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    Predefinito Massimo valletto di Santoro?

    Non sarà mai «La valletta di Santoro», come ironizza Maurizio Gasparri, ma di certo, al pari di Michele Santoro, Massimo D’Alema disegna la sua identità riscoprendo il fascino della radicalità politica e verbale.
    Ancor di più se si trova in minoranza, non solo nel Paese, ma persino nel suo stesso partito (come ha evidenziato un convegno del Pd in cui c’erano venticinque oratori per venticinque diverse posizioni).
    Attaccato non solo dal centrodestra, ma da suoi compagni di partito come Piero Fassino e Francesco Rutelli, l’ex ministro degli Esteri non ha trovato di meglio che rifugiarsi nel proprio «complesso di superiorità».
    Anche in questo, si rivela simile a Santoro, che non riconosce a nessuno, se non a se stesso, l’autorità di dire e di giudicare.

    Non sappiamo se i due leader maximi (uno della sinistra politica, l’altro della sinistra catodica) siano del tutto consapevoli di questo loro sentimento arrogante.
    Fatto sta che ieri D’Alema ci ha regalato una nuova sentenza, un’altra delle sue massime da capitan Fracassa: «Non siamo noi isolati, ma è questa Italia, ad essere cinica, rozza e ignorante».
    Ancora una volta il baffino della politica italiana riscopre la sua sempiterna attitudine a considerarsi espressione dell’Italia dei «migliori» (Giorgio Gaber) se non - addirittura - il migliore fra i migliori.
    Certo, il rivale di Veltroni, in questi giorni è impegnato in una battaglia difficilissima, su una frontiera molto scomoda da presidiare, quella della sua linea anti-israeliana.
    Una battaglia in cui si ritrova con un vecchio compagno del ’68 come Santoro.
    Proprio lui, che andò orgoglioso di aver dato l’ordine di bombardare il Kosovo, dando prova in questo modo di una fedeltà ultra-atlantista adamantina, ha deciso - da quando è all’opposizione dell’opposizione - di rinverdire le antiche simpatie palestinesi, già di Aldo Moro e Giulio Andreotti.
    È qualcosa di più di una presa di posizione, quella di D’Alema, quasi un surrogato identitario. Proprio lui, che fu il più acerrimo nemico di Bettino Craxi, con uno degli scarti a cui la politica italiana ci ha abituati, ha deciso di oscurare persino la memoria dell’ex segretario socialista posizionandosi sul piano del filo-arabismo più radicale. Soprattutto nei toni.
    Tanto che a rivaleggiare con i comunisti italiani (quelli che andarono a incontrare con il loro segretario Oliviero Diliberto il leader di Hezbollah, Nasrallah) ormai c’è solo lui: l’uomo che si è fatto fotografare in Libano, ai margini della guerra tra le milizie sciite e Israele, mentre passeggiava a braccetto con un deputato eletto proprio nelle liste di Hezbollah.
    Un gesto che sembrava azzardato per un leader neocomunista come Diliberto, e che quindi rasenta la spericolatezza per un auto-consacrato statista come D’Alema. Al punto che un commentatore di politica internazionale come Andrea Romano, tra i più stretti collaboratori del leader maximo nella fondazione «Italianieuropei», arrivò a ipotizzare, in un editoriale su La Stampa, il sospetto che in queste scelte estreme ci fosse persino una punta di antisemitismo latente.

    Certo, quando D’Alema dice che «è ipocrita negare il dialogo con Hamas», non pensa al consenso, ma ad usare le idee come corpi contundenti.
    E siccome alla fine i conti non tornano mai, l’unico rifugio è quell’anatema, lanciato contro gli stolti che non capiscono, e che non possono arrivare alla sua altezza, gli italiani «cinici, rozzi e ignoranti».
    Di cui noi, al contrario di lui, ci onoriamo di essere parte.

    Salvatore Tramontano www.ilgiornale.it 18 01 09

    saluti

  2. #2
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    Predefinito L'eterna Samarcanda di Santoro: vocazione....

    ....al martirio

    Michele Santoro è di una sinistra esistenziale e ideologica, e per capirlo non c’è bisogno di rispolverare il fatto che scrisse su Servire il popolo:
    Michele Santoro è quello che ha fatto Samarcanda e che 21 anni dopo continua a farla.
    È quello che prepara agguati, coadiuvato da una regia che è parte essenziale dell’offensiva, quello che d’un tratto alza la temperatura e richiama le piazze di Ruotolo, i servizi di Iacona, e le grida, gli applausi, il semplicismo studentesco, il vittimismo parentale, lo Stato che ci ha lasciati soli, e gli eroi e i corrotti, il Rosso e il Nero, il Nord e il Sud.
    Santoro ha cresciuto eccellenti autori di reportage, potrebbe rimanere una risorsa nel piattume generale: ma appena si accorge che va tutto bene, eccolo rialzare il tiro e scatenare un bordello.
    Se quattro ospiti su cinque sono di parte, se i servizi lo appaiono a loro volta, se il suo sermonista senza contraddittorio se la canta da solo, Santoro non pretenda che non accada nulla: desidera ardentemente che accada tutto.
    Samarcanda era la grande creatura di Telekabul, della Raitre di Guglielmi, un talkshow in diretta sull’attualità più tumultuosa: un periodo caotico e rivoluzionario fece il resto.
    Crebbero gli ascolti e le polemiche, il Pentapartito venne squartato e venduto a tranci, uno come Leoluca Orlando poteva accusare Giovanni Falcone d’imboscarsi le inchieste nei cassetti: ma si poteva intervistare.
    Poco prima che fosse freddato dalla mafia, anche uno come Libero Grassi.
    Poi Santoro si fece furbo e divenne autore di se stesso: e scrisse il libro «Oltre Samarcanda» nella consapevolezza che oltre Samarcanda non c’era niente.
    Il successivo Il rosso e il nero fu la trasmissione del massimo fulgore, la vera consacrazione, spettatori a medie da sei milioni: la politica scompariva, massacrata anche da se stessa, e sul proscenio salivano i giornalisti che avrebbero dovuto raccontarla.
    Persino Umberto Bossi, nel 1994, dirà che «senza le trasmissioni di Santoro l’Italia non avrebbe preso coscienza degli sprechi di denaro pubblico e del disastro sociale del Sud».
    Santoro oltretutto sdoganò l’esistenza politica di Gianfranco Fini (parlò, per primo, di un sondaggio che lo accreditava come oppositore del candidato sindaco Rutelli), ma poi la discesa in campo di Berlusconi spaccò ogni fronte per sempre.
    Ecco le prediche di Celentano, David Sassoli schierato come non potete ricordarvelo, botte da orbi tra Giuliano Ferrara e Giampaolo Pansa, la liquidazione fallimentare del craxismo, l’università dell’antiberlusconismo: e poi, nel 1994, Temporeale, ultimo grande ruggito di una stagione di sangue.

    Ecco Mani pulite agli sgoccioli, il caso Di Pietro, le telefonate di Berlusconi in diretta, Santoro che cominciava a farsi caricatura, ecco quella «Rai dei professori» che fu la peggiore di ogni tempo.
    Ma ecco, anche, l’uomo che di lì in poi sviluppava una volta per sempre quel certo giornalismo autoriflesso che è il suo, vittimista, proteso al martirio, spesso intriso di negatività disperante.
    Fu lì, probabilmente, che maturò la convinzione che una moltitudine, là fuori, agognasse un suo ritorno in video quale diritto naturale inalienabile.
    Parliamo dell’uomo che nel suo libro successivo, «Michele chi?», riuscì a mettere in copertina il suo nome, la sua foto, e poi ancora il suo nome.
    Ormai era Santoro, figura passata in giudicato, marchio definitivo su ciò che da un certo programma tv era lecito attendersi.

    Vennero, però, tempi duri. L’operazione Moby Dick portò Santoro a Mediaset e dimostrò come il pensoso conduttore potesse piegarsi per non spezzarsi. Non andò benissimo, soprattutto per gli ascolti: ma prese dei bei soldi, e in ogni caso era solo tempo di aspettare che in Rai cambiasse l’aria.
    Rieccolo allora nel 1999, smarrito in trasmissioni di cui si fatica a ricordare il nome: Circus, Sciuscià.
    Sino all’elaborare un nuovo tipo di trasmissione da cui ricominciare tutto: Samarcanda, non altro.
    La chiamò Il raggio verde, riflesso dei tempi d’oro, benché in climi più freddi e presto berlusconiani: l’ideale. Le accuse di partigianeria si fecero più pressanti e l’Authority fu costretta a spiegare che «Il raggio verde non è un programma di comunicazione politica o una tribuna elettorale, ma una trasmissione di informazione e approfondimento che deve seguire l’attualità, le notizie».
    Santoro ebbe l’ordine di presentare una puntata riparatoria a favore di Marcello Dell’Utri, ma la toppa si rivelò peggiore del buco.
    Berlusconi intervenne telefonicamente e accusò il programma di essere un processo in diretta, e finì a maleparole. Ne seguì un altro esposto e stavolta la multa, dapprima rifiutata con sdegno dal presidente Roberto Zaccaria, salì a 200 milioni di lire.
    Forza Italia presentò addirittura due esposti per far chiudere il programma, ma furono respinti.
    Al sopravvalutatissimo e infelice «editto bulgaro» mancava pochissimo. Epilogo: dopo l’accoglimento dell’ennesimo esposto all’Authority, Santoro venne allontanato dalla Rai e però le fece causa.

    Iniziava la fase più penosa, per quanto potesse essere penoso il candidarsi al Parlamento europeo, con Prodi, prendendo 730mila preferenze.
    Cominciava una sfiancante e ronzante campagna per la libertà d’informazione (con Lilli Gruber, un’altra che presto si sarebbe stufata), ma dopo venti minuti Santoro non ne poteva già più.
    Fu una fortuna, nel 2005, che un giudice del lavoro condannò la Rai a risarcirlo con un milione e 400mila euro, nonché a reinserirlo nel suo posto di lavoro in prima serata: dettando, di fatto, i palinsesti della Rai.
    E così, dopo altri rinvii, ecco finalmente Samarcanda, pardon Annozero: il nuovo missile decollò il 17 settembre 2006 con a bordo il vignettista Vauro, il fido Ruotolo e una ciurma da urlo: Marco Travaglio, il monologante, più le bellezze Rula Jebreal e Beatrice Borromeo.

    Si ricominciava.
    Puntate chiassose ma inevitabili (quella sulla Sicilia di Totò Cuffaro) più altre scomode ma giornalisticamente lecite (il reportage della Bbc sui preti pedofili), sino alla tentazione di farla subito fuori dal palinsesto: era arrivata l’antipolitica.
    E lì, forse, c’era un’occasione da cogliere.
    Aveva preso tante di quelle sberle anche dalla sinistra, Santoro, che fare giornalismo è ciò che gli rimaneva solamente da fare.
    Dopo che Clemente Mastella aveva abbandonato in diretta lo studio, per via di critiche giudicate scortesi, Santoro disse così: «L’arroganza della politica sta diventando insopportabile, devono abituarsi di nuovo a discutere, a parlare con chi li critica».
    E aveva ragione. S’avanzava una certa puzza di conformismo in una stagione dove la classe politica stava cominciando a credere, forse, che le buone trasmissioni dovessero essere tutte come Ballarò.
    E così cominciarono a disertare Annozero.
    Per migliorare la situazione, Santoro, tipicamente, la peggiorò una volta per tutte: e riecco Samarcanda, il ridicolo caso De Magistris, riecco certa piagneria meridionale, la Forleo che sbroccava in diretta.
    La solita storia.
    Michele Santoro ricominciava a fare quello che deve farsi cacciare per forza, quello che resiste stoicamente al ritorno del regime.
    Perciò, oggi come ieri, alza il carico non appena gli gira: comunque vada, sarà un eroe.
    Solo una persona, oggi come ieri, può veramente cacciarlo:
    Michele la osserva nello specchio ogni mattina.

    Filippo Facci www.ilgiornale.it 18 01 09

    saluti

  3. #3
    Amico di Oniria..wooff...
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    Predefinito

    più passano i mesi,dalla nascita dell'AMEBA-PD,e più ci si rende conto di avere più kojonelli ke elettori.

    wooff...è un male per la democrazia l'incosistenza dell'opposizione direi che senza la sinistra radicale sono degli incapaci e degli andicappati al punto tale che qualcuno.....skizza di nervi,altri si sentono onnipotenti e cercano nell'incoerenza di giustificare anche l'evidenza dell'errore.



    wooff...wooff...nn ci siamo ne con la testa ne con i piedi.......kontenti loro.....

  4. #4
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    Predefinito Ecco lo scandalo: permettere certi show!

    Diceva il grande Petrolini: «Non ce l'ho con te, ce l'ho con quello che ti sta vicino e non ti butta di sotto», riferendosi a uno spettatore poco cortese della galleria al Teatro Ambra Jovinelli.
    Così si potrebbe trasformare la battuta per il caso Santoro, scandalo ricorrente e perfino logoro, non fosse che di mezzo c'è l'odio per Israele: «Non ce l'ho con te, ce l'ho con la Rai che t'ha ripreso e ti mantiene, ce l'ho con la Rai sempre più incapace di produrre e controllare programmi degni di una televisione pubblica».
    Anche perché, parliamoci chiaro, non è che il caso sia esploso perché è stata vergognosa la trasmissione messa in piedi dal nostro e dai suoi fidati amici, è nato perché qualcuno, Lucia Annunziata, ha rotto il giocattolo.
    A tutti o quasi coloro che non seguono il suo copione, Santoro toglie la parola, copre la voce, organizza trappoline calunniose, e c'è sempre qualcuno, anzi molti, che si compiace e plaude alla pluralità dell'informazione.

    Qualche tempo fa Vittorio Sgarbi, in situazione di analoga gravità, li prese sanamente tutti a male parole, e diede al suo allora sindaco, la prude Letizia Moratti, un pretesto in più per liberarsene.
    Annozero però andò avanti imperterrito, fino al nuovo scontro, con una vecchia amica-nemica, che ha deciso di abbandonare lo studio, metodo, ora lo sa anche lei, impeccabile da seguire quando a restare non c'è scopo alcuno.
    Michele Santoro non è che il prodotto, trascinatosi per vent'anni con tanto di passaggio dai nemici berlusconiani che pensarono scioccamente di farne un argomento a favore, della peggior televisione pubblica, che si rivela ogni giorno più incapace di assolvere all'obbligo costitutivo, che è allo sbando definitivo, priva di direzione e di organo di controllo, priva di programma.
    Sarà bene ricordarsi questo, piuttosto che concentrarsi sull'episodio Gaza, che è un orrendo episodio ordinario dell'antisemitismo e della simpatia morbosa per estremisti e integralisti, che informa la sinistra italiana.
    In più questa volta gli amici divulgatori del verbo di Hamas non si sono resi conto che tra i palestinesi il consenso per il movimento terrorista non è compatto come un tempo.
    Ma resta il fatto che non c'è solo Santoro a tradire la vocazione della televisione pubblica.
    In Italia è diventato normale alternare trasmissioni di mera ritualità e di finto approfondimento, nelle quali con la stessa formula si passa disinvoltamente dalla politica alla cronaca nera, alla cucina, al lancio dei film panettone, alle diete di moda, a trasmissioni a tesi urlate e faziose.
    Mai viene garantito che una vicenda si illustri per com’è, con ricchezza di fatti, immagini e informazioni, che il dibattito si animi di differenti opinioni, espresse con calma e autorevolezza da persone che ne hanno pieno titolo, che il conduttore sia il garante della civiltà del discutere e della garanzia da offrire a chi guarda, che non capisce, subisce pubblicità, ed è pure costretto a pagare un balzello odioso, che passa sotto il nome di canone.
    Non solo nessuna riforma, pur dichiarata urgente e necessaria, viene intrapresa, ma la Commissione parlamentare di Vigilanza è presieduta da un fantasma.
    Meglio, da un signore eletto legittimamente come risposta al boicottaggio e all'incapacità di Walter Veltroni e dell'opposizione, ma oggi diventato un impedimento, tant’è vero che i componenti della Commissione disertano le riunioni e di fatto l'organismo è stato messo in mora e in burla.
    Non solo presidenza, direzione generale, responsabili di informazione e di rete non vengono sostituiti, ma quelli rimasti sono delegittimati, e al contempo non devono rispondere più del prodotto che offrono.

    Rientra a pieno titolo nella logica di distruzione della televisione pubblica il proliferare di dilettanti al ballo e al canto, di cosce e tette, di soldi distribuiti senza ragione.
    Ma questa parte, chiamiamola così, di svago popolare e populista non farebbe l'impressione funesta che ormai ispira se l'offerta prevedesse anche, con rigore, buona musica e un po' di buon teatro, reportage nazionali e internazionali, approfondimenti politici dignitosi.
    Inutile prendersela con Il Grande Fratello, che va in onda su una televisione commerciale e gratuita, e non intervenire sul degrado della programmazione della Rai.
    Anche la nuova trasmissione di Rai 2 Malpensa, Italia, il cui conduttore dichiara che sarà il Santoro del Nord, è profondamente sbagliata.
    Se c'è un Santoro della Lega, quello originale resta un intoccabile, invece di un cattivo esempio da superare infine.

    M.G.Maglie www.ilgiornale.it 18 01 09

    saluti

  5. #5
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    Citazione Originariamente Scritto da kanekorso Visualizza Messaggio
    più passano i mesi,dalla nascita dell'AMEBA-PD,e più ci si rende conto di avere più kojonelli ke elettori.

    wooff...è un male per la democrazia l'incosistenza dell'opposizione direi che senza la sinistra radicale sono degli incapaci e degli andicappati al punto tale che qualcuno.....skizza di nervi,altri si sentono onnipotenti e cercano nell'incoerenza di giustificare anche l'evidenza dell'errore.



    wooff...wooff...nn ci siamo ne con la testa ne con i piedi.......kontenti loro.....
    -----------------------------------
    Anch'io son preoccupato sulla tenuta della democrazia.
    Quando il "Migliore" dell'opposizione descrive gli italiani come popolo "rozzo, cinico e ignorante" che fiducia puoi dare alla capacità politica di chi egli rappresenta?

    saluti

  6. #6
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    Predefinito Sul M.O. Massimo tentato dalla scissione

    Servirà poco ai palestinesi l’appoggio incondizionato della sinistra dalemiana. Servirà molto, invece, ad alcuni futuri naufraghi del Pd l’identità filo-araba. Nelle prove di scissione del partito di Veltroni la tragedia di Gaza ha svolto un ruolo catalizzatore.
    Mentre il segretario si barcamenava fra gli appelli per la tregua e il filo-sionismo di Rutelli e Fassino, su un altro fronte D’Alema ha lavorato per aggregare politicamente una nuova maggioranza del Pd o del partito che nascerà dalla sua spaccatura.

    D’Alema non ama Israele, è un uomo politico che si ispira all’antica politica estera sostanzialmente filo-araba della Dc e del Pci (ma anche di Craxi), è stato sostenitore di Arafat, soprattutto non sopporta il ruolo pubblico delle comunità ebraiche (vero «topos» dell’antisemitismo moderno) con cui si scontra con particolare acrimonia.
    Questa scelta di totale adesione alla parte araba si è nutrita di gesti clamorosi:
    dall’abbraccio con i leader Hezbollah quando da ministro degli Esteri visitò il Libano dopo la guerra di due anni fa;
    alle continue prese di posizione a favore del riconoscimento unilaterale di Hamas;
    fino al rifiuto di sanzioni verso il regime iraniano, la cui pretesa di armarsi con la bomba atomica D’Alema mai ha contestato.
    Questa politica è stata definita dall’ex premier come politica realista e di «equivicinanza» alle due parti, ma ha trovato solo parole di condanna verso Israele e mai contro le organizzazioni terroristiche che assediano lo Stato ebraico.
    Su queste basi D’Alema sta tentando in questi giorni di costruire una maggioranza politica assai ampia.

    Le sue prese di posizione, e il controcanto di Michele Santoro in tv, hanno ricevuto il consenso di vasti settori del Pd.
    In primo luogo l’area dalemiana in senso stretto, ma anche oltre.
    Il senatore fassiniano Pietro Marcenaro, a capo della commissione parlamentare sui diritti umani, si è schierato sulle sue posizioni e non su quelle dell’ultimo segretario Ds.
    Ma soprattutto D’Alema ha registrato la convergenza di due aree, quella legata ad Arturo Parisi con dichiarazioni di esplicito sostegno dell’on. Franco Monaco e dell’ex portavoce di Prodi, Sandra Zampa, che ha difeso Michele Santoro e la sua trasmissione filo-Hamas, all’area che fa capo a Rosy Bindi. Sulle posizioni di D’Alema, tranne Franco Marini, sono molti piddini di provenienza ex popolare più vicini a quei settori della Chiesa cattolica dichiaratamente filopalestinesi.
    Fuori dal Pd D’Alema è stato difeso da Franco Giordano, ex segretario di Rifondazione comunista e dirigente dell’area Vendola, che sta lavorando a un nuovo soggetto politico di sinistra.
    Per la prima volta D’Alema, con le sue posizioni su Gaza e Hamas, cerca anche di conquistare il cosiddetto mondo pacifista sia quello ufficiale, i marciatori di Assisi, sia quello della sinistra più antagonista.

    I futuri naufraghi del Pd si preparano, quindi, a definire il primo campo ideologico al cui interno aggregarsi all’indomani della morte o della scissione dal partito di Veltroni.
    Per la prima volta in Italia nascerà un partito totalmente filo-arabo, da Gheddafi agli ayatollah iraniani, a Hamas, a Hezbollah.
    Nella galassia radical formazioni così ce se sono tante. Il Pdci di Diliberto è una di queste, mentre l’ultimo Bertinotti stava distaccando il suo partito dall’antica ostilità verso Israele.
    Ma non si era mai visto che la componente probabilmente più influente della sinistra rivelasse una così totale sudditanza al mondo arabo.
    Il vecchio Pci era stato filo-arabo ma negli ultimi anni e, soprattutto dopo lo scioglimento, alcuni dirigenti da Occhetto a Fassino, a Veltroni a Napolitano, avevano fatto gesti importanti di apertura verso Israele e le comunità ebraiche.
    Con D’Alema questa politica viene cancellata con un tratto di penna.
    Il partito filo-arabo della sinistra che potrebbe nascere dalle ceneri del Pd potrebbe dar vita anche al primo esperimento di partito parlamentare assai vicino all’antisemitismo di sinistra.
    Nessuno lo proclamerà mai, tutti si affanneranno a sostenere il contrario, ma l’ostilità verso l’autodifesa di Israele, la condanna unilaterale di tutti gli atti politici dello Stato ebraico, la contestazione del ruolo pubblico delle comunità ebraiche italiane rappresenteranno e daranno voce a un humus e a un’intellighenzia che mal sopporta Israele e che fa tutt’uno con qualunque leadership araba.
    Questa svolta politica, malgrado le proclamate simpatie per Obama, sarà fondamentalmente anti-americana e su questo costruirà il proprio asse con le posizioni tardo golliste di Sarkozy.
    Dopo il Pd, e a causa della crisi del Pd, la sinistra precipiterà in un pozzetto di petrolio.

    Peppino Caldarola www.ilgiornale.it 19 01 09

    saluti

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    Predefinito Fini e le moschee

    Roma - "La predicazione nelle moschee deve essere fatta in lingua italiana.
    E più in generale, il Corano deve essere predicato nella lingua del paese in cui il musulmano vive".
    Con questa proposta il presidente della Camera, Gianfranco Fini riapre il dibattito, già fonte di polemiche, sui luoghi di culto islamici In Italia.
    E se la proposta di Fini riceve attacchi da parte del Prc e del Pd e il plauso della Lega, divide le comunità islamiche con il consenso del Centro islamico culturale d’Italia e la critica dell’Unione Comunità islamiche in Italia (Ucoii).

    Fini parla da Abu Dhabi, dove si trova in una visita negli Emirati Arabi si dichiara d’accordo con il principe Bin Zayed il quale, spiega il presidente della Camera, "è fermamente convinto della necessità, in Italia come negli altri Paesi, di una predicazione del Corano nella lingua del paese che ospita il musulmano.
    E ciò perchè, come avviene negli Emirati, non ci sia alcun tipo di predicazione e istigazione all’odio durante un momento che deve essere soltanto religioso".

    Questa notazione, sottolinea il presidente della Camera, "va tenuta presente soprattutto in Italia, vista la superficialità con cui qualche volta da noi si affrontano questioni così complesse".
    Negli Emirati Arabi Uniti esiste un’autorità dello Stato che verifica che le orazioni pronunciate nelle moschee non contengano istigazioni all’odio.
    Una posizione che suscita la reazione polemica del Prc: Paolo Ferrero ricorda che "per poter discutere in che lingua si deve pregare nelle moschee occorre che le moschee in Italia si possano costruire.
    Invece - spiega - siamo in una situazione folle in cui i mussulmani sono sovente obbligati a pregare nei sottoscala e per strada".

    Il segretario del Prc sollecita quindi una legge per la libertà religiosa e in quel contesto - a suo avviso - di deve porre il tema della lingua.
    Secondo il Pd la proposta di Fini è "inefficace".
    "Innanzitutto - spiega Enrico Farinone - perché bisognerebbe controllare periodicamente tutte le moschee poi perchè la lingua dell’Islam è l’arabo e la predicazione obbligatoria in italiano rischierebbe di provocare un senso di rigetto verso il nostro paese". "Per evitare l’istigazione all’odio - dice - la soluzione è una sola: maggiore integrazione".

    Di altro tono la reazione della Lega. Roberto Cota sottolinea "che sia dal cardinal Poletto sia da Fini viene posta l’attenzione su temi che sono stati sviluppati nel dettaglio nella proposta di legge leghista che stabilisce anche le prediche siano fatte nella nostra lingua mentre le moschee non possano essere costruite a meno di un chilometro dalle chiese".

    Dal Pdl Souad Sbai si dichiara felice che Fini abbia fatto sua "una battaglia portata avanti dall’associazione delle donne marocchine in Italia"
    Profondo il dissenso invece dei Radicali soprattutto sulla costruzione delle moschee.
    Silvio Viale sottolinea che "porre veti alla costruzione di moschee, delle quali i minareti sono una componente, significa legittimare le posizioni dei persecutori dei cristiani nel mondo e di ogni persecuzione verso le minoranze religiose".

    Divise le organizzazione islamiche in Italia.
    Per l’Ucoii "i politici non conoscono la realtà".
    "In Italia - spiega Issedin Elzir - già accade che il sermone sia in parte in arabo e in parte in italiano e che occorre una traduzione. Serve più dialogo, dobbiamo conoscerci di più".
    "Se il timore è che in arabo possano essere dette parole di odio, l’odio si può esprimere in tutte le lingue".

    Dal Centro Islamico Mario Scialoja si dichiara invece "totalmente d’accordo con Fini" .
    "Perché - spiega - anche se è vero che la lingua del Corano è l’arabo il sermone del venerdì deve essere fatto in italiano perchè deve diventare la lingua comune di tutti gli immigrati che intendono stabilirsi permanentemente in questo perse".
    La proposta di Fini "è del tutto condivisibile anche per la Comunità religiosa islamica (Coreis) purché non riguardi la preghiera che per i musulmani ha senso solo se recitata in lingua araba".

    la redazione del www.ilgiornale.it 19 01 09

    saluti

  8. #8
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    Predefinito Radicali? No!, questurini

    Non siete d’accordo con una circolare del ministro?
    Avanti, chiamate la Procura.
    Non siete d’accordo con una decisione del Parlamento?
    Che aspettate: rivolgetevi in Questura.
    Codice, megafono e manette: la nuova via dei radicali alla lotta politica è la negazione della politica.

    Un ossimoro militante, che solo chi è abituato a gridare alla clandestinità dai microfoni di una radio sovvenzionata dai contribuenti poteva inventare. Veltroni, naturalmente, ha fatto subito avere il suo appoggio.
    Quando c’è un’idea sbagliata, lui non riesce a mancare.

    Pannella proclama un nuovo sciopero della fame con la solita bulimia di parole. Ma questa non è una novità.
    La novità è che lui, storico avversario dell’invadenza togata, dal referendum sulla giustizia al caso Tortora, si appella alla magistratura, che par di capire ormai considera l’unica risorsa sana di questo Paese.
    Anzi no, di questa «infausta Geenna», per usare le sue parole.
    Veltroni, naturalmente, è pronto a far avere il suo appoggio, non appena gli spiegheranno che la Geenna non è una nuova corrente del Pd.

    Stiamo ai fatti: in pochi giorni i radicali hanno presentato ben due ricorsi alla Procura.
    Il primo contro il provvedimento Sacconi sul caso Englaro, il secondo per il mancato funzionamento della vigilanza Rai.
    E forse ai più (oltre che a Veltroni, naturalmente) è sfuggita la singolarità di un simile gesto e le sue possibili devastanti conseguenze:
    è normale che a dirimere le controversie sulla decisione di un ministro sia chiamato il magistrato penale?
    E se la decisione al pm sembrerà sbagliata, il ministro sarà da condannare?
    E se una commissione parlamentare, per un qualsiasi motivo, non riesce a funzionare bene, dovranno intervenire i carabinieri per farla arrestare?
    Idea piuttosto bislacca, per la verità.
    Anche nella sua possibile applicazione pratica: la giustizia, che già impiega decenni per celebrare un processo e scarcera i mafiosi per la lentezza delle sue procedure, finirebbe inevitabilmente per ingolfarsi di altri milioni di ricorsi. Deputati, consiglieri regionali, provinciali e magari anche circoscrizionali infatti, seguendo il luminoso esempio pannelliano, potrebbero decidere di contestare in tribunale la scelta del loro avversario politico.
    Basta con le interpellanze, addio con le mozioni, a che servono gli emendamenti?
    Una bella denuncia, e il gioco è fatto.
    Parola di radicali, quelli che vogliono depenalizzare le droghe leggere, ma intanto trasformano in reati le circolari ministeriali...

    Ma vi sembra sensato?
    Noi abbiamo sempre pensato che la giustizia penale ipertrofica e onnivora sia uno dei grandi mali di questo Paese.
    E continuiamo a pensarlo.
    Sulla commissione di vigilanza Rai abbiamo fin dall’inizio difeso le buone ragioni di Villari, ma crediamo che queste ragioni debbano trovare una soluzione in Parlamento, non in tribunale.
    E sul caso di Eluana è stato proprio il desiderio della giustizia di sostituirsi alla politica a provocare questa tragedia nella tragedia: hanno usato un pietoso caso umano per scavalcare il Parlamento e introdurre, per via di sentenza, l’eutanasia in Italia.
    Ma l’eutanasia in Italia non c’è. Di qui la crudele impasse di questi giorni.

    Il ministro Sacconi, infatti, nella sua circolare, non ha fatto altro che ricordare alle cliniche convenzionate con lo Stato quali sono i loro doveri, previsti per altro pure dalla convenzione dell’Onu.
    Si può essere d’accordo o no, si possono discutere e contestare questi principi e questi doveri.
    Ma parlare di ricatto e denunciare alla Procura il ministro per «violenza privata», significa, di fatto deporre le armi della politica e sostituirle con i mandati di cattura, dimostrando evidentemente di non avere argomentazioni o per lo meno di aver esaurito la capacità di difenderle.
    Che ci volete fare?
    Una volta si cercava il dibattito, adesso, al massimo, il dibattimento.

    Strano paradosso: i radicali che una volta erano i maestri della lotta politica, ora abdicano e si rifugiano nelle cancellerie dei tribunali.
    Loro, che per anni hanno denunciato gli errori della giustizia penale, adesso si affidano a essa come se fosse la panacea di ogni male.
    Loro, che per anni si sono fatti forte della disobbedienza civile e dell’obiezione di coscienza, adesso diventano i questurini della politica.
    Dicono di voler salvare la democrazia, e invece così la umiliano.
    Qualcuno, ora, glielo spieghi a Veltroni.

    Mario Giordano www.ilgiornale.it 19 01 09

    saluti

 

 

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