Federalismo ed Europa nel pensiero di Alain de Benoist

Sergio Terzaghi, da L´Insorgente nov-dic 2004


Dialogare con Alain de Benoist è un’esperienza formativa per chi crede, come il sottoscritto, che la politica abbia oramai divorziato dalle idee. Il sessantenne filosofo francese incarna il tipo umano del ribelle che però non si estranea dalla società, ma che vi partecipa al fine di attivare modalità che la possano mettere in cortocircuito. Nel suo sguardo si legge l’apertura e la disponibilità verso l’altro, atteggiamenti poco inclini a numerosi professoroni, da anni asserviti al pensiero unico. De Benoist, definito ancora oggi, a sproposito, come l’ideologo della “Nuova Destra”, esperienza metapolitica terminata qualche lustro fa, ha una visione del mondo avversa ad ogni tipo di dispotismo, auspicando la conservazione delle differenze culturali tra i popoli poiché queste rappresentano la ricchezza del mondo. Egli afferma il primato della politica sull’economia e denuncia come gli effetti dell’omologazione nelle società liberali, le riconducano ad una specie di “totalitarismo dal volto umano”. De Benoist, sostenendo che la politica sia chiamata a rinascere partendo dalla base, riprende con stile il pensiero del Federalismo integrale.

Professore, la Francia è lo stato giacobino per eccellenza. Come prende forma nella Sua persona la riflessione federalista?
«La Francia ha in effetti una vecchia tradizione giacobina, che non comincia però con la Rivoluzione: la tendenza alla centralizzazione, a spese dei poteri locali, è stata largamente avviata sotto l’Ancien Régime, la Rivoluzione non ha fatto altro che radicalizzarla. Questa tradizione è collegata alle modalità di formazione della nazione francese, la quale è nata dall’espansione progressiva d’un nucleo centrale, associata alla messa in atto d’un mercato nazionale e d’uno spazio giuridico unificato. Al contempo, non va dimenticato che ci sono sempre state resistenze alla centralizzazione, specialmente da parte della nobiltà, ma anche da parte degli strati popolari. Tutta una corrente di pensiero, che va da Henry de Boulainvilliers a Tocqueville, ha denunciato con forza il giacobinismo. Nelle province periferiche, con tratti più marcati, i regionalismi e le autonomie si sono mantenute sino ai giorni nostri. Nel XIX secolo, uomini di sinistra come Proudhon, di destra come il giovane Maurras e, soprattutto, il giovane Barrès hanno richiesto esplicitamente il Federalismo.
Personalmente, sono giunto al Federalismo a causa d’una spontanea simpatia per i movimenti regionalisti (bretoni, normanni, fiamminghi, alsaziani, corsi, baschi, ecc.), provata fin dalla mia gioventù, e per la derivante riflessione di filosofia politica. Il Federalismo mi è apparso come il solo sistema politico capace di conciliare l’uno e il molteplice, vale a dire gli imperativi in apparenza contraddittori dell’unità, necessaria alla decisione, e della libertà, necessaria al mantenimento delle diversità. Ma ho anche subìto l’influenza d’un certo numero d’autori come Paul Sérant e Thierry Maulnier, che scrissero negli anni Sessanta Le XXe siècle fédéraliste, come Robert Aron, il quale fece parte dei “non-conformisti degli Anni 30” e non smise di difendere le idee di Georges Sorel e il socialismo associativo - solidale francese, come Alexandre Marc, direttore di L’Europe en formation e teorico del Federalismo integrale, ecc.».

La democrazia rappresentativa contemporanea ha in sé il rischio di non rappresentare nessuno, tanto meno il popolo. Cosa ne pensa?
«La crisi della rappresentanza affligge oggigiorno tutte le democrazie liberali. L’indebolimento dello Stato-nazione, il quale, come ho detto sovente, è divenuto, in una volta, troppo grande per rispondere alle aspettative quotidiane della gente e troppo piccolo per far fronte alle problematiche che si sviluppano oramai su scala planetaria, ha avuto per conseguenza la rottura di ogni legame sociale (lo Stato non è più produttore di socialità) e una frattura, sempre più accentuata, tra la classe politica e i cittadini. Quest’ultimi allora tendono a rifugiarsi nell’astensione o a votare per i partiti di pura protesta, i quali non rappresentano forze costruttive. È possibile rimediare a questa situazione soltanto ponendo in essere una democrazia partecipativa su tutti i livelli che, a partire dalla base, permette a ciascun cittadino di partecipare alle vicende pubbliche».

Esiste, pertanto, secondo lei, il problema della sovranità?
«Il problema della sovranità è un altro problema. Nell’ottica giacobina dello Stato-nazione, la sovranità è definita, sin dai tempi di Jean Bodin, come una nozione “indivisibile”: l’autorità sovrana è un’autorità alla quale non si potrà per definizione assegnare limiti. Una simile sovranità ha autorità su tutto, e tutto tende naturalmente al despotismo. Il Federalismo non rigetta in nessun modo la nozione della sovranità, ma ne dà un’altra definizione. La sovranità non è indivisibile, ma è ripartita secondo il principio di sussidiarietà o della sufficiente competenza. Il potere sovrano non è un potere assoluto, rappresenta solamente il potere situato al livello più elevato e dove il campo di decisione è più esteso, quello che interviene solo quando i poteri locali, ai livelli inferiori, non sono in grado di risolvere i problemi presentatisi».

Johannes Althusius, uno dei primi pensatori federalisti, sosteneva che il sociale andasse costruito partendo dalla prima forma associativa, la famiglia, per poi concretizzarsi in comuni, province e regioni. Oggigiorno, è possibile adottare questa modalità?
«Dare nuova vitalità alle famiglie è certamente una delle condizioni per ricreare un legame sociale, perché la famiglia è uno dei luoghi d’apprendimento della socialità, dello stare insieme. Ma io credo che c’è un grave errore nel considerare la società globale come un sistema di “bambole-matrioska” dove si potrà passare, senza una vera rottura, dalla famiglia ai comuni e alle regioni. Questo errore è stato costantemente commesso da autori, generalmente di destra, che hanno assimilato la società globale a una grande famiglia (aventi spesso come scopo l’annettere la sovranità ad un padre di famiglia, di cui gli stessi soggetti sarebbero i “figli”). La famiglia dona valore alla dimensione privata dell’esistenza, i comuni e le regioni alla vita pubblica. I modelli relazionali dentro la famiglia sono rappresentati da un legame, tra genitori e figli, che è fondamentalmente differente dallo stesso che esiste in seno ad una società politica. Disconoscere la differenza naturale tra la dimensione privata e la dimensione pubblica dell’esistenza umana rischia di condurre, sia a un totalitarismo che sottomette alla politica tutti gli aspetti della vita privata, sia all’inverso cioè ad un liberalismo che mira alla “privatizzazione” generalizzata delle vicende pubbliche».

Preso atto di questi rischi, appare però evidente come l’odierna società sia composta da individui atomizzati, slegati uno dall’altro. Vede la possibilità della nascita di un nuovo modello antropologico?
«Noi viviamo infatti un’epoca in cui l’individualismo intacca le cose più alte, ma in cui allo stesso tempo, e potrebbe essere per compensazione, si vedono nascere e svilupparsi spontaneamente nuove forme associative simili quali le “tribù”, le comunità, le reti, ecc. Il vero problema è attinente alla colonizzazione degli spiriti attraverso l’immaginario economico e mercantile. Il modello antropologico dominante è quello d’un uomo esclusivamente preoccupato di massimizzare il suo miglior interesse, vale a dire in generale di raggiungere una quantità sempre più grande d’oggetti consumati. Il messaggio implicito dei mass-media rende l’idea che le felicità sia sinonimo di consumo. Questo modello è tanto descrittivo quanto normativo: legittima a sua volta il materialismo pratico e l’idea che il comportamento egoistico sia il comportamento più normale che ci sia. In quest’ottica, il legame sociale si scioglie immancabilmente, perché l’altro appare prima di tutto come un rivale in un tessuto sociale trasformato in uno spazio di concorrenza generalizzata. Ciò dunque contrasta l’avvento d’un altro modello antropologico. Quest’ultimo esige la restituzione all’immaginario della capacità simbolica, la ridefinizione dell’uomo come un essere fondamentalmente sociale e politico, e la risistemazione dei valori marcantili al loro posto, necessariamente subordinato».

Esiste in Europa un problema culturale per i suoi molteplici popoli?
«Sul punto, si potrebbe riprendere la datata distinzione tra cultura e civilizzazione, che ricalca d’altronde la distinzione tra comunità e società, teorizzata da Ferdinand Tönnies. La civilizzazione tende verso l’unico, mentre le culture sono sempre più d’una. La diversità culturale dei popoli europei - diversità relativa nella misura in cui questi popoli hanno tutti un retaggio comune - è oggigiorno minacciata dalla progressiva omogeneizzazione degli stili di vita, indotti da una globalizzazione pilotata dalla superpotenza americana, ma che si definisce anzitutto come l’espansione planetaria della Forma-Capitale ad oggi totalmente deterritorializzata. Qui ancora, io credo che non si potrà contrastare questo processo se non attraverso un ritorno alla base, alla vita locale, alle comunità. Si tratta di contrapporre il locale al globale e, così facendo, di donare alla globalizzazione un altro contenuto, multipolare e differente».

La scomparsa delle lingue locali è, secondo lei, un dato significativo?
«La scomparsa delle lingue locali è evidentemente un aspetto dell’impoverimento delle culture e della riduzione della diversità. All’epoca della Rivoluzione, i giacobini avevano già tentato di far sparire con metodo autoritario il “vernacolo” e i dialetti locali. La III Repubblica francese ha proseguito in questa direzione cercando di ripiegare l’uso delle lingue regionali solo sulla sfera privata. Al giorno d’oggi, le lingue locali sono meglio accettate, e perfino protette, ma è tutto lo stile di vita caratteristico della società globale che è loro sfavorevole. Il sistema mediatico, e specialmente la televisione, gioca a riguardo un ruolo centrale: i bambini non parlano più come i loro genitori, parlano come parla la televisione. Allo stesso tempo, l’anglo-americano s’impone ciascun giorno un po’ di più come la lingua della nuova koinè mondiale. Però, la situazione è molto differente a seconda delle regioni. Certe lingue locali sono evidentemente destinate a sparire, altre hanno buone possibilità di sopravvivere, soprattutto quando sono impiegate quotidianamente nelle regioni che hanno saputo conservare l’essenza della loro personalità».

Quali sono, secondo lei, gli scenari che si prefigurano per i popoli d’Europa?
«La costruzione politica dell’Europa è ad oggi totalmente bloccata, a causa della persistenza delle logiche degli stati-nazione, per l’assenza totale di volontà da parte degli uomini politici, e a causa della burocrazia. Al posto d’approfondire le proprie strutture istituzionali, l’Europa ha scelto di allargarsi in fretta ad alcuni Paesi i quali non hanno altra ambizione se non quella d’integrarsi in un vasto mercato transatlantico. Pretende oggigiorno di dotarsi d’una Costituzione senza aver posto in essere un potere costituente, e pensa di aprirsi alla Turchia, ciò mostra che non ci sono nemmeno accordi tra gli Europei circa i veri confini dell’Europa. L’equivoco maggiore riguarda il fatto che non esiste un accordo sulle finalità della costruzione europea. C’è questo problema di finalità che occorre tener presente. L’alternativa è chiara: o l’Europa, dando la priorità alla liberalizzazione, sposerà la dinamica d’un grande mercato mirato ad allargarsi il più possibile, e in questo caso l’influenza americana diventerà preponderante, oppure si appoggerà a una logica d’approfondimento delle proprie strutture d’integrazione politica grazie all’espediente offerto dal Federalismo e dalla sussidiarietà, in una prospettiva essenzialmente continentale e con l’intenzione di bilanciare il peso degli Stati Uniti d’America».

Quale Europa vorrebbe?
«Vasta questione, e penso di aver già risposto. Mi auguro che l’Europa divenga una potenza indipendente che possa giocare un ruolo regolatore della globalizzazione in un mondo multipolare, ma anche un’Europa che non si rinchiuda nella sola logica della potenza, ma che possa essere il luogo d’un nuovo progetto di civiltà».

ASSOCIAZIONE CULTURALE NTERNET PADANO


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