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    Predefinito Un brano di prosa che sento mio

    N. Machiavelli, Il Principe, cap. XVIII

    Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede per esperienza, ne’ nostri tempi, quelli príncipi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini: et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà.
    Dovete adunque sapere come sono dua generazione [modi] di combattere: l’uno con le leggi, l’altro, con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente [ricorrendo alla mitologia] dalli antichi scrittori; li quali scrivono come Achille, e molti altri di quelli principi antichi, furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li costudissi. Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia et mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile.
    Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può per tanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma, perché sono tristi e non la osservarebbano a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro. Né mai a uno principe mancarono cagioni legittime di colorire [simulare] la inosservanzia. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni, e monstrare quanta pace, quante promesse sono state fatte irrite [prive di valore legale], e vane per la infidelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare.
    Ultima modifica di vanni fucci; 18-01-14 alle 16:23

  2. #2
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    Predefinito Re: Un brano di prosa che sento mio

    Da "Il richiamo della foresta" di Jack London

    Il suo sviluppo, o la sua regressione, fu rapido: i suoi muscoli divennero duri come acciaio, si abituò a tutte le sofferenze quotidiane e riuscì a formarsi un'economia interna come una esterna. Poteva mangiare qualunque cosa anche se ripugnante e indigeribile; e quando l'aveva mangiata, i succhi del suo stomaco ne traevano ogni minima particella di nutrimento; e il sangue la portava nei più reconditi angoli del suo corpo trasformandola in forti e solidi tessuti. La vista e l'odorato divennero acutissimi, e l'udito gli si sviluppò tanto, che nel sonno poteva udire i rumori più deboli e capire se annunciavano pace o pericolo. Imparò a strapparsi coi denti il ghiaccio che gli impastava le dita; e quando aveva sete e uno strato di ghiaccio ricopriva una pozza, egli sapeva spezzarlo drizzandosi e colpendolo colle zampe davanti. La sua più notevole abilità era quella di fiutare il vento e di prevederlo anche con una notte di anticipo. Per quanto non tirasse un filo d'aria, quando si scavava il suo giaciglio presso un albero o una roccia, il vento che sorgeva più tardi lo trovava inevitabilmente al riparo, ben coperto e tranquillo. E non solo imparò per propria esperienza, ma si risvegliarono in lui gli istinti da molto tempo sopiti. Le generazioni domestiche scomparivano via via dal suo ricordo. In modo confuso egli riandava con la memoria alla gioventù del mondo, ai tempi in cui i cani selvaggi si riunivano in branchi nelle foreste primordiali e uccidevano la loro preda facendo scorrerie. Non fu faticoso per lui imparare a combattere lacerando e azzannando al modo dei lupi, perché così avevano combattuto i suoi avi dimenticati. Essi ravvivavano in lui l'antica vita, e le antiche astuzie da loro lasciate in eredità all'esistenza erano le sue stesse astuzie.
    Apparivano in lui senza sforzo e senza meraviglia, come se fossero sempre state sue; e quando nelle lunghe notti gelate levava il muso alle stelle gettando lunghi ululati nello stile dei lupi, erano i suoi antenati morti e ridotti in polvere, che levavano il muso alle stelle e ululavano nei secoli attraverso di lui. Quel grido modulato era il loro grido con cui avevano espresso la loro pena e tutto ciò che potevano suggerire loro la quiete, il freddo e la notte.


  3. #3
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    Predefinito Re: Un brano di prosa che sento mio

    Da "La luna e i falò" (incipit) di Cesare Pavese

    C'è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c'è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch'io possa dire «Ecco cos'ero prima di nascere». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.
    Ultima modifica di vanni fucci; 18-01-14 alle 17:43

  4. #4
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    Predefinito Re: Un brano di prosa che sento mio

    Giacomo Leopardi, dalle "Operette morali"

    14 - DIALOGO DI FEDERICO RUYSCH E DELLE SUE MUMMIE

    Coro di morti (nello studio di Federico Ruysch)

    Sola nel mondo eterna, a cui si volve
    Ogni creata cosa,
    In te, morte, si posa
    Nostra ignuda natura;
    Lieta no, ma sicura
    Dall'antico dolor. Profonda notte
    Nella confusa mente
    Il pensier grave oscura;
    Alla speme, al desio, l'arido spirto
    Lena mancar si sente:
    Così d'affanno e di temenza è sciolto,
    E l'età vote e lente
    Senza tedio consuma.
    Vivemmo: e qual di paurosa larva,
    E di sudato sogno,
    A lattante fanciullo erra nell'alma
    Confusa ricordanza:
    Tal memoria n'avanza
    Del viver nostro: ma da tema è lunge
    Il rimembrar. Che fummo?
    Che fu quel punto acerbo
    Che di vita ebbe nome?
    Cosa arcana e stupenda
    Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
    Qual de' vivi al pensiero
    L'ignota morte appar. Come da morte
    Vivendo rifuggia, così rifugge
    Dalla fiamma vitale
    Nostra ignuda natura;
    Lieta no ma sicura,
    Però ch'esser beato
    Nega ai mortali e nega a' morti il fato.

    Ruysch
    (fuori dello studio, guardando per gli spiragli dell'uscio). Diamine.! Chi ha insegnato la musica a questi morti, che cantano di mezza notte come galli? In verità che io sudo freddo, e per poco non sono più morto di loro. Io non mi pensava perché gli ho preservati dalla corruzione, che mi risuscitassero. Tant'è: con tutta la filosofia, tremo da capo a piedi. Mal abbia quel diavolo che mi tentò di mettermi questa gente in casa. Non so che mi fare. Se gli lascio qui chiusi, che so che non rompano l'uscio, o non escano pel buco della chiave, e mi vengano a trovare al letto? Chiamare aiuto per paura de' morti, non mi sta bene. Via, facciamoci coraggio, e proviamo un poco di far paura a loro.
    (Entrando). Figliuoli, a che giuoco giochiamo? non vi ricordate di essere morti? che è cotesto baccano? forse vi siete insuperbiti per la visita dello Czar, e vi pensate di non essere più soggetti alle leggi di prima? Io m'immagino che abbiate avuto intenzione di far da burla, e non da vero. Se siete risuscitati, me ne rallegro con voi; ma non ho tanto, che io possa far le spese ai vivi, come ai morti; e però levatevi di casa mia. Se è vero quel che si dice dei vampiri, e voi siete di quelli, cercate altro sangue da bere; che io non sono disposto a lasciarmi succhiare il mio, come vi sono stato liberale di quel finto, che vi ho messo nelle vene. In somma, se vorrete continuare a star quieti e in silenzio, come siete stati finora, resteremo in buona concordia, e in casa mia non vi mancherà niente; se no, avvertite ch'io piglio la stanga dell'uscio, e vi ammazzo tutti.
    Morto. Non andare in collera; che io ti prometto che resteremo tutti morti come siamo, senza che tu ci ammazzi.
    Ruysch. Dunque che è cotesta fantasia che vi è nata adesso, di cantare?
    Morto. Poco fa sulla mezza notte appunto, si e compiuto per la prima volta quell'anno grande e matematico, di cui gli antichi scrivono tante cose; e questa similmente è la prima volta che i morti parlano. E non solo noi, ma in ogni cimitero, in ogni sepolcro, giù nel fondo del mare, sotto la neve o la rena, a cielo aperto, e in qualunque luogo si trovano, tutti i morti, sulla mezza notte, hanno cantato come noi quella canzoncina che hai sentita.
    Ruysch. E quanto dureranno a cantare o a parlare?
    Morto. Di cantare hanno già finito. Di parlare hanno facoltà per un quarto d'ora. Poi tornano in silenzio per insino a tanto che si compie di nuovo lo stesso anno.
    Ruysch. Se cotesto è vero, non credo che mi abbiate a rompere il sonno un'altra volta. Parlate pure insieme liberamente; che io me ne starò qui da parte, e vi ascolterò volentieri, per curiosità, senza disturbarvi.
    Morto. Non possiamo parlare altrimenti, che rispondendo a qualche persona viva. Chi non ha da replicare ai vivi, finita che ha la canzone, si accheta.
    Ruysch. Mi dispiace veramente: perché m'immagino che sarebbe un gran sollazzo a sentire quello che vi direste fra voi, se poteste parlare insieme.
    Morto. Quando anche potessimo, non sentiresti nulla; perché non avremmo che ci dire.
    Ruysch. Mille domande da farvi mi vengono in mente. Ma perché il tempo è corto, e non lascia luogo a scegliere, datemi ad intendere in ristretto, che sentimenti provaste di corpo e d'animo nel punto della morte.
    Morto. Del punto proprio della morte, io non me ne accorsi.
    Gli altri morti. Né anche noi.
    Ruysch. Come non ve n'accorgeste?
    Morto. Verbigrazia, come tu non ti accorgi mai del momento che tu cominci a dormire, per quanta attenzione ci vogli porre.
    Ruysch. Ma l'addormentarsi è cosa naturale.
    Morto. E il morire non ti pare naturale? mostrami un uomo, o una bestia, o una pianta, che non muoia.
    Ruysch. Non mi maraviglio più che andiate cantando e parlando, se non vi accorgeste di morire.
    Cosi colui, del colpo non accorto,
    Andava combattendo, ed era morto, dice un poeta italiano. Io mi pensava che sopra questa faccenda della morte, i vostri pari ne sapessero qualche cosa più che i vivi. Ma dunque, tornando sul sodo, non sentiste nessun dolore in punto di morte?
    Morto. Che dolore ha da essere quello del quale chi lo prova, non se n'accorge?
    Ruysch. A ogni modo, tutti si persuadono che il sentimento della morte sia dolorosissimo.
    Morto. Quasi che la morte fosse un sentimento, e non piuttosto il contrario.
    Ruysch. E tanto quelli che intorno alla natura dell'anima si accostano col parere degli Epicurei, quanto quelli che tengono la sentenza comune, tutti, o la più parte, concorrono in quello ch'io dico; cioè nel credere che la morte sia per natura propria, e senza nessuna comparazione, un dolore vivissimo.
    Morto. Or bene, tu domanderai da nostra parte agli uni e agli altri: se l'uomo non ha facoltà di avvedersi del punto in cui le operazioni vitali, in maggiore o minor parte, gli restano non più che interrotte, o per sonno o per letargo o per sincope o per qualunque causa; come si avvedrà di quello in cui le medesime operazioni cessano del tutto, e non per poco spazio di tempo, ma in perpetuo? Oltre di ciò, come può essere che un sentimento vivo abbia luogo nella morte? anzi, che la stessa morte sia per propria qualità un sentimento vivo? Quando la facoltà di sentire è, non solo debilitata e scarsa, ma ridotta a cosa tanto minima, che ella manca e si annulla, credete voi che la persona sia capace di un sentimento forte? anzi questo medesimo estinguersi della facoltà di sentire, credete che debba essere un sentimento grandissimo? Vedete pure che anche quelli che muoiono di mali acuti e dolorosi, in sull'appressarsi della morte, più o meno tempo avanti dello spirare, si quietano e si riposano in modo, che si può conoscere che la loro vita, ridotta a piccola quantità, non e più sufficiente al dolore, sicché questo cessa prima di quella. Tanto dirai da parte nostra a chiunque si pensa di avere a morir di dolore in punto di morte.
    Ruysch. Agli Epicurei forse potranno bastare coteste ragioni. Ma non a quelli che giudicano altrimenti della sostanza dell'anima; come ho fatto io per lo passato, e farò da ora innanzi molto maggiormente, avendo udito parlare e cantare i morti. Perché stimando che il morire consista in una separazione dell'anima dal corpo, non comprenderanno come queste due cose, congiunte e quasi conglutinate tra loro in modo, che constituiscono l'una e l'altra una sola persona, si possano separare senza una grandissima violenza, e un travaglio indicibile.
    Morto. Dimmi: lo spirito e forse appiccato al corpo con qualche nervo, o con qualche muscolo o membrana, che di necessità si abbia a rompere quando lo spirito si parte? o forse è un membro del corpo, in modo che n'abbia a essere schiantato o reciso violentemente? Non vedi che l'anima in tanto esce di esso corpo, in quanto solo è impedita di rimanervi, e non v'ha più luogo; non già per nessuna forza che ne la strappi e sradichi? Dimmi ancora: forse nell'entrarvi, ella vi si sente conficcare o allacciare gagliardamente, o come tu dici, conglutinare? Perché dunque sentirà spiccarsi all'uscirne, o vogliamo dire proverà una sensazione veementissima? Abbi per fermo, che l'entrata e l'uscita dell'anima sono parimente quiete, facili e molli.
    Ruysch. Dunque che cosa è la morte, se non è dolore?
    Morto. Piuttosto piacere che altro. Sappi che il morire, come l'addormentarsi, non si fa in un solo istante, ma per gradi. Vero è che questi gradi sono più o meno, e maggiori o minori, secondo la varietà delle cause e dei generi della morte. Nell'ultimo di tali istanti la morte non reca né dolore né piacere alcuno, come né anche il sonno. Negli altri precedenti non può generare dolore perché il dolore è cosa viva, e i sensi dell'uomo in quel tempo, cioè cominciata che è la morte, sono moribondi, che è quanto dire estremamente attenuati di forze. Può bene esser causa di piacere: perché il piacere non sempre è cosa viva; anzi forse la maggior parte dei diletti umani consistono in qualche sorta di languidezza. Di modo che i sensi dell'uomo sono capaci di piacere anche presso all'estinguersi; atteso che spessissime volte la stessa languidezza e piacere; massime quando vi libera da patimento; poiché ben sai che la cessazione di qualunque dolore o disagio, e piacere per se medesima. Sicché il languore della morte debbe esser più grato secondo che libera l'uomo da maggior patimento. Per me, se bene nell'ora della morte non posi molta attenzione a quel che io sentiva, perché mi era proibito dai medici di affaticare il cervello; mi ricordo però che il senso che provai, non fu molto dissimile dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tempo che si vengono addormentando.
    Gli altri morti. Anche a noi pare di ricordarci altrettanto.
    Ruysch. Sia come voi dite: benché tutti quelli coi quali ho avuta occasione di ragionare sopra questa materia, giudicavano molto diversamente: ma, che io mi ricordi, non allegavano la loro esperienza propria. Ora ditemi: nel tempo della morte, mentre sentivate quella dolcezza, vi credeste di morire, e che quel diletto fosse una cortesia della morte; o pure immaginaste qualche altra cosa?
    Morto. Finché non fui morto, non mi persuasi mai di non avere a scampare di quel pericolo; e se non altro, fino all'ultimo punto che ebbi facoltà di pensare, sperai che mi avanzasse di vita un'ora o due: come stimo che succeda a molti, quando muoiono.
    Gli altri morti. A noi successe il medesimo.
    Ruysch. Così Cicerone dice che nessuno è talmente decrepito, che non si prometta di vivere almanco un anno. Ma come vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito del corpo? Dite: come conosceste d'essere morti? Non rispondono. Figliuoli, non m'intendete? Sarà passato il quarto d'ora. Tastiamogli un poco. Sono rimorti ben bene: non è pericolo che mi abbiano da far paura un'altra volta: torniamocene a letto.

    Ultima modifica di vanni fucci; 19-01-14 alle 21:26

  5. #5
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    Predefinito Re: Un brano di prosa che sento mio

    ISTRUZIONI PER SALIRE LE SCALE


    Nessuno può non aver notato che sovente il suolo si piega in modo che da una parte sale ad angolo retto rispetto al piano del suolo medesimo mentre la parte che segue si colloca parallelamente a questo piano per dar luogo ad un’altra perpendicolare, comportamento che si ripete a spirali o secondo una linea spezzata fino ad altezze sommamente variabili. Chinandoci e mettendo la mano sinistra su una delle parti verticali e quella destra sulla corrispondente orizzontale ci troveremo in momentaneo possesso di un gradino o scalino. Ciascuno di questi scalini, formanti come si vede da due elementi, si trova ubicato un po’ più in alto e un po’ più in avanti rispetto al precedente, principio che da significato alla scala, dato che qualsiasi altra combinazione determinerebbe forme magari più belle o pittoresche, ma inadatte a trasportare da un pianterreno a un primo piano. Le scale si salgono frontalmente, in quanto all’indietro o di fianco risultano particolarmente scomode. La posizione naturale è quella in piedi, le braccia in giù senza sforzo, la testa eretta ma non tanto da impedire agli occhi di vedere gli scalini immediatamente superiori a quello sul quale ci si trova, e respirando con lentezza e ritmo regolare. Per salire una scala si cominci con l’alzare quella parte del corpo posta a destra in basso, avvolta quasi sempre nel cuoio o nella pelle scamosciata, e che salvo eccezioni è della misura dello scalino. Posta sul primo scalino la suddetta parte, che per brevità chiamiamo piede, si tira su la parte corrispondente sinistra (anch’essa detta piede, ma da non confondersi con il piede menzionato), e portandola all’altezza del piede la si fa proseguire fino a poggiarla sul secondo scalino, sul quale grazie a detto movimento riposerà il piede mentre sul primo riposerà il piede. (I primi scalini sono sempre i più difficili, fino a quando non si sarà acquisito il coordinamento necessario. Il fatto che coincidano nel nome il piede e il piede rende difficoltosa la spiegazione. Fare attenzione a non alzare contemporaneamente il piede e il piede). Giunti con questo procedimento sul secondo scalino, basta ripetere a tempi alterni i suddetti movimenti fino a trovarsi in cima alla scala. Se ne esce facilmente con un leggero colpo di tallone che la fissa al suo posto, dal quale non si muoverà fino al momento della discesa.


    Julio Cortàzar
    Bisogna essere duri senza perdere la tenerezza.

    Io nacqui a debellar tre mali estremi,tirannide,sofismi e ipocrisia(Tommaso Campanella)

  6. #6
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    Predefinito Re: Un brano di prosa che sento mio

    Il mio elogio della polvere

    Quando la noia vi assale, state al gioco. Lasciate che vi prenda e vi schiacci; affondate, toccate il fondo. In generale, di fronte a cose sgradevoli, la regola è questa: quanto prima si tocca il fondo, tanto più rapidamente si torna a galla. Si tratta - per parafrasare un grande poeta di lingua inglese -
    di assicurarsi la piena visione del peggio. La ragione per la quale la noia merita un esame così attento è che essa rappresenta il tempo allo stato puro. (…)
    La noia, se vogliamo, è la vostra finestra sul tempo, su quelle sue proprietà che l'uomo tende a ignorare con qualche possibile pericolo per il proprio equilibrio mentale. In breve, è la vostra finestra sull'infinità del tempo, ovvero sulla vostra assoluta irrilevanza nel tempo (.. ).
    Quando questa finestra si apre, non cercate di chiuderla; al contrario, spalancatela. Perché la noia parla il linguaggio del tempo, e può insegnarvi la più preziosa lezione della vostra vita - quella che non avete ascoltato in nessuna scuola - la lezione della vostra assoluta irrilevanza. ( ... ) D'accordo, non sarà musica per le vostre orecchie; ma il senso della futilità, della limitata rilevanza dei vostri atti vale più di ogni illusione sulle loro conseguenze e più della relativa autoesaltazione.
    Perché la noia è un'invasione del tempo nella vostra scala di valori. ( ... ) E quanto più imparate sulla vostra reale dimensione, tanto più diventate umili e compassionevoli verso i vostri simili, verso quella polvere che danza in un raggio di sole o è già immobile sul piano del vostro tavolo. Ah, quanta vita è finita in quei granelli! Voi state a loro come il tempo sta a voi; ecco perché sembrano così piccoli. E sapete che cosa dice la polvere quando qualcuno la spazza via dal tavolo?
    "Ricordati di me", mormora la polvere.
    Nulla potrebbe essere tanto lontano dall'agenda mentale di chi è giovane e aggiornatissimo quanto il sentimento espresso in questo distico del poeta tedesco Peter Huchel, ora scomparso.
    L'ho citato perché mi piacerebbe instillare in voi un senso di affinità con le cose piccole - semi e piante, granelli di sabbia o zanzare - piccole ma numerose. Ho citato questi versi perché mi piacciono, perché in essi riconosco me stesso e, anzi, ogni organismo vivente che sarà spazzato via da questa o quella superficie. "Ricordati di me", mormora la polvere. E da queste parole si percepisce che, se dal tempo noi impariamo qualcosa su noi stessi, forse il tempo, a sua volta, può imparare qualcosa da noi. Che cosa? Che noi, tanto inferiori per rilevanza, lo superiamo in sensibilità.


    Josif Brodskij
    Ultima modifica di mary ann; 08-05-14 alle 18:54
    Originariamente Scritto da …:
    “Se trovi che ho parlato di una Lamborghini te ne regalo una”.

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  7. #7
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    Predefinito Re: Un brano di prosa che sento mio

    Il fardello


    Scrivere senza raccontare è come vivere senza vita. Le parole saranno anche innocenti, ma non la loro relazione. Il narratore traccia una colonna del "dare" e una dell'"avere" e in questa ultima annota i silenzi che ha saputo serbare. Con le facce di una parola vorrei fare le pietre e guardare tutte fino alla fine dei miei giorni. Quelle facce ne hanno sempre delle altre che gli sfuggono di bocca. Mordere la pietra, allora, è il compito del poeta, fino a che sanguinino le gengive della notte. In quella notte navigherà senza rotta fissa, sfiduciato di tutto, specialmente di sé, guardando specchi che cantano come sirene che non esistono. Il poeta si legherà all'albero maestro della sua ignoranza per non cadere in se stesso, bensì in un altro paese di maggiore avventura, morto di paura e vivo di speranza. Solo il dolore lo restituirà vivo-morto al vuoto pieno di volti e vedrà che nessuno è il suo.

    E tutti saranno liberi.


    Juan Gelman
    Originariamente Scritto da …:
    “Se trovi che ho parlato di una Lamborghini te ne regalo una”.

    https://forum.termometropolitico.it/...l#post21308108

  8. #8
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    Predefinito Re: Un brano di prosa che sento mio

    …La vita, che fu sempre colma di sofferenza, è più dolorosa ora che nei due secoli precedenti. Il tentativo di sfuggire al dolore spinge gli uomini a occuparsi di cose banali, a ingannare se stessi, a inventare vasti miti collettivi. Questi palliativi momentanei finiscono, a lungo andare, col creare nuove fonti di sofferenza. L’infelicità privata e pubblica può essere dominata soltanto da un processo in cui volontà e infelicità agiscono concordi: è compito della volontà a rifiutarsi di chiudere gli occhi davanti al male o di accettare una soluzione che non ha contatti con la realtà, ed è compito dell'intelligenza capire il male, porvi un rimedio se è possibile o, in caso contrario, renderlo sopportabile considerandolo sotto i suoi vari aspetti, accettandolo come inevitabile e rammentando tutto ciò che esiste al di fuori di quel male, in altre regioni, in altre età e negli abissi dello spazio interstellare.

    Bertrand Russell
    Ultima modifica di mary ann; 28-07-14 alle 21:11
    Originariamente Scritto da …:
    “Se trovi che ho parlato di una Lamborghini te ne regalo una”.

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  9. #9
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    Predefinito Re: Un brano di prosa che sento mio

    Il Temporale


    Quando, la mattina seguente, mi disposi a proseguire il viaggio, non certo di buon’ora, nel cielo burrascoso veleggiavano nastri di nubi sfrangiate, grigie e lilla, e mi accolse un forte vento. Fui presto sul crinale della collina e vidi sotto di me la cittadina, il castello, la chiesa e il piccolo imbarcadero, addossati l’uno all’altro sulla riva, simili a giocattoli. Mi tornarono in mente alcune storie divertenti dei tempi in cui abitavo in quella zona, e scoppiai a ridere. Ne avevo bisogno perché, quanto più mi avvicinavo alla meta del mio viaggio, tanto più mi sentivo oppresso e avvertivo una stretta intorno al cuore, anche se non volevo ammetterlo.
    Mi fece bene camminare in quell’aria fresca e sibilante. Ascoltavo il vento impetuoso e, mentre procedevo sul sentiero di cresta, vedevo con crescente piacere che il paesaggio si faceva più vasto e possente.
    Il cielo si andava schiarendo, a partire da nordest: laggiù la vista era libera e si potevano vedere lunghe catene di montagne, disposte in modo meravigliosamente regolare. Man mano che salivo, il vento aumentava.
    Cantava una melodia autunnale, con gemiti e risa, accennando a passioni favolose accanto alle quali le nostre non erano altro che bambinate. Mi gridava all’orecchio parole mai udite, di un mondo primigenio, come nomi di dei antichi. Dipingeva su tutto il cielo, coi rimasugli delle nuvole erranti, strisce parallele che contenevano qualcosa di dominato a stento e sotto le quali i monti parevano incurvarsi.
    Davanti al mugghiare dei venti e alla vista di quel vasto paesaggio montuoso, la lieve oppressione che incombeva sulla mia anima scomparve.
    Da quando, agli occhi miei, strada e clima si erano riempiti di vita, il fatto che mi stessi avvicinando a un incontro con la mia gioventù e a una cerchia di stimoli ancora ignoti non era più così importante ed esclusivo.
    Poco dopo mezzogiorno mi fermai a riposare nel punto più alto di quel sentiero d’altura, mentre il mio sguardo volava sull’immenso paesaggio che si estendeva intorno a me, perlustrandolo commosso. C’erano montagne verdi e, più lontano, montagne azzurre coperte di boschi e gialle montagne rocciose, colline dalle mille pieghe e, dietro ancora, il monte più alto, con pinnacoli scoscesi e pallide piramidi di neve.
    Ai miei piedi, in tutta la sua estensione, il grande lago, azzurro come il mare e punteggiato dalla schiuma bianca delle onde, con due vele solitarie e fugaci, che scivolavano curve; sulle sponde verdi e marroni gialli vigneti fiammeggianti, boschi variopinti, bianche strade maestre, villaggi di contadini tra alberi da frutto, villaggi di pescatori, più spogli, città turrite, chiare e scure. Sopra tutto, a spazzar via quelle nuvole grigiastre, tra brandelli di un cielo limpidissimo, pervaso da una luce verde azzurro e opalescente, raggi di sole disposti a mò di ventaglio sulle nubi. Tutto mosso, anche le catene montuose parevano correre avanti, e così le cime alpine, irregolarmente illuminate, scoscese e discontinue.
    Con la burrasca e le nuvole, anche i miei sentimenti e desideri si dispersero febbrili e violenti per quel vasto paesaggio, abbracciando lontani pinnacoli innevati e posando fugaci su verdi insenature lacustri.
    La mia anima fu assalita dalle note, seducenti sensazioni di ogni vagabondaggio, fuggenti e variopinte come l’ombra di una nube: rimpianto per quanto si è perduto, brevità della vita e pienezza del mondo, mancanza di una patria e ricerca della patria, alternate a una fluente sensazione di totale distacco da spazio e tempo.
    Lentamente trascorsero i flutti, cessarono di cantare e spumeggiare, e il mio cuore si placò e riposò immobile, come un uccello ad alta quota.


    Hermann Hesse
    Originariamente Scritto da …:
    “Se trovi che ho parlato di una Lamborghini te ne regalo una”.

    https://forum.termometropolitico.it/...l#post21308108

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    Predefinito Re: Un brano di prosa che sento mio

    Se proprio non ci sono le parole, allora è meglio aspettare, volare un po' più bassi, dove c'è il silenzio. In fondo si può planare leggeri per non farsi male, prendere il vento migliore e ritrovare quel gioco sconosciuto e strano che è la vita. In un filo metallico arrotolato e morbido c'è uno stato momentaneo che è adesso, ma non è quello che sono. Parole, colori e suoni, ma se non ci sono le parole allora il resto deve bastare, almeno per un po'. Bisogna spegnere il motore, andare in folle nel silenzio e nel buio e se proprio c'è da piangere, farlo piano perché il vicino di stanza non deve sentire quel sordo dolore.
    Ci sono un milione di persone schiacciate l'una dentro l'altra in un milione di scatole di plastica, e sono tutti soli, tremendamente soli a sognare di volare, di correre, di essere liberi sul serio fuori da ogni scatola. Quando mancano le parole non si riesce a capire dove sia finito il resto del mondo, perché non c'è modo di chiamarlo, fino a quando da qualche parte non rinasce la voglia di comunicare con qualcuno che come noi sta volando basso in silenzio cercando una sola parola, una sola.


    Simona Aiuti
    Originariamente Scritto da …:
    “Se trovi che ho parlato di una Lamborghini te ne regalo una”.

    https://forum.termometropolitico.it/...l#post21308108

 

 
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