Ci sono voluti quindici anni per cambiare il modello per i contratti di lavoro, sinora fermo all’accordo del ’93. Ministro Maurizio Sacconi, l’Italia ha sempre bisogno di una crisi per fare le riforme?
«L’accordo è un segnale importante in un momento di crisi, un segnale di positività e di responsabilità. Tutte le grandi organizzazioni dell’impresa e del lavoro, con l’unica eccezione della Cgil, hanno condiviso il definitivo passaggio a un diverso sistema di relazioni industriali. Nel Paese che ha avuto il più grande partito comunista d’Europa, e un sindacato che era sua emanazione, era inevitabile che le relazioni industriali fossero improntate a logiche conflittuali, almeno nelle imprese medio-grandi. C’era però un secondo mercato, quello della piccola impresa, dove vigeva già un regime di intensa collaborazione che si rifletteva sui salari, o nella parte di salario che veniva corrisposta sotto il banco. Oggi tutto il sistema tende ad essere collaborativo, e noi l’abbiamo aiutato».

In che modo?
«Con la detassazione dei salari di produttività di operai e impiegati fino a un reddito di 35 mila euro, il sistema si rivolge naturalmente a condividere obiettivi e risultati.
Non è poca cosa per incoraggiare la crescita dell’economia.
Nel nostro sistema, finora rattrappito, ora si inseriscono rapporti più fluidi, costruttivi. Ecco perché non è esagerato parlare di un risultato rivoluzionario: siamo usciti dal vincolo ideologico, pagato dai lavoratori con il vecchio contratto unico, piatto, uguale per tutti e perciò tarato sulle imprese più lente. Adesso il salario esprime il contributo del lavoratore, riflette i risultati, l’aumento di produttività».

È fatale, ora, parlare della Cgil. Come spiega il persistere di Epifani nella strategia del no?
«La Cgil non è nuova alla posizione di oggi. Ha detto no alla modernizzazione anche quando era stato D’Alema a suggerirla. Di un collegamento fra salari e produttività si parla dal ’97, quando la commissione Giugni certificò che il modello del ’93 era diventato vecchio, e fin da allora la Cgil è sempre stata indisponibile a modificarlo.
Noi, come governo, abbiamo semplicemente sollecitato le parti ad andare avanti, non ci siamo fermati di fronte al veto. È un facile paragone quello con l’accordo di San Valentino dell’84 sulla scala mobile.
Anche allora c’era una crisi economica, e quell’intesa, che vide contraria la Cgil, consentì all’Italia un decennio di grande crescita».

Emma Marcegaglia dice che il tavolo resta aperto: se la Cgil vuole, può firmare in ogni momento.
«La regola del vitello grasso e del figliol prodigo vale sempre».

E il negoziato con le Regioni sugli ammortizzatori sociali?
«Abbiamo sollecitato le Regioni a una forte coesione nazionale, ricordando che solo la collaborazione può alimentare il circuito della fiducia. Abbiamo proposto di filtrare a livello locale ogni proposta di ricorso agli ammortizzatori sociali, offrendo loro di prendersi in carico anche le risorse dello Stato e di utilizzarle sul territorio, insieme con i fondi europei. Ora si apre un tavolo tecnico, e sono fiducioso che si troverà l’intesa».

Le imprese sono d’accordo?
«Sì, condividono questo aspetto. Certo, chiedono di più in termini di spesa pubblica, ma il governo ha una priorità diversa: vogliamo che le risorse stanziate siano spese per davvero, superando i colli di bottiglia che rallentano l’impiego effettivo delle risorse».

Perché banche e assicurazioni non hanno firmato?
«Probabilmente qualche grande banca sta facendo una resistenza opportunistica, preoccupata dei suoi buoni rapporti con la Cgil.
Alla fine, Abi e Ania comunque firmeranno».

G.B.Bozzo www.ilgiornale.it 24 1 09

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