Intervista di Fosco Giannini a Rinascita.
"Adesso unirsi è indispensabile: un partito all'altezza dei tempi"
Rifondazione si è trovata in queste ultime settimane nell’occhio del ciclone per le polemiche attorno a Liberazione. Quali sono i termini veri di quella polemica?
La polemica sul cambio di direttore è stata semplicemente ridicola. Le dimissioni di Sansonetti erano inevitabili per almeno tre ragioni: la caduta enorme di vendite (da 12.000 copie giornaliere, con la direzione di Sansonetti si è scesi oggi sotto le 6.000 copie), l’indebitamento immenso (con la gestione Sansonetti ogni giorno che Liberazione usciva, perdeva 16.000 euro e il partito si è trovato nella necessità di coprire un buco di oltre 3 milioni di euro), la scelta di utilizzare il quotidiano per osteggiare la linea politica decisa dal congresso del partito. Su quest’ultimo punto voglio ricordare che al congresso ha vinto la linea dell’autonomia comunista di Rifondazione, mentre da luglio a gennaio Liberazione ha ogni giorno sostenuto che occorreva andare oltre il Prc: una schizofrenia che nessun gruppo dirigente potrebbe sopportare, in nessun partito.
Inoltre abbiamo assistito a un’accusa violenta da parte dell’area vendoliana a tutta la maggioranza: l’accusa di stalinismo. Io la considero non solo una grandissima balla, ma la ricerca disperata del casus belli, dato che la scissione è stata preparata da tempo. La minoranza non riconosce la legittimità della vittoria congressuale e avversa decisamente il progetto di rilancio dell’autonomia comunista.
In Direzione abbiamo assistito a innumerevoli interventi non argomentati, in un clima surreale.
Il dibattito sembrava incentrato su chi era stalinista, rimuovendo tutti i problemi veri del Prc. Tra l’altro, vorrei ricordare che sullo stalinismo sono ancora attuali le riflessioni di Togliatti, quando affermava che dare tutte le colpe a Stalin, evitando un’analisi generale, rischiava di far credere che nessun altro avesse colpe. E faccio questo riferimento pur essendo convinto che discutere oggi di stalinismo in Rifondazione ha qualcosa di folle oltre che di surreale.
Qual è il tuo giudizio sulla nomina di Dino Greco a direttore di Liberazione?
I compagni dell’Ernesto hanno appoggiato totalmente la scelta di Dino Greco, che per anni ha collaborato con la nostra rivista dando un grande contributo. E’ un rappresentante della sinistra della Cgil, di spessore culturale insolito per un dirigente sindacale. Si è impegnato sui temi della lotta di classe, della centralità del lavoro, dell’immigrazione, contro l’industria bellica. Confidiamo che sappia tenere aperto un dibattito e garantisca un superamento della cialtroneria immessa da Sansonetti in Liberazione.
Nella riunione della vostra Direzione si è sancito l’abbandono del partito da parte di molti
dirigenti vendoliani. Possiamo quindi affermare che la scissione sia esplicitamente in corso?
La scissione è in atto da molto tempo e, come ho detto, la rottura su Liberazione e l’accusa di stalinismo sono stati due tentativi di trvare un casus belli. Ora è possibile che tentino di fare più male possibile al partito, con una scissione a tappe. Prima uscirà un gruppo consistente di dirigenti, poi Bertinotti dichiarerà di non rinnovare la tessera, infine avremo scissioni in una federazione, poi in un’altra, e così via. Insomma, un tentativo di tagliare a fette, progressivamente, il partito. Il gruppo di vendoliani che è rimasto nel partito continuerà la battaglia in sinergia con l’esterno. Non sono autonomi dal progetto degli scissionisti.
Quali prospettive vedi per chi lascia Rifondazione?
Hanno il vantaggio di un grande sostegno da parte dei media, ma il loro progetto è debole. Vedo nei vendoliani una grande difficoltà strategica, tra tentennamenti e divisioni interne alla loro area. Hanno problemi enormi di identità, di profilo teorico e politico.
Citano come riferimento la Linke tedesca, ma in Italia abbiamo tutt’altra storia. Qual è il loro blocco sociale, la loro base materiale di riferimento? A quale filone della tradizione politica italiana appartengono? Dicono di non essere comunisti, né socialdemocratici: ma allora cosa sono? Forse riusciranno a riunirsi con Fava, Belillo e qualche esponente dei Verdi, ma con il rischio di contare poco sul piano elettorale e di prospettiva. Per questo è possibile che subiscano l’attrazione fatale del Pd o di D’Alema, qualora quest’ultimo forzasse i suoi dissensi con la leadership del Partito democratico per creare una nuova formazione “socialista”.
A questo punto diventa più realistico che alle prossime elezioni europee Rifondazione e
Pdci si presentino insieme?
C’è una necessità assoluta di far prevalere l’unità sulla diaspora e ciò prescinde dalla eventuale soglia di sbarramento alle europee. Noi ci batteremo chiaramente dentro Rifondazione per presentarsi alle elezioni con un unico simbolo comunista.
E non si tratta di fare adesso un nuovo partito, non si creano i partiti perché c’è una scadenza elettorale. Tra l’altro, Rifondazione rischia di andare alle europee in una situazione molto difficile, avendo sulle spalle una scissione dolorosissima e pesante che si aggiunge alla sconfitta sonora di aprile: il gruppo dirigente di Rifondazione avrebbe grande difficoltà a spiegare per quale ragione respingere l’afflato unitario del Pdci.
Ecco, la domanda è proprio questa: quali sarebbero, oggi, i motivi per dire no alla riunificazione tra Prc e Pdci?
In parte del gruppo dirigente di Rifondazione c’è un’obiezione fragile, ma che fa breccia in un senso comune diffuso dentro al partito. Secondo quest’obiezione, il Prc avrebbe avviato un grande progetto di innovazione, mentre il Pdci no. Si tratta di un’obiezione fragile perché, dopo dieci anni di separazione, è del tutto evidente che il Prc non può vantare solo innovazione, ma è parte della
contraddizione. Abbiamo saputo creare un proficuo rapporto tra il partito e i movimenti, ma abbiamo anche avviato con Bertinotti una “decomunistizzazione” del partito, con la tesi che il comunismo sarebbe solo una “tendenza culturale”.
Non abbiamo solo innovato, abbiamo anche prodotto elementi di anticomunismo. Insomma, oggi il Prc non è una verginella, anche noi abbiamo delle responsabilità.
Ritengo che il Pdci abbia fatto tanti errori, abbia avuto un’involuzione istituzionalista, pagando dei prezzi in termini di lotta di classe.
Tuttavia non ha mai abbandonato le sue posizioni antiimperialiste, la sua identità comunista, e nell’ultima fase ha corretto fortemente la sua linea, a partire dall’ultimo congresso. Oggi il Pdci mette a disposizione le sue forze per il rilancio del progetto di un partito comunista che riassuma i connotati originari di Rifondazione: si tratta della dialettica tra lotta di classe, azione sociale e ricerca teorica aperta per costruire un partito comunista all’altezza dei tempi. Tra noi le differenze sono inferiori ai problemi provocati dalla divisione dei comunisti.
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Trascrizione dall'ultimo numero di Rinascita(a pag. 9 - testo in pdf)
http://62.149.230.228/rinascita/images/pdf/2009/03_09.pdf