Caro Gideon,
negli ultimi anni ero solito telefonarti per complimentarmi per i tuoi articoli e reportage sulle ingiustizie, i soprusi, gli espropri, le angherie e le sopraffazioni commessi nei Territori occupati sia dall’esercito israeliano sia dai coloni. Non ti domandavo come mai non ti recavi anche negli ospedali israeliani per riferire le storie dei civili rimasti coinvolti in attentati terroristici. Accettavo la tua posizione che ci sono abbastanza giornalisti che svolgono questo tipo di lavoro mentre tu ti eri assunto l’impegno di mostrare la sofferenza dell’altra parte, dei nostri nemici di oggi e vicini di domani. Ed è in considerazione di questa stima nei tuoi confronti che ritengo giusto reagire ai tuoi recenti articoli sulla guerra in corso, perché la tua voce possa continuare a serbare l’autorità morale che la contraddistingue.
Quando ti pregai di spiegarmi perché Hamas continuava a spararci addosso anche dopo il nostro ritiro tu rispondesti che lo faceva perché voleva la riapertura dei valichi di frontiera. Ti chiesi allora se ritenevi plausibile che Hamas potesse convincerci adottando un comportamento del genere o se, piuttosto, non avrebbe ottenuto il risultato contrario, e se fosse giusto riaprire le frontiere a chi proclamava apertamente di volerci sterminare. Non ricevetti da te alcuna risposta. I valichi, da allora, sono stati riaperti più volte, e richiusi dopo nuovi lanci di razzi. Sfortunatamente, però, non ti ho mai sentito proclamare con fermezza: adesso, gente di Gaza, dopo aver respinto giustamente l’occupazione israeliana, cessate il fuoco.
Talvolta penso, con rammarico, che forse tu non provi pena per la morte dei bambini di Gaza o di Israele, ma solo per la tua coscienza. Se infatti ti stesse a cuore il loro destino giustificheresti l’attuale operazione militare, intrapresa non per sradicare Hamas da Gaza ma per far capire ai suoi abitanti (e malauguratamente, al momento, è questo l’unico modo per farglielo capire) che è ora di smetterla di sparare razzi su Israele, di immagazzinare armi in vista di una fantomatica e utopica guerra che spazzi via lo Stato ebraico e di mettere in pericolo il futuro dei loro figli in un’impresa assurda e irrealizzabile. Oggi, per la prima volta dopo secoli di dominio ottomano, britannico, egiziano, giordano e israeliano, una parte del popolo palestinese ha ottenuto una prima, e spero non ultima, occasione per esercitare un governo pieno e indipendente su una porzione del suo territorio. Se intraprendesse opere di ricostruzione e di sviluppo sociale, anche secondo i principi della religione islamica, dimostrerebbe al mondo intero, e soprattutto a noi, di essere disposto a vivere in pace con chi lo circonda, libero ma responsabile delle proprie azioni.
ABRHAM B. YEHOSHUA
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