Originariamente Scritto da
Abdullah
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Il Derviscio
Sulla Shoah, le testimonianze, le prove, non dovrebbe esserci discussione o revisionismo alcuno. Voler discutere di numeri, fatti o di uso delle camere a gas come camere di disinfestazione è solo sintomo di malafede. La deportazione di ebrei da ogni angolo dell’Europa ai campi di concentramento è acribicamente documentata dai fogli di viaggio della
Deutsche Reichbahn, la compagnia ferroviaria tedesca. Voler mettere in dubbio un fatto abnorme ed unico per la sua macabra organizzazione pianificata e realizzata a livelli di industria della morte è semplicemente ripugnante. Non che la pulizia etnica sia stata una novitá nella pratica della politica e della guerra, ma qui si raggiunsero vette grottesche nel numero e nella qualitá da far impallidire ogni altro precedente. Massacri, nella storia, ce ne sono stati di altrettanto mostruosi, ma quello degli ebrei in Europa raggiunse il massimo dell’aberrazione nel momento in cui cittadini tedeschi, francesi, polacchi, ungheresi, italiani, vennero deportati e uccisi a motivo della loro appartenenza religiosa. Religiosa piú che etnica, anche se è vero che numerosi ebrei non praticano il giudaismo come religione, pur considerandosi ebrei in virtù della discendenza ebraica della propria famiglia (etnica) e della loro identificazione col popolo ebraico dal punto di vista etnico, storico o culturale. Non credo del resto che la Gestapo e le SS andassero tanto per il sottile. Nella
notte dei cristalli venne dato fuoco alle sinagoghe e ai negozi di proprietari ebrei quale anticipo del terrore che sarebbe seguito. Ricordare è giusto, anche perché la tentazione alla pulizia etnica non è sparita né nel mondo lontano dall’Europa, né nel mondo a noi vicino e nemmeno nell’Europa stessa.
La cosiddetta
“Enosis”, la “riunione ” di Cipro (che mai era stata greca) alla Grecia scatenò gli estremisti di EOKA, appoggiati dai colonnelli greci e dalla CIA, contro la popolazione musulmana dell’isola. Il massacro terminò grazie all’intervento dell’esercito turco che sbarcò a Cipro nel 1974.
Sabra e Chatila, i campi profughi palestinesi in Libano, circondati dai carri armati israeliani, restarono per giorni in balia delle truppe cristiane di Elie Hobeika che lasciarono alle loro spalle dalle 1000 (secondo le fonti della Croce Rossa) alle 3500 (secondo le fonti palestinesi) vittime civili, violentate, mutilate e selvaggiamente trucidate.
Srebrenica, la cittá bosniaca, dove dagli ottomila ai diecimila uomini di fede musulmana vennero deportati e uccisi dalle truppe serbo-bosniache guidate dal generale Mladic sotto gli occhi dei caschi blu conigliolandesi.
La memoria è quindi importante e alla Shoah si dovrebbero aggiungere tutti gli episodi terrificanti di pulizia etnica della Storia piú recente. Dovremmo peró fare attenzione, la Shoah e la memoria non sono una questione dello Stato di Israele. La Shoah e la memoria devono diventare capitolo e monito dell’umanitá intera perché lo strumento della guerra e del massacro vengano definitivamente cancellati dal vocabolario della politica e della civiltá. Va da sé che la critica alla politica dello Stato di Israele è piú che legittima e che per questo, la Shoah, non puó diventare paravento o strumento dietro al quale nascondere le proprie nefandezze. Chi critica la politica di Israele non è automaticamente revisionista, negazionista, antisemita e le rivendicazioni politiche o territoriali dei palestinesi non possono essere causa delle reazioni abnormi dell’apparato militare israeliano. Non sono di certo simpatizzante di Hamas e di suoi gorilla senza cervello, ma sullo Stato di Israele, proprio a motivo della Storia che sta alle spalle della gran parte dei suoi abitanti sopravvissuti alla Shoah, pesa la responsabilitá di invitare a trattative eque i rappresentanti palestinesi. Le imminenti elezioni non possono essere motivo di una guerra che non ha portato a nessun risultato politico o strategico e che ha messo in ginocchio un’intera popolazione giá duramente provata dall’embargo degli anni scorsi. Tutto ció sará possibile quando Israele, ma piú in generale i paesi occidentali, si abitueranno all’idea di parlare coi rappresentanti del vicino e Medio Oriente come si parla fra pari. L’arroganza del mondo occidentale nei confronti del mondo arabo o musulmano non ha piú posto nella storia della civiltá umana e, a meno che non si voglia dar retta ai pagliacci del conflitto delle civiltá, siamo tenuti al rispetto delle tradizioni culturali e religiose dei nostri vicini di casa.
Non è compito facile, secoli di pregiudizio non si abbattono in un giorno solo. Socrate venne condannato, come lui stesso dichiaró nella sua apologia, non per la colpa di un delitto che non aveva commesso, ma da quarant’anni di pregiudizio. Il riavvicinamento del mondo orientale al mondo occidentale non è impresa di un giorno e necessitá di uomini di buona volontà disposti a mettere il dito sulla piaga senza remore alcune. Ha quindi fatto bene
Recep Erdogan a ricordare ad un Shimon Peres urlante che “Io non sono un capo tribù, io rappresento la nazione turca”. Questo dovrebbero ricordare i responsabili mondiali della politica, cioè che dietro ai loro rappresentanti ci sono popoli e nazioni intere fatte di uomini e donne che, come da noi, si affaticano giorno per giorno nella speranza di un futuro e di un mondo migliori per loro e per i loro figli. Alzare muri e fili spinati ideologici e culturali porta inevitabilmente al conflitto e il conflitto ha come corollario inevitabile la ricerca della propria superioritá ottenuta con la cancellazione fisica della parte avversaria. È un piano che nella Storia non ha trovato soluzioni durature e che umanamente è impercorribile. Lasciamo dietro di noi, senza dimenticarle, le stragi etniche e cominciamo ad abituarci all’idea che la civiltá umana è una e che il mio vicino, cristiano, ebreo, musulmano, buddista, laico e ateo, è mio fratello.