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  1. #1
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    Predefinito A proposito della Riforma Liturgica del 1970

    "La prima volta che ho sentito la Messa in francese, ho avuto difficoltà a
    credere che si trattasse di una Messa Cattolica. Soltanto la Consacrazione mi ha
    tranquillizato, malgrado fosse, parola per parola, simile alla consacrazione
    anglicana...Perchè mai ci siamo convertiti?" (Julien Green sulla Riforma del
    1970)
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  2. #2
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    Predefinito Rif: A proposito della Riforma Liturgica del 1970

    Julien Green, anglicano convertito, nella sua opera "Ce qu'il faut d'amour à l'homme" p.135, da la sua testimonianza: "La prima volta che ho sentito la Messa in francese, ho avuto difficoltà a credere che si trattasse di una Messa Cattolica. Soltanto la Consacrazione mi ha tranquillizato, malgrado fosse, parola per parola, simile alla consacrazione anglicana".
    Nello stesso libro, l'Autore racconta l'impressione che lui e sua sorella hanno avuto davanti a una Messa teletrasmessa: è sembrata loro un'imitazione grottesca dell'ufficio anglicano. Alla fine, egli ha domandato a sua sorella: "Perché mai ci siamo convertiti?" (op.cit., p.138).
    "Uno dei frutti del nuovo "Ordo" sarà forse che le comunità non cattoliche potranno celebrare la santa cena con le stesse preghiere della Chiesa cattolica. Teologicamente è possibile" (Max Thurian, della Comunità protestante di Taizè:"La Croix", 30.5.1969).
    "Il movimento liturgico di ambito universale, che ha luogo attualmente nella Chiesa Romana, costituisce uno sforzo tardivo per promuovere una partecipazione attiva e intelligente del laicato alla Messa, in modo che i fedeli si possano giudicare "celebranti" con il sacerdote" (Luther D. Reed, The lutheran liturgy, p.234).
    "Adesso, nella Messa rinnovata, non c'è niente che possa veramente turbare il cristiano evangelico" (Siegevalt, Professore di Dogmatica nella Facoltà protestante di Straburgo. "Le Monde", 22.11.1969).
    "Le nuove preghiere eucaristiche cattoliche hanno abbandonato la falsa prospettiva di un sacrifìcio offerto a Dio" ("La Croix", 10.12.1969; sono parole che Jean Guitton ha detto di aver letto in una rivista protestante molto apprezzata)
    "Se si prende in considerazione l'evoluzione decisiva della liturgia eucaristica cattolica, la possibilità di sostituire il canone delle Messa con altre preghiere liturgiche, l'allontanamento dall'idea secondo la quale la Messa sarebbe un sacrificio, la possibilità di comunicare sotto le due specie, non ci sono più ragioni per le chiese della Riforma di proibire ai loro fedeli di prendere parte all'Eucaristia della Chiesa Romana" (Roger Mehl, protestante, in "Le Monde", 10.9.1970).
    "Date le forme attuali della celebrazione eucaristica nella Chiesa Cattolica e in ragione delle convergenze teologiche presenti, molti ostacoli che avrebbero potuto impedire ad un protestante di partecipare alla sua celebrazione eucaristica sembrano essere in via di scomparire. Dovrebbe essere possibile, oggi, a un protestante, riconoscere nella celebrazione eucaristica cattolica la cena istituita dal Signore(...). Noi ci atteniamo all'utilizzazione delle nuove preghiere eucaristiche nelle quali noi ci ritroviamo e che hanno il vantaggio di sfumare la teologia del sacrifìcio che avevamo l'abitudine di attribuire al cattolicesimo. Queste preghiere ci invitano a trovare una teologia evangelica del sacrifìcio". (Brano tratto da un documento emanato dal Concistoro superiore della Confessione di Augsbubrg e della Lorena, dell'8.12.1973, pubblicato in "L'Eglise en Alsace", numero di gennaio 1974).
    "La maggior parte delle riforme desiderate da Lutero, esistono d'ora innanzi nell'interno stesso della Chiesa Cattolica''(...). "Perché non riunirsi?" (Seppo A. Teinonen, teologo luterano, professore di Dogmatica nell'Università di Helsinki, giornale "La Croix" del 15.5.1972).
    Ultima modifica di robdealb91; 19-05-10 alle 11:35
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  3. #3
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    Predefinito Rif: A proposito della Riforma Liturgica del 1970

    E’ da tempo che desideravo scrivervi, illustri assassini della nostra santa Liturgia. Non già perch’io speri che le mie parole possano avere un qualche effetto su di voi, da troppo tempo caduti negli artigli di Satana e divenuti suoi obbedientissimi servi, ma affinché tutti coloro che soffrono per gli innumerevoli delitti da voi commessi possano ritrovare la loro voce. Non illudetevi, signori. Le piaghe atroci che voi avete aperto nel corpo della Chiesa gridano vendetta al cospetto di Dio, giusto Vendicatore.
    Il vostro piano di sovversione della Chiesa, attraverso la liturgia, è antichissimo. Ne tentarono la realizzazione tanti vostri predecessori, molto più intelligenti di voi, che il Padre delle Tenebre ha già accolto nel suo regno. Ed io ricordo il vostro livore, il vostro ghigno beffardo, quando auguravate la morte, una quindicina d’anni fa, a quel grandissimo Pontefice che fu il servo di Dio Eugenio Pacelli, poiché questi aveva compreso i vostri disegni e vi si era opposto con l’autorità del Triregno. Dopo quel famoso convegno di “liturgia pastorale”, sul quale erano cadute come una spada le chiarissime parole di Papa Pio XII, voi lasciaste la mistica Assisi schiumando rabbia e veleno.
    Ora ci siete riusciti. Per adesso, almeno. Avete creato il vostro “capolavoro”: la nuova liturgia. Che questa non sia opera di Dio è dimostrato innanzitutto (prescindendo dalle implicazioni dogmatiche) da un fatto molto semplice: è di una bruttezza spaventosa. E’ il culto dell’ambiguità e dell’equivoco, non di rado il culto dell’indecenza. Basterebbe questo per capire che il vostro “capolavoro” non proviene da Dio, fonte d’ogni bellezza, ma dall’antico sfregiatore delle opere di Dio.
    Si, avete tolto ai fedeli cattolici le emozioni più pure, derivanti dalle cose sublimi di cui s’è sostanziata la liturgia per millenni: la bellezza delle parole, dei gesti, delle musiche. Cosa ci avete dato in cambio? Un campionario di brutture, di “traduzioni” grottesche (com’è noto, il vostro padre, che sta laggiù non possiede il senso dell’umorismo), di emozioni gastriche suscitate dai miagolii delle chitarre elettriche, di gesti ed atteggiamenti a dir poco equivoci.
    Ma, se non bastasse, c’è un altro segno che dimora come il vostro “capolavoro” non viene da Dio. E sono gli strumenti di cui vi siete serviti per realizzarlo: la frode e la menzogna. Siete riusciti a far credere che un Concilio avesse decretato la disparizione della lingua latina, l’archiviazione del patrimonio del patrimonio della musica sacra, l’abolizione del tabernacolo, il capovolgimento degli altari, il divieto di piegare le ginocchia dinanzi a Nostro Signore presente nell’Eucaristia, e tutte le altre vostre progressive tappe, facenti parte (direbbero i giuristi) di un “unico disegno criminoso”.
    Voi sapevate benissimo che la “lex orandi” è anche la “lex credendi”, e che perciò mutando l’una, avreste mutato l’altra. Voi sapete che, puntando le vostre lancie avvelenate contro la lingua viva della Chiesa, avreste praticamente ucciso l’unità delle fede. Voi sapevate che, decretando l’atto di morte del canto gregoriano della polifonia sacra, avreste potute introdurre a vostro piacimento tutte le indecenze pseudomusicali che dissacrarono il culto divino e gettano un’ombra equivoca sulle celebrazioni liturgiche. Voi sapevate che, distruggendo tabernacoli, sostituendo gli altari con le “tavole per la refezione eucaristica”, negando al fedele di piegare le ginocchia davanti al Figlio di Dio, in breve avreste estinto la fede nella reale presenza divina. Avete lavorato ad occhi aperti. Vi siete accaniti contro un monumento, al quale avevan posto mano cielo e terra, perché sapevate di distruggere con esso la Chiesa. Siete giunti a portarci via la Santa Messa, strappando addirittura il cuore della liturgia cattolica. (Quella S.Messa in vista della quale noi fumo ordinati sacerdoti, e che nessuno al mondo ci potrà mai proibire, perché nessuno può calpestare il diritto naturale).
    Lo so, ora potrete ridere per quanto sto per dire. E ridete pure. Siete giunti a togliere dalle Litanie dei santi l’invocazione “a flagello terremotus, libera nos Domine”, e mai come ora a terra ha tremato ad ogni latitudine. Avete tolto l’invocazione “a spititu fornicationis, libera nos Domine”, e mai come ora siamo coperti dal fango dell’immoralità e della pornografia nelle sue forme più repellenti e degradanti. Avete abolito l’invocazione “ut inimicos sanctae Ecclesiae umiliare digneris”, e mai come ora i nemici della Chiesa prosperano in tutte le istituzioni ecclesiastiche, ad ogni livello.
    Ridete, ridete. Le vostre risate sono sguaiate e senza gioia. Certo è che nessuno di voi conosce, come noi conosciamo, le lacrime della gioia e del dolore. Voi non siete neppure capaci di piangere. I vostri occhi bovini, palle di vetro o di metallo che siano, guardano le cose senza vederle. Siete simili alle mucche che guardano il treno. A voi preferisco il ladro che strappa la catenina d’oro al fanciullo, preferisco lo scippatore, preferisco il rapinatore con le armi in pugno, preferisco persino il bruto e il violatore di tombe. Gente molto meno sporca di voi, che AVETE RAPINATO IL POPOLO DI DIO DI TUTTI I SUOI TESORI.
    In attesa che il vostro padre che sta laggiù accolga anche voi nel suo regno, “laddove è pianto e stridor di denti”, voglio che voi sappiate della nostra incrollabile certezza che quei tesori CI SARANNO RESTITUITI. E sarà una “restitutio in integrum”. Voi avete dimenticato che Satana è l’eterno sconfitto.
    (Mgr. Domenico Celada, articolo apparso su "Vigilia Romana" nel novembre 1971)
    Ultima modifica di robdealb91; 19-05-10 alle 11:35
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  4. #4
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    Predefinito Rif: A proposito della Riforma Liturgica del 1970

    “dove sia necessario, essi siano riveduti con cautela nell’integrità e nello spirito della sana tradizione”
    “non vi deve essere alcuna innovazione a meno che non lo richieda il vero e accertato bene della Chiesa”
    “occorre aver cura che ogni nuova forma [liturgica] adottata cresca in qualche modo organicamente dalle forme già esistenti”
    “Tuttavia occorre fare in modo che i fedeli siano in grado di rispondere o cantare le parti dell’ordinario della Messa che pertengono a loro”
    “L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini. Dato però che, sia nella messa che nell'amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l'uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme esposte nei capitoli seguenti per i singoli casi”
    “Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell'ufficio divino la lingua latina. L'ordinario tuttavia potrà concedere l'uso della versione in lingua nazionale [..] in casi singoli, a quei chierici per i quali l'uso della lingua latina costituisce un grave impedimento alla recita dell'ufficio nel modo dovuto”
    “La tradizione musicale della Chiesa universale è un tesoro di inestimabile valore, più grande persino di quello di ogni altra arte”
    “come sacro canto unito alle parole, essa forma una parte necessaria o integrale della solenne liturgia”
    “il tesoro della musica sacra dev’essere preservato e incrementato con grande cura”
    “La Chiesa riconosce che il canto gregoriano è particolarmente adatto alla liturgia romana. Pertanto, a parità di condizione, ad esso deve riconoscersi il primo posto nei servizi liturgici”
    “Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l'organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti”
    “assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica”
    (Costituzione Conciliare Sacrosanctum Concilium)
    Ultima modifica di robdealb91; 19-05-10 alle 11:35
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  5. #5
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    Predefinito Rif: A proposito della Riforma Liturgica del 1970

    “abbiamo deciso, con opportune norme, enunciate in questo documento, di fare in modo che l'antica e mai interrotta consuetudine della lingua latina sia conservata e, se in qualche caso sia andata in disuso, sia completamente ripristinata [..] I medesimi Vescovi e Superiori Generali degli Ordini religiosi, mossi da paterna sollecitudine, vigileranno... Magis videre affinché nessuno dei loro soggetti, smanioso di novità, scriva contro l’uso della lingua latina nell’insegnamento delle sacre discipline e nei sacri riti della Liturgia e, con opinioni preconcette, si permetta di estenuare la volontà della Sede Apostolica in materia e di interpretarla erroneamente”
    (Costituzione Apostolica Veterum Sapientia)
    “Assistetti alla Messa a S. Severino. Presi freddo e mi nocque. Musica assai migliorata ma la Messa face au peuple [=verso il popolo] una contraddizione grave alle leggi liturgiche. Tutto il Canone pronunciato a voce alta e non in secreto come prescrive il Messale […]Oh! Che pena con queste teste ardenti e un po’ bislacche”
    (Angelo Giuseppe Roncalli, futuro Giovanni XXIII, mentre era nunzio a Parigi)
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  6. #6
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    Predefinito Rif: A proposito della Riforma Liturgica del 1970

    “da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. C’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto. [..] Anche nella Chiesa regna questo stato di incertezza. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza. [..] Crediamo in qualcosa di preternaturale venuto nel mondo proprio per turbare, per soffocare i frutti del Concilio Ecumenico, e per impedire che la Chiesa prorompesse nell’inno della gioia di aver riavuto in pienezza la coscienza di sé” (omelia di Paolo VI del 29-6-72)
    “C'è un grande turbamento in questo momento nel mondo e nella Chiesa, e ciò che è in questione è la fede. Capita ora che mi ripeta la frase oscura di Gesù nel Vangelo di san Luca: Quando il Figlio dell'Uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra? Capita che escano dei libri in cui la fede è in ritirata su punti importanti, che gli episcopati tacciano, che non si trovino strani questi libri” (dichiarazione di Paolo VI, secondo Jean Guitton)
    Ultima modifica di robdealb91; 19-05-10 alle 11:36
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  7. #7
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    Predefinito Rif: A proposito della Riforma Liturgica del 1970

    «La cultura europea dà l'impressione di una "apostasia silenziosa" da parte dell'uomo sazio che vive come se Dio non esistesse»
    “la partecipazione attiva non preclude la attiva passività del silenzio, della compostezza e dell’ascolto: anzi, la richiede perfino. I fedeli non sono passivi, ad esempio, quando ascoltano le letture o l’omelia, o seguono le preghiere del celebrante e i canti e la musica della liturgia. Queste sono esperienze di silenzio e di immobilità, ma sono nel loro modo profondamente attive”
    (Giovanni Paolo II)
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  8. #8
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    Predefinito Rif: A proposito della Riforma Liturgica del 1970

    “...Il risultato non è stata una rianimazione ma una devastazione. Da un canto, abbiamo una liturgia degenerata in “show”, nella quale si cerca di rendere la religione interessante con l’aiuto di idiozie alla moda...”
    “... è importante che venga meno l'atteggiamento di sufficienza per la forma liturgica in vigore fino al 1970...”
    “...in generale, ritengo che la riforma liturgica non sia stata applicata bene...”
    “... una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche...”
    “... Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso...”
    “... l’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica...”
    “...lo posso dire con sicurezza, basata sulla mia conoscenza dei dibattiti conciliari e sulla reiterata lettura dei discorsi fatti dai padri conciliari, che ciò non corrispose alle intenzioni del Concilio Vaticano II...”
    “... la scomparsa della lingua latina e l'altare orientato verso il popolo. Chi legge i testi conciliari potrà constatare con stupore che né l'una né l'altra cosa si trovano in essi...”
    “...l'aspetto "pastorale" è divenuto il varco per l'irruzione della "creatività", la quale dissolve l'unità della liturgia e ci mette spesso di fronte a una deplorevole banalità...”
    “... Una comunità mette in questione se stessa, quando considera improvvisamente proibito quello che fino a poco tempo prima le appariva sacro e quando ne fa sentire riprovevole il desiderio. Perché le si dovrebbe credere ancora? Non vieterà forse domani, ciò che oggi prescrive?...”
    “...Lei mi chiede di attivarmi per una più ampia disponibilità del rito romano antico. In effetti, lei sa da sé che non sono sordo a tale richiesta. Nel contempo, il mio lavoro a favore di questa causa è ben noto...”
    “... ci si deve opporre, più decisamente di quanto sia stato fatto finora, all’appiattimento razionalistico, ai discorsi approssimativi, all’infantilismo pastorale che degradano la liturgia cattolica al rango di circolo di villaggio e la vogliono abbassare a un livello fumettistico...”
    “... ma i brividi che incute la liturgia postconciliare, fattasi opaca, o semplicemente la noia che essa provoca con il suo gusto per il banale e con la sua mediocrità artistica...”
    “Il Concilio non ha, per se stesso, riformato (nel senso di inventare) i libri liturgici, ma ha disposto la loro revisione, e a tal fine ha dato alcune norme fondamentali. Prima di ogni altra cosa, il Concilio ha dato una definizione di cosa sia la liturgia, e tale definizione costituisce il termine di paragone per ogni celebrazione liturgica. Dove si scansano tali norme e si mettono da parte le normae generales che si trovano ai numeri 34 - 36 della Constitutio De Sacra Liturgia (Sacrosanctum Concilium), in tal caso certamente ci si rende colpevoli di disobbedienza al Concilio!”
    “la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia”
    (Joseph Ratzinger, ora Benedetto XVI, in vari libri e interviste)
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  9. #9
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    Predefinito Rif: A proposito della Riforma Liturgica del 1970

    Rode, esistono entrambi i Riti, sia la F.O. che la F.S. sono validi agli occhi della Chiesa Cattolica alla quale apparteniamo.
    Chi siamo noi per mettere in dubbio quello che decide la Chiesa?
    E' inutile tirare fuori le solite diatribe tra modernisti e tradizionalisti che non portano a nulla.
    --
    “Don Giussani è stato ‘profeta’ dell’insopprimibile anelito dell’incontro con Dio per l’uomo del nostro tempo"Card. Angelo Bagnasco

  10. #10
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    Predefinito Rif: A proposito della Riforma Liturgica del 1970

    Breve esame critico del «Novus Ordo Missæ»

    Presentato al Pontefice Paolo VI dai Cardinali Ottaviani e Bacci


    Lettera di presentazione a Paolo VI

    Beatissimo Padre,
    esaminato e fatto esaminare il Novus Ordo preparato dagli esperti del Consilium ad exquendam Constitutionem de Sacra Liturgia, dopo una lunga riflessione e preghiera sentiamo il dovere, dinanzi a Dio ed alla Santità Vostra, di esprimere le considerazioni seguenti:

    1) Come dimostra sufficientemente il pur breve esame critico allegato - opera di uno scelto gruppo di teologi, liturgisti e pastori d’anime - il Novu Ordo Missæ, considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i «canoni» del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero.

    2) La ragioni pastorali addotte a sostegno di tale gravissima frattura - anche se di fronte alle ragioni dottrinali avessero diritto di sussistere - non appaiono sufficienti. Quanto di nuovo appare nel Novus Ordo Missæ e, per contro, quanto di perenne vi trova soltanto un posto minore o diverso, se pure ancora ve lo trova, potrebbe dar forza di certezza al dubbio - già serpeggiante purtroppo in numerosi ambienti - che verità sempre credute dal popolo cristiano possano mutarsi o tacersi senza infedeltà al sacro deposito dottrinale cui la fede cattolica è vincolata in eterno. Le recenti riforme hanno dimostrato a sufficienza che nuovi mutamenti nella liturgia non porterebbero se non al totale disorientamento dei fedeli che già danno segni di insofferenza e di inequivocabile diminuzione di fede. Nella parte migliore del Clero ciò si concreta in una torturante crisi di coscienza di cui abbiamo innumerevoli e quotidiane testimonianze.

    3) Siamo certi che questa considerazioni, che possono giungere soltanto dalla viva voce dei pastori e del gregge, non potranno non trovare un’eco nel cuore paterno di Vostra Santità, sempre cosí profondamente sollecito dei bisogni spirituali dei figli della Chiesa. Sempre i sudditi, al cui bene è intesa una legge, laddove questa si dimostri viceversa nociva, hanno avuto, piú che il diritto, il dovere di chiedere con filiale fiducia al legislatore l’abrogazione della legge stessa.

    Supplichiamo perciò istantemente la Santità Vostra di non volerci togliere - in un momento di cosí dolorose lacerazioni e di sempre maggiori pericoli per la purezza della Fede e l’unità della Chiesa, che trovano eco quotidiana e dolente nella voce del Padre comune - la possibilità di continuare a ricorrere alla integrità feconda di quel Missale Romanum di San Pio V dalla Santità Vostra cosí altamente lodato e dall’intero mondo cattolico cosí profondamente venerato ed amato.

    A. Card. Ottaviani
    A. Card. Bacci


    BREVE ESAME CRITICO DEL «NOVUS ORDO MISSÆ»


    I

    Nell'ottobre del 1967, al Sinodo Episcopale, convocato a Roma, fu chiesto un giudizio sulla celebrazione sperimentale di una cosiddetta «messa normativa», ideata dal Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia.
    Tale messa suscitò le piú gravi perplessità tra i presenti al Sinodo, con una forte opposizione (43 non placet), moltissime e sostanziali riserve (62 juxta modum) e 4 astensioni, su 187 votanti. La stampa internazionale di informazione parlò di «rifiuto», da parte del Sinodo, della messa proposta. Quella di tendenze innovatrici ne tacque. E un noto periodico, destinato ai Vescovi ed espressione del loro insegnamento, cosí sintetizzò il nuovo rito:

    «[vi] si vuol fare tabula rasa di tutta la teologia della Messa. In sostanza ci si avvicina alla teologia protestante che ha distrutto il sacrificio della Messa».
    Nel Novus Ordo Missæ, testé promulgato dalla Costituzione Apostolica Missale romanum, ritroviamo purtroppo, identica nella sua sostanza, la stessa «messa normativa». Né sembra che le Conferenze Episcopali, almeno in quanto tali, siano mai state nel frattempo interpellate al riguardo.
    Nella Costituzione Apostolica si afferma che l'antico messale, promulgato da S. Pio V il 19 luglio 1570 ma risalente in gran parte a Gregorio Magno e ad ancor piú remota antichità (1) fu per quattro secoli la norma della celebrazione del Sacrificio per i sacerdoti di rito latino, e, portato in ogni terra, «innumeri præterea sanctissimi viri animorum suorum erga Deum pietatem, haustis ex eo... copiosus aluerunt». E tuttavia questa riforma, che lo pone definitivamente fuori uso, si sarebbe resa necessaria «ex quo tempore latius in christiana plebe increbescere et invalescere cœpit sacræ fovendæ liturgiæ studium».
    Ci sembra evidente, in questa affermazione, un grave equivoco. Perché il desiderio del popolo, se fu espresso, lo fu quando - soprattutto per merito del grande S. Pio X - esso cominciò a scoprire gli autentici ed eterni tesori della sua liturgia. Il popolo non chiese assolutamente mai, onde meglio comprenderla, una liturgia mutata o mutilata. Chiese di meglio comprendere una liturgia immutabile e che mai avrebbe voluto si mutasse.

    Il Messale Romano di San Pio V era religiosamente venerato e carissimo al cuore dei cattolici, sacerdoti e laici. Non si vede in che cosa l'uso di esso, con l'opportuna catechesi, potesse impedire una piú piena partecipazione e una maggiore conoscenza della sacra liturgia e perché, con tanti eccelsi pregi che gli sono riconosciuti, non lo si sia stimato degno di continuare a nutrire la pietà liturgica del popolo cristiano.

    Sostanzialmente rifiutata dal Sinodo Episcopale, quella stessa «messa normativa» oggi si ripresenta e si impone come Novus Ordo Missæ; il quale non è stato mai sottoposto al giudizio collegiale delle Conferenze; né è stata mai voluta dal popolo (e men che meno nelle missioni) una qualsiasi riforma della Santa Messa. Non si riesce dunque a comprendere i motivi della nuova legislazione, che sovverte una tradizione immutata nella Chiesa dal IV-V secolo, come la stessa Costituzione Missale Romanum riconosce. Non sussistendo dunque i motivi per appoggiare questa riforma, la riforma stessa appare priva di un fondamento razionale, che, giustificandola, la renda accettabile al popolo cattolico.

    Il Concilio aveva espresso bensí, con il par. 50 della Costituzione Sacrosanctum Concilium, il desiderio che le varie parti della Messa fossero riordinate, «ut singularum partium propria ratio necnon mutua connexio clarius pateant». Vedremo subito come l'Ordo testé promulgato risponda a questi auspici, dei quali possiamo dire non resti, nel risultato, neppure la memoria.
    Un esame particolareggiato del Novus Ordo rivela mutamenti di portata tale da giustificare per esso lo stesso giudizio dato per la «messa normativa». Quello, come questa, è tale da contentare, in molti punti, i protestanti piú modernisti.





    II

    Cominciamo dalla definizione di Messa che si presenta al par. 7, vale a dire in apertura al secondo capitolo del Novus Ordo: «De structura Missæ».

    «Cena dominica sive Missa est sacra synaxis seu congregatio populi Dei in unum convenientis, sacerdote præside, ad memoriale Domini celebrandum(2). Quare de sanctæ ecclesiæ locali congregatione eminenter valet promissio Christi “Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum” (Mt. 18, 20)».
    La definizione di Messa è dunque limitata a quella di «cena», il che è poi continuamente ripetuto (n. 8, 48, 55d, 56); tale «cena» è inoltre caratterizzata dalla assemblea, presieduta dal sacerdote, e dal compiersi il memoriale del Signore, ricordando quel che Egli fece il Giovedí Santo.
    Tutto ciò non implica: né la Presenza Reale, né la realtà del Sacrificio, né la sacramentalità del sacerdote consacrante, né il valore intrinseco del Sacrificio eucaristico indipendentemente dalla presenza dell'assemblea (3). Non implica, in una parola, nessuno dei valori dogmatici essenziali della Messa e che ne costituiscono pertanto la vera definizione. Qui l'omissione volontaria equivale al loro «superamento», quindi, almeno in pratica, alla loro negazione (4).
    Nella seconda parte dello stesso paragrafo si afferma - aggravando il già gravissimo equivoco - che vale «eminenter» per questa assemblea la promessa del Cristo: «Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum» (Mt. 18, 20). Tale promessa, che riguarda soltanto la presenza spirituale del Cristo con la sua grazia, viene posta sullo stesso piano qualitativo, salvo la maggiore intensità, di quello sostanziale e fisico della presenza sacramentale eucaristica.
    Segue immediatamente (n. 8) una suddivisione della Messa in liturgia della parola e liturgia eucaristica, con l'affermazione che nella Messa è preparata la mensa della parola di Dio come del Corpo di Cristo, affinché i fedeli «instituantur et reficiantur»: assimilazione paritetica del tutto illegittima delle due parti della liturgia, quasi tra due segni di eguale valore simbolico, sulla quale torneremo piú tardi.

    Di denominazioni della Messa ve ne sono innumerevoli: tutte accettabili relativamente, tutte da respingere se usate, come lo sono, separatamente e in assoluto. Ne citiamo alcune: Actio Christi et populi Dei, Cena dominica sive Missa, Convivium Paschale, Communis participatio mensæ Domini, Memoriale Domini, Precatio Eucharistica, Liturgia verbi et liturgia eucharistica, ecc.
    Come è fin troppo evidente, l'accento è posto ossessivamente sulla cena e sul memoriale anziché sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario. Anche la formula «Memoriale Passionis et Resurrectionis Domini» è inesatta, essendo la Messa il memoriale del solo Sacrificio, che è redentivo in sé stesso, mentre la Resurrezione ne è il frutto conseguente(5). Vedremo piú avanti con quale coerenza, nella stessa formula consacratoria e in generale in tutto il Novus Ordo, tali equivoci siano rinnovati e ribaditi.





    III

    E veniamo alle finalità della Messa.

    1) Finalità ultima.
    È il sacrificio di lode alla Santissima Trinità, secondo l'esplicita dichiarazione di Cristo nella intenzione primordiale della sua stessa Incarnazione: «Ingrediens mundum dicit: “Hostiam et oblationem noluisti: corpus autem aptasti mihi”» (Ps. XL, 7-9, in: Hebr. 10, 5).
    Questa finalità è scomparsa:

    - dall'Offertorio, con la preghiera Suscipe, Sancta Trinitas,
    - dalla conclusione della Messa con il placeat tibi, Sancta Trinitas,
    - e dal Prefazio, che nel ciclo domenicale non sara piú quello della Santissima Trinità, riservato ora alla sola
    festa e che quindi sarà pronunziato una sola volta l'anno.
    2) Finalità ordinaria.
    È il Sacrificio propiziatorio. Anch'essa è deviata, perché anziché mettere l'accento sulla remissione dei peccati dei vivi e dei morti lo si mette sulla nutrizione e santificazione dei presenti (n. 54). Certo Cristo istituí il Sacramento nell'ultima Cena e si pose in stato di vittima per unirci al suo stato vittimale; questo però precede la manducazione e ha un antecedente e pieno valore redentivo, applicativo della immolazione cruenta, tanto è vero che il popolo assistendo alla Messa non è tenuto a comunicarsi sacramentalmente (6).
    3) Finalità immanente.
    Qualunque sia la natura del sacrificio è essenziale che sia gradito a Dio e da lui accettabile ed accettato. Nello stato di peccato originale nessun sacrificio avrebbe diritto di essere accettabile. Il solo sacrificio che ha diritto di essere accettato è quello di Cristo. Nel Novus Ordo si snatura l'offerta in una specie di scambio di doni tra l'uomo e Dio; l'uomo porta il pane e Dio lo cambia in «pane di vita»; l'uomo porta il vino e Dio lo cambia in «bevanda spirituale»: «Benedictus es, Domine, Deus universi, quia de tua largitate accepimus panem (o: vinum) quem tibi offerimus, fructum terræ (o: vitis) et manuum hominum, ex quo nobis fiet panis vitæ (o: potus spiritualis)» (7).
    Superfluo notare l'assoluta indeterminatezza delle due formule «panis vitæ» e «potus spiritualis», che possono significare qualunque cosa. Ritroviamo qui l'identico e capitale equivoco della definizione della Messa: là il Cristo presente solo spiritualmente tra i suoi; qui pane e vino «spiritualmente» (e non sostanzialmente) mutati (8).
    Nella preparazione dell'offerta, un consimile gioco di equivoci è attuato con la soppressione delle due stupende preghiere. Il «Deus, qui humanæ substantiæ dignitatem mirabiliter condidisti et mirabilius reformasti», era un richiamo all'antica condizione di innocenza dell'uomo e alla sua attuale condizione di riscattato dal sangue di Cristo: ricapitolazione discreta e rapida di tutta l'economia del Sacrificio, da Adamo all'attimo presente. La finale offerta propiziatoria del calice, affinché ascendesse «cum odore suavitatis» al cospetto della maestà divina, di cui si implorava la clemenza, ribadiva mirabilmente questa economia. Sopprimendo il continuo riferimento a Dio della prece eucaristica, non vi è piú distinzione alcuna tra sacrificio divino e umano.

    Eliminando la chiave di volta bisogna costruire delle impalcature; sopprimendo le finalità reali se ne devono inventare di fittizie. Ed ecco i gesti che dovrebbero sottolineare l'unione tra sacerdote e fedeli, tra fedeli e fedeli; ecco la sovrapposizione, che immediatamente crollerà nel ridicolo, delle offerte per i poveri e per la chiesa all'offerta dell'Ostia da immolare. L'unicità primordiale di questa verrà del tutto obliterata: la partecipazione all'immolazione della Vittima diverrà una riunione di filantropi e un banchetto di beneficenza.




    IV

    Passiamo all'essenza del Sacrificio.

    Il mistero della Croce non vi è piú espresso esplicitamente, ma in modo oscuro, velato, impercepibile dal popolo (9). Eccone le ragioni:

    1) Il senso dato nel Novus Ordo alla cosiddetta «Prex eucharistica» è: «ut tota congregatio fidelium se cum Christo coniungat in confessione magnalium Dei et in oblatione sacrificii». (n. 54, fine).
    Di quale sacrificio si tratta? Chi è l'offerente? Nessuna risposta a questi interrogativi.
    La definizione in limine della «Prex eucharistica» è questa: «Nunc centrum et culmen totius celebrationis initium habet, ipsa nempe Prex eucharistica, prex scilicet gratiarum actionis et sanctificationis» (n. 54, pr.).
    Gli effetti sono dunque sostituiti alle cause, di cui non si dice una sola parola. La menzione esplicita del fine dell'offerta, che era nel Suscipe, non è sostituita da nulla. Il mutamento di formulazione rivela il mutamento di dottrina.
    2) La causa di questa non-esplicitazione del Sacrificio è, né piú né meno, la soppressione del ruolo centrale della Presenza Reale, cosí lampante prima nella liturgia eucaristica. Ve ne è una sola menzione - unica citazione, in nota, dal Concilio di Trento - ed è quella che si riferisce alla Presenza Reale come nutrimento (n. 241, nota 63). Alla Presenza Reale e permanente di Cristo in Corpo, Sangue, Anima e Divinità nelle Specie transustanziate non si allude mai. La stessa parola transustanziazione è totalmente ignorata.
    La soppressione della invocazione alla terza Persona della SS.ma Trinità (Veni sanctificator), onde scendesse sopra le oblate come già discese nel grembo della Vergine a compiervi il miracolo della Divina Presenza, si inserisce in questo sistema di tacite negazioni, di degradazioni a catena della Presenza Reale.
    L'eliminazione poi:
    - delle genuflessioni (non ne restano che tre del sacerdote e una, con eccezioni, del popolo, alla
    Consacrazione);
    - della purificazione delle dita del sacerdote nel calice;
    - della preservazione delle stesse dita da ogni contatto profano dopo la Consacrazione;
    - della purificazione dei vasi, che può essere non immediata, e non fatta sul corporale;
    - della palla a protezione del calice;
    - della doratura interna dei vasi sacri;
    - della consacrazione dell'altare mobile;
    - della pietra sacra e delle reliquie nell'altare mobile e sulla «mensa», quando la celebrazione non avvenga in
    luogo sacro (la distinzione ci porta diritti alle «cene eucaristiche» in case private);
    - delle tre tovaglie d'altare, ridotte a una sola;
    - del ringraziamento in ginocchio (sostituito da un grottesco ringraziamento di preti e fedeli seduti, in cui la
    Comunione in piedi ha il suo aberrante compimento);
    - di tutte le antiche prescrizioni nel caso di caduta dell'Ostia consacrata, ridotte a un quasi sarcastico
    «reverenter accipiatur» (n. 239);

    tutto ciò non fa che ribadire in modo oltraggioso l'implicito ripudio della fede nel dogma della Presenza Reale.
    3) La funzione assegnata all'altare (n. 262).
    L'altare è quasi costantemente chiamato mensa (10). «Altare, seu mensa dominica, quæ centrum est totius liturgiæ eucharisticæ» n. 49, (cfr. 262). Si specifica che l'altare deve essere staccato dalle pareti perché vi si possa girare intorno e la celebrazione possa farsi verso il popolo (n. 262); si precisa che esso deve essere il centro della congregazione dei fedeli cosí che l'attenzione si volga spontaneamente ad esso (ibid.).
    Ma il confronto fra i nn. 262 e 276 sembra escludere nettamente che il SS.mo Sacramento possa essere conservato su questo altare. Ciò segnerà una dicotomia irreparabile tra la presenza, nel celebrante, del Sommo ed Eterno Sacerdote e quella stessa Presenza realizzata sacramentalmente. Prima esse erano un'unica presenza (11).
    Ora si raccomanda di conservare il SS.mo in un luogo appartato, ove possa esplicarsi la devozione privata dei fedeli, quasi si trattasse di una qualsiasi reliquia, sicché entrando in chiesa non sarà piú il Tabernacolo ad attirare immediatamente gli sguardi ma una mensa spoglia e nuda. Si oppone ancora una volta pietà privata a pietà liturgica, si drizza altare contro altare.
    Nella raccomandazione insistente di distribuire nella comunione le Specie Consacrate nella stessa Messa, anzi di consacrare un pane di grandi dimensioni (12), cosí che il sacerdote possa dividerlo con una parte almeno dei fedeli, è ribadito lo sprezzante atteggiamento verso il Tabernacolo come verso tutta la pietà eucaristica fuori della Messa: altro strappo violento alla fede nella Presenza Reale sinché durino le Specie consacrate (13).

    4) Le formule consacratorie.
    L'antica formula della Consacrazione era una formula propriamente sacramentale, e non narrativa, indicata soprattutto da tre cose:

    a) il testo della Scrittura, non ripreso alla lettera; l'inserto paolino «mysterium fidei» era una confessione immediata di fede del sacerdote nel mistero realizzato dalla Chiesa per mezzo del suo sacerdozio gerarchico;
    b) la punteggiatura e il carattere tipografico; vale a dire il punto fermo e daccapo, che segnava il passaggio dal modo narrativo al modo sacramentale e affermativo, e le parole sacramentali in carattere piú grande, al centro della pagina e spesso di diverso colore, nettamente staccate dal contesto storico. Il tutto dava sapientemente alla formula un valore proprio, un valore autonomo;
    c) l'anamnesi («Haec quotiescumque feceritis in mei memoriam facietis», che in greco suona: «eis ten emou anamnesin» - «volti alla mia memoria»). Essa si riferiva al Cristo operante e non alla semplice memoria di lui o dell'evento: un invito a ricordare ciò che Egli fece («hæc... in mei memoriam facietis») e come Egli lo fece, e non soltanto la sua persona o la cena.
    La formula paolina oggi sostituita all'antica («Hoc facite in meam commemorationem») - proclamata come sarà quotidianamente nelle lingue volgari - sposterà irrimediabilmente, nella mente degli ascoltatori, l'accento sulla memoria del Cristo come termine dell'azione eucaristica, mentre essa ne è il principio. L'idea finale di commemorazione prenderà ben presto il posto dell'idea di azione sacramentale (14).
    Il modo narrativo è ora sottolineato dalla formula: «narratio institutionis» (n. 55d), e ribadito dalla definizione della anamnesi, dove si dice che «Ecclesia memoriam ipsius Christi agit» (n. 55c).
    In breve: la teoria proposta per l'epiclesi, la modificazione delle parole della Consacrazione e dell'anamnesi, hanno come effetto di modificare il modus significandi delle parole della Consacrazione. Le formule consacratorie sono ora pronunciate dal sacerdote come costituenti una narrazione storica e non piú enunciate come esprimenti un giudizio categorico e affermativo proferito da Colui nella cui persona egli agisce: «Hoc est Corpus meum» (e non: «Hoc est Corpus Christi») (15).
    L'acclamazione, poi, assegnata al popolo subito dopo la Consacrazione: («Mortem tuam annuntiamus, Domine, etc.… donec venias») introduce, travestita di escatologismo, l'ennesima ambiguità sulla Presenza Reale. Si proclama, senza soluzione di continuità, l'attesa della venuta seconda del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in cui Egli è sostanzialmente presente sull'altare: quasi che quella, e non questa, fosse la vera venuta.
    Ciò è ancor piú accentuato nella formula di acclamazione facoltativa n. 2 (Appendix): «Quotiescumque manducamus panem hunc, et calicem bibimus, mortem tuam annuntiamus, Domine, donec venias»; dove le diverse realtà di immolazione e manducazione, e quelle di Presenza Reale e secondo avvento del Cristo, raggiungono il massimo di ambiguità (16).





    V

    Veniamo ora alla realizzazione del Sacrificio.
    I quattro elementi di esso erano, nell'ordine:

    1) il Cristo.
    2) il sacerdote;
    3) la Chiesa;
    4) i fedeli.
    1) Nel Novus Ordo, la posizione attribuita ai fedeli è autonoma (ab-soluta), quindi totalmente falsa: dalla definizione iniziale: «Missa est sacra synaxis seu congregatio populi», al saluto del sacerdote al popolo, che esprimerebbe alla comunità riunita la «presenza» del Signore (n. 28): «Qua salutatione et populi responsione manifestatur ecclesiæ congregatæ mysterium».

    Dunque vera presenza di Cristo, ma solo spirituale, e mistero della Chiesa, ma come pura assemblea che manifesta e sollecita tale presenza.
    Ciò si ripete ovunque:
    - il carattere comunitario della Messa ossessivamente ribadito (nn. 74-152);
    - l'inaudita distinzione tra «Missa cum populo» e «Missa sine populo» (nn. 203-231);
    - la definizione della «oratio universalis seu fidelium» (n. 45), ove si sottolinea ancora una volta
    l'«ufficio sacerdotale» del popolo («populus sui sacerdotii munus exercens») presentato in
    modo equivoco perché ne viene taciuta la subordinazione a quello del sacerdote; tanto piú che questi si fa
    interprete, nella sua qualità di mediatore consacrato, di tutte le intenzioni del popolo nel Te igitur e nei
    due Memento.
    Nella «Prex eucharistica III» («Vere sanctus», p. 123) è addirittura detto al Signore: «populum tibi congregare non desinis, ut a solis ortu usque ad occasum oblatio munda offeratur nomini tuo»: ove l'affinché fa pensare che l'elemento indispensabile alla celebrazione sia il popolo anziché il sacerdote; e poiché non è precisato neppure qui chi sia l'offerente (17) il popolo stesso appare investito di poteri sacerdotali autonomi.
    Di questo passo non stupirebbe l'autorizzazione al popolo, tra qualche tempo, di congiungersi al sacerdote nella pronuncia delle formule consacratorie (ciò che del resto sembra già accada, qua e là).
    2) La posizione del sacerdote è minimizzata, alterata, falsata.
    Prima in funzione del popolo di cui egli è caratterizzato per lo piú come mero presidente o fratello anziché come ministro consacrato che celebra in persona Christi.
    Poi in funzione della Chiesa come un «quidam de populo». Nella definizione della epiclesi (n. 55c) le invocazioni sono attribuite anonimamente alla Chiesa: il ruolo del sacerdote è dissolto.
    Nel Confiteor divenuto collettivo egli non è piú giudice, testimone e intercessore presso Dio; è logico dunque che non gli sia piú dato di impartire l'assoluzione, che è stata infatti soppressa. Egli è «integrato» ai fratres. Persino il chierichetto lo chiama cosí nel Confiteor della «Missa sine populo».
    Già prima di quest'ultima riforma era stata soppressa la significativa distinzione tra la Comunione del sacerdote - il momento in cui, per cosí dire, il Sommo ed Eterno Sacerdote e colui che agiva in sua persona si fondevano in intimissima unione (nella quale era il compimento del Sacrificio) - e quella dei fedeli.
    Non piú una parola ormai sul suo potere di sacrificatore, sul suo atto consacratorio, sulla realizzazione per suo mezzo della Presenza eucaristica. Egli appare nulla piú che un ministro protestante.
    La sparizione o l'uso facoltativo di molti paramenti (in certi casi alba e stola bastano - n. 298) vanificano ancor piú l'originale conformazione al Cristo: il sacerdote non è piú rivestito di tutte le virtú di Lui; egli è un semplice «graduato» che uno o due segni distinguono appena dalla massa (18): («un po' piú uomo degli altri» per citare la formula involontariamente umoristica di un moderno predicatore[19]).
    Di nuovo, come nella opposizione degli altari, si separa ciò che Dio ha unito: l'unico Sacerdozio del Verbo di Dio.

    3) Infine la posizione della Chiesa di fronte al Cristo.
    In un solo caso, quello della «Missa sine populo» ci si degna di ammettere che la Messa è «Actio Christi et Ecclesiæ» (n. 4, cfr. Presb. Ord. n. 13), mentre nel caso della «Missa cum populo» non si accenna che allo scopo di «far memoria di Cristo» e santificare i presenti. «Presbyter celebrans... populum... sibi sociat in offerendo sacrificio per Christum in Spiritu Sancto Deo Patri» (n. 60), anziché associare il popolo a Cristo che offre sé stesso «per Spiritum Sanctum Deo Patri».
    S'inseriscono in questo contesto:
    - la gravissima omissione delle clausole «Per Christum Dominum nostrum», garanzia di esaudimento data alla Chiesa di
    tutti i tempi (Io. 14, 13-14,. 15, 16; 16, 23-24);
    - l'ossessivo «paschalismo»: quasi che la comunicazione della grazia non presentasse altri aspetti altrettanto importanti;
    - l'escatologismo dubbio e maniaco, in cui la comunicazione di una realtà, la grazia, che è permanente ed eterna, è ricondotta
    alla dimensione del tempo: popolo in marcia, chiesa peregrinante - non piú militante, si badi, contro la Potestas
    tenebrarum - verso un futuro che non è piú vincolato all'eterno (quindi anche all'eterno presente) ma a un vero e proprio
    avvenire temporale.

    La Chiesa - Una, Santa, Cattolica, Apostolica - è umiliata come tale nella formula che, nella «Prex eucharistica IV», ha sostituito la preghiera del Canone romano «pro omnibus orthodoxis atque catholicæ et apostolicæ fidei cultoribus». Ora essi sono, né piú né meno: «omnium qui te quærunt corde sincero».
    Cosí, nel Memento dei morti, questi non sono piú trapassati «cum signo fidei et dormiunt in somno pacis» ma semplicemente «obierunt in pace Christi tui»; ad essi si aggiunge, con nuovo e patente scapito del concetto di unitarietà e visibilità, la turba di «omnium defunctorum quorum fidem tu solus cognovisti».
    In nessuna delle tre nuove preci, poi, vi è il minimo cenno, come già si è detto, allo stato di sofferenza dei trapassati, in nessuna la possibilità di un Memento particolare: il che, ancora una volta, snerva la fede nella natura propiziatoria e redentiva del Sacrificio (20).


    Omissioni dissacranti avviliscono ovunque il Mistero della Chiesa.
    - Esso è misconosciuto innanzi tutto come gerarchia sacra: Angeli e Santi sono ridotti all'anonimato nella seconda parte del Confiteor collettivo: sono scomparsi come testimoni e giudici, nella persona di Michele, dalla prima (21).
    - Scomparse anche le varie Gerarchie Angeliche (e ciò è senza precedenti) dal nuovo Prefazio della «Prex II».
    - Soppressa nel Communicantes la memoria dei Pontefici e dei Santi Martiri su cui la Chiesa di Roma è fondata, che furono
    senza dubbio i trasmettitori delle tradizioni apostoliche e le completarono in ciò che divenne, con S. Gregorio, la Messa
    romana.
    - Soppressa, nel Libera nos, la menzione della B. Vergine, degli Apostoli e di tutti i Santi: la sua e loro intercessione non è
    quindi piú chiesta neppure nel momento del pericolo.
    - L'unità della Chiesa è compromessa fino all'intollerabile omissione, nell'intero Ordo, comprese le tre nuove «Preces» (e
    con la sola eccezione del Communicantes del Canone romano), dei nomi degli Apostoli Pietro e Paolo, fondatori della
    Chiesa di Roma, nonché dei nomi degli altri Apostoli, fondamento e segno della Chiesa unica e universale.
    - Chiaro attentato al dogma della Comunione dei Santi: la soppressione, quando il sacerdote celebri senza inserviente, di tutte
    le salutationes e della benedizione finale; dell'Ite Missa est (22), poi, persino nella messa celebrata con l'inserviente.
    - Il doppio Confiteor mostrava come il prete, in veste di ministro di Cristo e in profonda inclinazione, riconoscendosi
    indegno dell'alta missione, del «tremendum mysterium» che andava a celebrare, e addirittura (nell'Aufer a nobis) di
    entrare nel Santo dei Santi, invocava ad intercessione (nell'Oramus te, Domine) i meriti dei martiri di cui l'altare
    racchiudeva le reliquie. Entrambe le preghiere sono state soppresse. Vale qui ciò che già è stato detto per il doppio
    Confiteor e la doppia Comunione.
    - Sono profanate le condizioni del Sacrificio come segno di una cosa sacra: vedi ad esempio la celebrazione fuori del luogo
    sacro nel qual caso l'altare può essere sostituito da una semplice «mensa» senza pietra consacrata né reliquie, con una sola
    tovaglia (nn. 260, 265). Anche qui vale quanto già detto a proposito della Presenza Reale: dissociazione del «convivium» e
    sacrificio della cena, dalla stessa Presenza Reale.

    La desacralizzazione è perfezionata grazie alle nuove, grottesche modalità dell'offerta;
    - l'accenno al pane anziché all'azimo;
    - la facoltà, data persino ai chierichetti (nonché ai laici nella comunione sub utraque specie) di toccare i vasi sacri (n. 244d);
    - la inverosimile atmosfera che si creerà nella chiesa ove si alterneranno senza tregua sacerdote, diacono, suddiacono, salmista,
    commentatore (il sacerdote stesso par divenuto tale, continuamente incoraggiato com'è a «spiegare» ciò che sta per
    compiere), lettori (uomini e donne) chierici o laici che accolgono i fedeli alla porta e li accompagnano ai loro posti, fanno la
    colletta, portano e smistano offerte;
    - e, in tanto delirio scritturistico, la presenza antiveterotestamentaria, antipaolina della «mulier idonea» che, per la prima
    volta nella tradizione della Chiesa, sarà autorizzata a leggere le lezioni e adempiere anche ad altri «ministeria quae extra
    presbyterium peraguntur» (n. 70).
    - Infine la mania concelebratoria, che finirà di distruggere la pietà eucaristica del sacerdote e di obnubilare la figura centrale del
    Cristo, unico Sacerdote e Vittima, e dissolverla nella presenza collettiva dei concelebranti (23).





    VI

    Ci siamo limitati ad un sommario esame del Novus Ordo, nelle sue deviazioni piú gravi dalla teologia della Messa cattolica. Le osservazioni fatte sono soltanto quelle che hanno un carattere tipico. Una valutazione completa delle insidie, dei pericoli, degli elementi spiritualmente e psicologicamente distruttivi che il documento contiene, sia nei testi come nelle rubriche e nelle istruzioni, richiederebbe ben altra mole di lavoro.

    Poiché furono criticati ripetutamente e autorevolmente nella loro forma e sostanza, abbiamo sorvolato sui nuovi canoni, di cui il secondo(24) ha immediatamente scandalizzato i fedeli per la sua brevità. Di esso si è potuto scrivere, tra molte altre cose, che può essere celebrato in piena tranquillità di coscienza da un prete che non creda piú né alla transustanziazione né alla natura sacrificale della Messa, e che quindi si presterebbe benissimo anche alla celebrazione da parte di un ministro protestante.

    Il nuovo Messale fu presentato a Roma come «ampio materiale pastorale», «testo piú pastorale che giuridico» su cui le Conferenze Episcopali avrebbero potuto operare secondo le circostanze e il genio dei vari popoli. Del resto, la I sezione della nuova Congregazione per il Culto Divino sarà responsabile «dell'edizione e della costante revisione dei libri liturgici».
    Scrive l'ultimo bollettino ufficiale degli Istituti Liturgici di Germania, Svizzera, Austria (25):

    «i testi latini dovranno ora esser tradotti nelle lingue dei vari popoli; lo stile “romano” dovrà essere adattato all'individualità delle Chiese locali; ciò che fu concepito al di fuori del tempo deve essere trasposto nel mutevole contesto di situazioni concrete, nel flusso costante della Chiesa universale e delle sue miriadi di congregazioni».

    La Costituzione Apostolica stessa dà il colpo di grazia alla lingua universale (in contrasto con la volontà espressa nel Concilio Vaticano II) affermando senza equivoci che «in tot varietate linguarum una (?) eademque cunctorum precatio... quovis ture fragrantior ascendat».
    La morte del latino è data dunque per scontata; quella del gregoriano, che pure il Concilio riconobbe «liturgiæ romanæ proprium» (Sacros. Conc. n. 116), ordinando che «principem locum obtineat» (ibid.), ne consegue logicamente, con la libera scelta, tra l'altro, dei testi dell'Introito e del Graduale.

    Il nuovo rito è dato quindi in partenza come pluralistico e sperimentale, legato al tempo e al luogo.
    Spezzata cosí per sempre l'unità di culto, in che cosa consisterà ormai quell'unità di fede che ne conseguiva e di cui sempre si parla come della sostanza da difendere senza compromissioni?
    È evidente che il Novus Ordo non vuole piú rappresentare la fede di Trento.
    A questa fede, nondimeno, la coscienza cattolica è vincolata in eterno.
    Il vero cattolico è dunque posto, dalla promulgazione del Novus Ordo, in una tragica necessità di opzione.




    VII

    La Costituzione accenna esplicitamente a una ricchezza di pietà e di dottrina mutuata nel Novus Ordo dalle Chiese di Oriente. Il risultato appare tale da respingere inorridito il fedele di rito orientale, tanto lo spirito ne è, piú che remoto, addirittura opposto.
    A che si riducono queste scelte ecumeniche?
    In sostanza
    - alla molteplicità delle anafore (non certo alla loro bellezza e complessità),
    - alla presenza del diacono e alla comunione sub utraque specie.
    Per contro, pare si sia voluto eliminare deliberatamente tutto quanto, nella liturgia romana, era piú prossimo all'orientale(26) e, rinnegando l'inconfondibile ed immemorabile carattere romano, abdicare a ciò che piú gli era proprio e spiritualmente prezioso. Lo si è sostituito con elementi che soltanto a certi riti riformati (e nemmeno a quelli piú prossimi al cattolicesimo) lo avvicinano degradandolo, mentre vieppiú ne allontaneranno l'Oriente, come l'hanno già allontanato le ultime riforme.
    In compenso, esso piacerà sommamente a tutti quei gruppi, vicini alla apostasia, che devastano la Chiesa inquinandone l'organismo, intaccandone l'unità dottrinale, liturgica, morale e disciplinare in una crisi spirituale senza precedenti.




    VIII

    S. Pio V curò l'edizione del Missale romanum affinché (come la stessa Costituzione ricorda) fosse strumento di unità tra i cattolici. In conformità alle prescrizioni del Concilio Tridentino esso doveva escludere ogni pericolo, nel culto, di errori contro la fede, insidiata allora dalla Riforma protestante.
    Cosí gravi erano i motivi del Santo Pontefice che mai come in questo caso appare giustificata, quasi profetica, la sacra formula che chiude la Bolla di promulgazione del suo Messale:

    «Si quis autem hoc attentare praesumpserit, indignationem Omnipotenti Dei ac beatorum Petri et Pauli Apostolorum eius se noverit incursurum» (Quo primum, 19 luglio 1570)(27).

    Si è avuto l'ardire di affermare, presentando ufficialmente il Novus Ordo alla Sala Stampa del Vaticano, che le ragioni del Tridentino non sussistono piú. Non solo esse sussistono ancora, ma ne esistono oggi, non esitiamo a dirlo, di infinitamente piú gravi. Proprio facendo fronte alle insidie che minacciavano di secolo in secolo la purezza del deposito ricevuto («depositum custodi, devitans profanas vocum novitates», I Tim. 6, 20), la Chiesa dovette erigergli intorno le difese ispirate delle sue definizioni dogmatiche e dei suoi pronunciamenti dottrinali. Essi ebbero ripercussione immediata nel culto, che divenne il monumento piú completo della sua fede.
    Volere ad ogni costo riportare questo culto all'antico, rifacendo freddamente, in vitro, quel che in antico ebbe la grazia della spontaneità primigenia, secondo quell'«insano archeologismo» cosí tempestivamente e lucidamente condannato da Pio XII (28), significa - come purtroppo si è visto - smantellarlo di tutte le sue difese teologiche oltre che di tutte le bellezze accumulate nei secoli(29), e proprio in uno dei momenti piú critici, forse il piú critico che la storia della Chiesa ricordi.

    Oggi, non piú all'esterno, ma all'interno stesso della cattolicità l'esistenza di divisioni e scismi è ufficialmente riconosciuta(30); l'unità della Chiesa è non piú soltanto minacciata ma già tragicamente compromessa(31) e gli errori contro la fede s'impongono, piú che insinuarsi, attraverso abusi ed aberrazioni liturgiche ugualmente riconosciute(32).
    L'abbandono di una tradizione liturgica che fu per quattro secoli segno e pegno di unità di culto (per sostituirla con un'altra, che non potrà non essere segno di divisione per le licenze innumerevoli che implicitamente autorizza, e che pullula essa stessa di insinuazioni o di errori palesi contro la purezza della fede cattolica) appare, volendo definirlo nel modo piú mite, un incalcolabile errore.

    Corpus Domini 1969

 

 
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