta l’umanità!» (Abu Mazen). «Siamo tutti cittadini di Gaza!» (Saeb Erekat). Nei fatti, loro stanno là a pigliare le bombe e questi, qua, stanno a disarmare le proteste. Anche all’università di Bir Zeit, cuore di tutte le intifade, l’ennesima manifestazione degli studenti integralisti s’è fermata presto e, a respingerla, ha trovato i manganelli e gli scudi della polizia palestinese, quella addestrata in Giordania coi soldi americani. La giornata della rabbia, venerdì scorso, s’è ridotta a qualche scazzottata. «Diffidiamo chiunque dall’avvicinarsi ai nostri check-point - è stato l’avvertimento del capitano Adnan Dameert, portavoce delle guardie fedeli al Fatati -. Ci sono già abbastanza morti a Gaza, per averne qui». I sondaggi dei canali tv palestinesi dicono che la West Bank è un solo corpo con «la resistenza di Hamas», ma quasi nessuno fiata: «Non vogliamo scontrarci con l’Autorità palestinese - riconosce Abdullah Dwaik, fratello del portavoce (in prigione) che Hamas ha designato come presidente al posto di Abu Mazen -, non è il momento di mostrare le divisioni».

    Leggenda popolare o no, raccontano che qualche leader del Fatah abbia festeggiato le tribolazioni degli avversari islamici. E gira una barzelletta feroce su Tzipi Livni e Abu Mazen seduti al bar, un tizio che li riconosce e chiede che ci facciano lì e loro che rispondono: «Stiamo decidendo d’ammazzare mille palestinesi e un israeliano». «Ma perché l’israeliano?». «Hai visto? - Abu Mazen entusiasta strizza l’occhio alla collega Dei palestinesi non importa niente a nessuno!». E almeno finora uno dei fallimenti politici di Khaled Meshaal, capo di Hamas latitante a Damasco, sembra l’appello alla «terza intifada», caduto per ora nel vuoto. «La nostra gente non è pronta a una nuova campagna di rivolta contro Israele - dice Tayseer Nasrallah, leader del Fatati a Nablus -. Siamo tutti stanchi. E stiamo pagando ancora il prezzo dell’intifada numero due: sa quanti ragazzi hanno perso anni di scuola, quante imprese hanno perso contratti d’affari, quante famiglie hanno perso i figli più giovani? Una terza intifada richiede molta preparazione. E la gente non è pronta».

    Nasrallah è una voce interessata, lo ammette: «Hamas teme la nostra reazione, se scatena i Territori. E Fatah non ha voglia di spendersi troppo per Gaza, dopo che ci hanno buttati tutti fuori». Ma la storia dei festeggiamenti? «Sì, è vera. Non è bello, ma qualcuno l’ha fatto». Cinismo strisciante. «Sono scioccato dalla non-reazione della Cisgiordania - scuote la testa Abdel Sattar Qassem; politologo dell’università An Najah, amico di Hamas -. Una vergogna. Non capisco: la gente ha più paura dell’Anp che d’Israele? Credo c’entri la paura di perdere un lavoro, un favore, amici che contano. Aspettano tutti di vedere chi vince. Se la spunta Israele, qui partono le vendette contro Hamas. Ma se Hamas resiste, e io credo ce la faccia, allora la terza intifada può partire».

    Sogni, liquida Nasrallah: «Hamas non è Hezbollah e Gaza non è il Libano. Non c’è una Siria o un Iran che arrivano all’ ultimo, come la cavalleria dei film, e salvano tutti. Hamas è in una prigione. E la sconfitta è scritta».

  10. #10
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    Ma le chiavi di Gaza sono in mano al faraone Mubarak


    • da La Stampa del 7 gennaio 2009, pag. 4

    di Mimmo Candito

    Tutto sta in quei 10.000 uomini che vigilano la frontiera tra l’Egitto e la Striscia, in uniforme bianca i gendarmi, i soldati nel loro verde stinto. Rafah, il posto di frontiera, è poco più d’una finzione burocratica perduta nel giallo sporco di un deserto dove perfino le palme hanno il colore della polvere che il vento inchioda sui rami; ma da quando 350 mila palestinesi - giusto un anno fa, il 6 gennaio 2008 - passarono questo posto di confine e urlando e strombazzando «invasero» l’Egitto alla disperata ricerca di cibo, farmaci e carburante, questo filtro poliziesco e doganale sulle rovine di un muro fatto saltare in aria dalla rabbia e dalla protesta è diventato la linea di frattura sulla quale si misurano i due blocchi del mondo arabo: da una parte, l’Egitto, la Giordania, l’Arabia Saudita, e l’Autorità Nazionale Palestinese, e dall’altra la Siria, Hamas, Hezbollah e l’Iran, che non è un Paese arabo ma che nel Medio Oriente è fortemente impiantato, ormai attore fondamentale.

    Quella frontiera non è soltanto la strada di passaggio per rifornimenti che possono rompere l’assedio israeliano ma è una scelta simbolica, una decisione destinata a confermare, o al contrario mutare, gli equilibri del conflitto; e, più generalmente, può decidere l’intero futuro di Israele e di una Palestina da far ancora nascere. Tony Blair, inviato del Quartetto in Egitto, dopo un colloquio con Mubarak ha spiegato che «una chiara azione che tagli i rifornimenti di armi e di soldi ad Hamas faciliterebbe» la fine di questa fase del conflitto, e ha però aggiunto - e questo è molto significativo - che «gli egiziani sono pronti a farlo, vogliono farlo, riconoscono che farlo è nel loro interesse».

    Quando Blair dice «gli egiziani», intende Mubarak, faraone dell’Egitto moderno dal 14 ottobre 1981, eletto e rieletto presidente, signore assoluto di un Paese dove le strutture formalo dì un sistema democratico sono ancorate al volere incontrastato di questo «dittatore», a suo modo illuminato, ma sicuramente inchiodato nel ruolo nel quale lo ha posto la pace che il suo predecessore, Anwar al-Sadat, ebbe il coraggio storico di firmare con Israele. Oggi Mubarak è stretto in una tenaglia che, da un lato, spinge verso la chimerica e retorica «solidarietà del mondo arabo» e però, dalla parte opposta, tiene conto degli «interessi nazionali» del Paese. Non stupisce che questi «interessi» alla fine prevalgano, non soltanto in Egitto, ma in tutti i Paesi del fronte radicale, che sbandierano il loro appoggio al jihad contro Israele quasi soltanto per un tornaconto di politica interna (mantenere compatte società nazionali la cui stabilità sarebbe minata - se non ci fosse quella bandiera su cui scaricare ogni tensione - dai pesanti squilibri di regimi che operano dentro forme di forte autoritarismo).

    Con poco meno di 2 miliardi di dollari, l’Egitto è il secondo percettore di aiuti americani, dietro soltanto a Israele, che ne riceve 2,4 miliardi. Mubarak deve così fronteggiare le pressioni esterne della Umma islamica e delle sue componenti più radicali ma, anche, le pressioni interne di un Paese comunque laico e che tuttavia non riesce a decollare dal sottosviluppo, incontrando nella spinta della Fratellanza Musulmana il catalizzatore di ogni protesta, sociale, politica, religiosa.

    La Fratellanza, e tutte le forze politiche che a essa si legano, spingono ovviamente per l’apertura totale della frontiera, in modo da spostare la posizione ufficiale dell’Egitto verso la «solidarietà» e in qualche misura rompere la sua alleanza con gli Usa; ma Mubarak, vecchio volpone degli equilibri politici, sa bene che questa scelta lo spingerebbe in una spirale dalla quale gli sarebbe difficile districarsi. E’ per questo che ìl rifiuto di collocare osservatori internazionali lungo il confine di Gaza - che è poi la sostanza politica del piano americano - fornisce al «faraone» l’opportunità di mostrare pubblicamente un suo distanziamento da Washignton. Il cerchiobottismo è una componente immancabile del confronto politico, e non solo in Medio Oriente; Mubarak ne ha sempre gestito le dinamiche con sagacia tutta levantina, e i suoi capelli bianchi tinti di un nero feroce sono il simbolo di questa propensione a curare l’apparenza e però anche a seguitare nel suo corso vitale di controllo del potere.

    Quei 10.000 uomini al confine vigilano una frontiera ma soprattutto vigilano un futuro possibile. Nella polvere stanca di Rafah, gli ordini che arrivano dal Cairo raccontano, giorno per giorno, il corso reale della storia del Medio Oriente.

 

 
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