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  1. #1
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    Predefinito La Voce dei Padri e dei Dottori

    Cari amici,
    oggi è la Festa liturgica di San Vincenzo di Lerino, grande Santo e Padre della Chiesa, vissuto in Francia nel V secolo...desidero iniziare un nuovo tread-rubrica, dedicato ai grandi Padri, Dottori e Santi della Chiesa Cattolica, alla loro vita e ai loro scritti...provvederò ad aggiornarlo in ogni giorno dedicato liturgicamente ad un Padre o a un Dottore della Chiesa...
    Sto combattendo la Buona Battaglia, sto proseguendo la Corsa, sto tentando di conservare la Fede

    Sono un clandestino nel Regno dei Cieli

  2. #2
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri

    San Vincenzo di Lerino, Abate, V secolo (24 maggio)



    Martirologio Romano: Nel monastero di Lérins in Provenza, in Francia, san Vincenzo, sacerdote e monaco, insigne per dottrina cristiana e santità di vita e premurosamente dedito al progresso delle anime nella fede.

    Dopo che la Chiesa ebbe via libera con l'editto dell'imperatore Costantino e potè uscire allo scoperto, entrando a far parte di diritto della nuova società che nasceva dalle ceneri del secolare impero romano, molti cristiani avvertivano un più struggente desiderio di "distacco dal mondo", e il richiamo al "deserto", cioè alla quiete della vita contemplativa, si tradusse in varie forme di vita monastica o comunitaria. S. Girolamo visse a lungo in una grotta presso Betlem; Paolino da Nola si spogliò di tutte le ricchezze per vivere in una piccola stanza accanto alla tomba del martire S. Felice. Molti sceglievano il deserto vero e proprio, come S. Antonio abate; altri mettevano tra sé e la tumultuosa società il mare e si rifugiavano in una isoletta.
    Tra i principali rifugi monastici del V secolo fu l'isola di Lerins, o Lerino nel Mediterraneo, davanti a Cannes. Fondato da S. Onorato, futuro vescovo di Arles, il monastero di Lerino diventò un semenzaio di vescovi, di santi e di scrittori. Ricordiamo Eucherio, che, prima di diventare vescovo di Lione, soggiornò a lungo nell'isoletta, con la moglie e i figli e vi scrisse due libri dal titolo significativo: Elogio della solitudine e Il disprezzo del mondo. Ma il nome più celebre uscito da questa "nutrice di santi" è S. Vincenzo di Lerino.
    Non abbiamo molte notizie sulla sua vita. La sua notorietà è legata ad un libretto sulla tradizione della Chiesa, dal titolo Commonitorium, che S. Roberto Bellarmino definì "un libro tutto d'oro". Si tratta di un manuale di regole di condotta da seguire per vivere integralmente il messaggio evangelico. Non c'erano grandi novità. Nel 434 (l'anno in cui vide la luce il prezioso libretto), il monaco forniva ai teologi futuri il famoso canone dell'ortodossia, cioè il metro per giudicare la bontà di una affermazione teologica: "Quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est": atteniamoci, cioè, a ciò che è stato creduto ovunque, sempre e da tutti. S. Vincenzo auspica tuttavia un progresso: "E’ necessario che crescano e che vigorosissimamente progrediscano la comprensione, la scienza e la sapienza da parte sia dei singoli che di tutti, sia di un solo uomo che di tutta la Chiesa, via via che passano le età e i secoli".
    Vissuto negli anni della lotta della Chiesa contro l'eresia pelagiana, Vincenzo di Lerino, nato nella Francia settentrionale, forse nel Belgio, e approdato definitivamente a Lerino in tarda età, nella cui pace morì verso il 450, con i suoi scritti fornì un'arma molto efficace contro "le frodi e i lacci degli eretici"; lasciò inoltre altri scritti cristologici e trinitari.
    Profondo conoscitore delle Sacre Scritture e dotato di una cultura umanistica, i suoi scritti sono notevoli per vigore ed eleganza stilistica, e per chiarezza e precisione di pensiero.Il suo Commonitorium ha avuto una straordinaria diffusione dalla Riforma ad oggi. Dibattuto dai cattolici e protestanti, vi si trova condensata la dottrina dei Padri sulle fonti della fede cristiana e i criteri per distinguere la dottrina ortodossa.
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  3. #3
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri

    "Nella Chiesa Cattolica bisogna avere la più grande cura nel ritenere ciò
    che è stato creduto dappertutto, sempre e da tutti. Questo è veramente e
    propriamente cattolico, secondo l'idea di universalità racchiusa
    nell'etimologia stessa della parola. Ma questo avverrà se noi seguiremo
    l'universalità, l'antichità, il consenso generale. Seguiremo l'universalità se confesseremo come vera e unica fede quella che la Chiesa intera professa per tutto il mondo; l'antichità, se non ci scostiamo per nulla dai sentimenti che notoriamente proclamarono i nostri santi predecessori e padri; il consenso generale, infine, se, in questa stessa antichità, noi abbracciamo le definizioni e le dottrine di tutti, o quasi, i Vescovi e i Maestri.

    - Come, dunque, dovrà comportarsi un cristiano cattolico se qualche piccola frazione, della Chiesa si stacca dalla comunione con la fede universale?
    Dovrà senz'altro anteporre a un membro marcio e pestifero la sanità del corpo intero.
    - Se, però, si tratta di una novità eretica che non è limitata a un piccolo gruppo, ma tenta di contagiare e contaminare la Chiesa intera?
    In tal caso, il cristiano dovrà darsi da fare per aderire all'antichità, la quale non può evidentemente essere alterata da nessuna nuova menzogna.
    - E se nella stessa antichità si scopre che un errore è stato condiviso da più persone o addirittura da una città o da una provincia intera?
    In questo caso avrà la massima cura di preferire alla temerità e all'ignoranza di quelli, i decreti, se ve ne sono, di un antico concilio universale.
    - E se sorge una nuova opinione, per la quale nulla si trovi di già definito?
    Allora egli ricercherà e confronterà le opinioni dei nostri maggiori, di quelli soltanto però che, pur appartenendo a tempi e luoghi diversi, rimasero sempre nella comunione e nella fede dell'unica Chiesa Cattolica e ne divennero maestri approvati. Tutto ciò che troverà che non da uno o due soltanto, ma da tutti insieme, in pieno accordo, è stato ritenuto, scritto, insegnato apertamente, frequentemente e costantemente, sappia che anch'egli lo può credere senza alcuna esitazione. "

    Questo famoso brano, tratto dal "Commonitorium", è universalmente noto come la "Regola per dinstinguere la Verità Cattolica dall'errore"
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  4. #4
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri

    San Beda il Venerabile, Sacerdote e Dottore della Chiesa, 672/673-735 (25 e 27 maggio)



    Martirologio Romano: San Beda il Venerabile, sacerdote e dottore della Chiesa, che, servo di Cristo dall’età di otto anni, trascorse tutta la sua vita nel monastero di Jarrow nella Northumbria in Inghilterra, dedito alla meditazione e alla spiegazione delle Scritture; tra l’osservanza della disciplina monastica e l’esercizio quotidiano del canto in chiesa, sempre gli fu dolce imparare, insegnare e scrivere.

    Beda e basta. Le sue generalità cominciano e finiscono lì. Non conosciamo i suoi genitori. La data di nascita è incerta. Sappiamo soltanto che a sette anni viene affidato per l’istruzione ai benedettini del monastero di San Pietro a Wearmouth (oggi Sunderland) e che passerà poi a quello di San Paolo di Jarrow, contea di Durham, centri monastici fondati entrambi dai futuri San Benedetto Biscop e San Ceolfrido, che sono i primi a prendersi cura di lui.
    E tra i benedettini Beda rimane, facendosi monaco e ricevendo, verso i trent’anni, l’ordinazione sacerdotale. Dopodiché basta: non diventa vescovo né abate: tutta la sua vita si concentra sullo studio e sull’insegnamento. Unici suoi momenti di “ricreazione” sono la preghiera e il canto corale.
    La sua materia è la Bibbia. E il metodo è del tutto insolito per il tempo, ma ricco d’interesse per gli scolari, mentre i suoi libri raggiungeranno presto le biblioteche monastiche del continente europeo. In breve, Beda insegna la Sacra Scrittura mettendo a frutto tutta la sapienza dei Padri della Chiesa, ma non si ferma lì. Inventa una sorta di personale didattica interdisciplinare, che spiega la Bibbia ricorrendo pure agli autori dell’antichità pagana (Beda conosce il greco) e utilizzando le conoscenze scientifiche del suo tempo.
    Fu anche amanuense e il Codex Amiatinus, uno dei più preziosi e antichi codici della Volgata, conservato nella biblioteca Laurenziana di Firenze, sarebbe stato eseguito sotto la sua guida. Della sua vasta produzione letteraria restano opere esegetiche, ascetiche, scientifiche e storiche. Tra queste c'è L'Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum, un monumento letterario universalmente riconosciuto da cui emerge la Romanità (universalità) della Chiesa. Studioso di tempra eccezionale e gran lavoratore, ha lasciato nei suoi scritti l'impronta del suo spirito umile sincero, del suo discernimento sicuro e della sua saggezza.
    Gran parte di questo insegnamento si tramanda, perché Beda scrive, scrive moltissimo e di argomenti diversi, anche modesti; come il libretto De orthographia. E anche insoliti, come il Liber de loquela per gestum digitorum, famoso in tutto il Medioevo perché insegna a fare i conti con le dita. Si dedica ai calcoli astronomici per il computo della data pasquale, indicandola fino all’anno 1063. E ai suoi compatrioti il monaco benedettino offre la storia ecclesiastica d’Inghilterra, molto informata anche sulla vita civile, e soprattutto non semplicemente riferita, ma anche esaminata con attenzione critica.
    Già da vivo lo chiamano “Venerabile”. E l’appellativo gli rimarrà per sempre, sebbene nel 1899 papa Leone XIII lo abbia proclamato santo e dottore della Chiesa. È stato uno dei più grandi comunicatori di conoscenza dell’alto Medioevo. E un maestro di probità, col suo costante scrupolo di edificare senza mai venire meno alla verità, col grande rispetto per chi ascoltava la sua voce o leggeva i suoi libri. A più di dodici secoli dalla morte, il Concilio Vaticano II attingerà anche al suo pensiero, che viene citato nella Costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa e nel decreto Ad gentes sull’attività missionaria. Beda muore a Jarrow, dove ha per tanto tempo insegnato, e lì viene sepolto. Ma il Santo re Edoardo il Confessore (10021066) farà poi trasferire il corpo nella cattedrale di Durham.
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  5. #5
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri

    "E io Ti prego, Gesù amorevole, che come Tu mi hai graziosamente dato di bere con piacere della Tua conoscenza, così voglia Tu pietosamente concedermi di attingere una giorno a Te, la fontana di tutta la saggezza, e di comparire per sempre davanti al Tuo Volto"

    Questa è la conclusione della sua "Historia"
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  6. #6
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri

    San Gregorio VII, Papa e Confessore, 1020-1085 (25 maggio)



    Martirologio Romano: San Gregorio VII, papa, che, portando il nome di Ildebrando, condusse dapprima la vita monastica e con la sua attività diplomatica aiutò molto i pontefici del suo tempo nella riforma della Chiesa; salito alla cattedra di Pietro, rivendicò con grande autorità e forza d’animo la libertà della Chiesa dal potere secolare e difese strenuamente la santità del sacerdozio; per tutto questo, costretto ad abbandonare Roma, morì in esilio a Salerno.

    La riforma detta “gregoriana” non è solo opera di Ildebrando di Soana, poi papa Gregorio VII. Ma lui la soffre più di tutti, dopo aver aiutato pontefici riformatori per trent’anni. Di origine toscana, forse monaco, studia al Laterano, diventa cardinale con Alessandro II e nel 1073 gli succede. Riformare significa espellere tutti quelli – vescovi, abati, preti – che hanno mercificato la fede comprando cariche e facendo negozio dei sacramenti. Contro di essi si sono sviluppati dal basso movimenti di riforma (non sempre esenti da violenza). Con Gregorio, è il vertice che compie il massimo sforzo per cacciare gli indegni. E si scontra con i loro famelici parentadi, con gli interessi coalizzati, e con molte casate aristocratiche, da tempo abituate a scegliersi vescovi e preti. Papa Niccolò II (1059-61) ha già tolto ai sovrani e alla nobiltà romana l’ingerenza nelle elezioni papali. Ora Gregorio vieta su tutta la linea al potere laico di conferire i poteri spirituali (Sinodo del 1075). E poco dopo, con un documento detto Dictatus papae, codifica la sua visione di una Chiesa fortemente accentrata sul pontefice, come capo assoluto e diretto di ciascun vescovo, e col potere anche di destituire l’imperatore, esonerando i sudditi dall’obbedienza.
    L’imperatore è il tedesco Enrico IV, 25 anni, re in Germania e in Italia, che si scontra col papa facendo eleggere a Milano un vescovo di sua fiducia. Alta protesta di Gregorio; ma Enrico replica, sostenuto da 30 vescovi tedeschi riuniti a Worms, dichiarando deposto il papa ("il falso monaco Ildebrando", dice il documento). Gregorio VII scomunica Enrico, che ora rischia il trono; vescovi e principi tedeschi gli impongono infatti di riconciliarsi col papa, in un incontro a Worms previsto nel febbraio 1077. Ma Enrico già in gennaio è a Canossa davanti al papa, in saio da penitente. E ottiene il perdono di Gregorio VII promettendogli di "sottostare al suo parere". Salva così il regno senza prendere impegni precisi. Poi continua come prima a nominare vescovi e abati. Nuovamente scomunicato, nel 1080 fa eleggere a Bressanone un antipapa (Clemente III). E fa occupare dalle sue truppe Roma.
    Chiuso in Castel Sant’Angelo, il papa è poi liberato dal normanno Roberto il Guiscardo che viene dal Sud. Ma viene con mercenari predatori e assassini, che si fanno odiare dai romani per le loro atrocità. E l’odio ricade anche su Gregorio VII, che gli stessi romani nel 1073 avevano acclamato papa, prima ancora dell’elezione. Finisce i suoi giorni a Salerno, in una desolazione ben espressa dalle famose parole che gli sono attribuite: "Ho amato la giustizia e detesto l’iniquità: perciò muoio in esilio". Dice di lui lo storico Muratori: "Pontefice onorato da Dio in vita e dopo morto da vari miracoli, e perciò registrato nel catalogo de’ santi". Papa Paolo V ne autorizzerà il culto nel 1606.
    Gregorio VII è uno dei più grandi papi della storia. Secondo la tradizione egli nacque a Sovana presso Grosseto, verso il 1020, dal fabbro Bonizone il quale al fonte battesimale volle che fosse chiamato Ildebrando.
    Ricevette la prima formazione a Roma dallo zio, abate di S. Maria in Aventino. Fu quindi educato nel palazzo lateranense da due celebri precettori: Lorenzo, ex-arci vescovo di Amalfi, e l'arciprete Giovanni Graziano. Costui fu eletto dai romani papa col nome di Gregorio VI dopo che aveva indotto l'indegno adolescente Benedetto IX, suo figlioccio, ad abdicare, versandogli una somma di denaro. Nel sinodo di Sutri (1046), tenuto alla presenza di Enrico III, imperatore di Germania, Gregorio depose spontaneamente la sua dignità protestando di aver agito in buona fede, non per simonia.
    Ildebrando, riluttante, lo seguì in esilio a Colonia, in qualità di suo cappellano. In quel tempo vestì l'abito benedettino. Quando però Bruno di Toul fu eletto papa, nella dieta di Worms, col nome di Leone IX, il giovane monaco fu invitato a ritornare a Roma suo malgrado. Per trent'anni Ildebrando fiancheggerà come consigliere, teologo, canonista, diplomatico e legato, l'opera di riforma di cinque pontefici, impegnati a combattere il concubinato del clero e la simonia. Leone IX lo ordinò suddiacono e lo fece priore ed economo del monastero di San Paolo fuori le mura perché riformasse la disciplina monastica e restaurasse la basilica. Stefano IX lo ordinò diacono e lo costituì arcidiacono della Chiesa romana, Alessandro II lo creò cardinale e cancelliere della medesima. Quando costui morì, tutto il popolo acclamò Ildebrando papa appena terminarono i funerali nella basilica di San Giovanni in Laterano. L'elezione fu fatta subito dopo dai cardinali nella chiesa di San Pietro in Vincoli. L'austero monaco si chiamò Gregorio. Aveva compiuto cinquant'anni, era pallido e piccolissimo di statura. Si fece ordinare prete, vescovo e quindi intronizzare con il beneplacito di Enrico IV il 30-6-1073.
    Conscio della somma potestà che gli derivava dall'essere il successore di S. Pietro, si pose subito ad attuare il programma di riforma già vigorosamente iniziato dai suoi predecessori con l'aiuto di due intrepidi e focosi monaci: Umberto da Selva Candida (+1061) e S. Pier Damiani (+1072). Vera tempra di lottatore, estremamente volitivo, perspicace e di carattere impetuoso - non per nulla il Damiani lo aveva chiamato "santo satana" - Gregorio VII era l'uomo più indicato per rivendicare alla Chiesa le sue libertà, e far trionfare la giustizia e la pace nella sottomissione al Vicario di Cristo delle potenze secolari in tutto ciò che riguardava la salvezza del mondo cristiano.
    Lo stesso anno in cui fu eletto papa, Enrico IV, intelligente ma superbo, falso e vizioso, nel tentativo di restaurare la sua autorità all'interno della Germania, aveva dichiarato guerra alla Sassonia, il più potente feudo dell'impero, ed era stato sconfitto e umiliato. Si rivolse allora al papa per averne l'appoggio, mostrandosi favorevole ai piani di riforma e promettendo di emendarsi da traffici simoniaci. Confidando nell'indispensabile unione tra il sacerdozio e l'autorità civile per il risanamento della società, Gregorio VII, nel sinodo quaresimale del 1074, rinnovò i decreti di scomunica contro la simonia e il concubinato del clero, omessi dai suoi predecessori, proibì l'esercizio delle funzioni religiose ai preti sposati e incitò il popolo a tenersene lontano. Nonostante le agitazioni e le ribellioni suscitate, il papa sostenne i suoi principi che davano esecuzione ad una antica legge ecclesiastica, convinto che lo stato matrimoniale fosse inconciliabile col sacerdozio.
    Tuttavia, le cause principali degli scandali della chiesa erano l'eccessiva implicazione del clero negli interessi terreni, e il dominio dei laici negli affari ecclesiastici. Per tagliare i mali alla radice, nel sinodo del 1075 l'intrepido pontefice proibì anche ogni conferimento di uffici ecclesiastici da parte di laici e, in particolare, l'investitura dei vescovi per mano del re di Germania mediante la consegna simbolica del pastorale e dell'anello.
    Contro simile decreto, sovvertitore della secolare consuetudine e della potenza imperiale, insorsero i signori feudali. Enrico IV scese decisamente in lotta aperta . Inebriato della vittoria conseguita sui Sassoni lo stesso anno, riprese i rapporti con i consiglieri scomunicati e nominò i titolari di parecchie diocesi, tra cui quella di Milano, che non era neppure vacante. Alla sua corte accolse persino un Cencio, capo dei malcontenti di Roma, il quale era riuscito a catturare il papa la notte di Natale mentre celebrava la Messa e rinchiuderlo grondante sangue in una torre. Il papa fece allo sconsiderato imperatore nuove rimostranze, gli rimproverò l'intrusione a Milano di Tedaldo, antiriformista, si dichiarò pronto ad un accordo, ma oralmente lo fece minacciare di scomunica e di deposizione qualora si fosse ostinato nella disubbidienza. Per tutta risposta Enrico IV convocò una dieta a Worms, nel gennaio del 1076, in cui ventisei vescovi condannarono e deposero Gregorio VII. Il re stesso, nella sua veste di patrizio romano, diresse a Ildebrando "falso monaco e non più papa" una lettera per ordinargli di scendere dalla cattedra "usurpata". Un mese dopo il papa lanciò la scomunica contro Enrico, gl'interdisse il governo della Germania e dell'Italia e sciolse i sudditi dal giuramento di fedeltà.
    L'Europa rimase sbalordita dì fronte a quella punizione fino allora inaudita. Attorno all'imperatore si fece il vuoto. I Sassoni si risollevarono e i principi nella dieta di Tribur, presso Magonza, decisero di abbandonare definitivamente Enrico se fosse rimasto nella scomunica per più di un anno. Una dieta da tenersi ad Augusta il 2-2-1077 avrebbe deciso in proposito alla presenza del papa, invitato a intervenirvi in funzione di arbitro. Enrico comprese che la sua situazione era drammatica. Piuttosto di umiliarsi dinanzi ai propri vassalli, preferì scendere con poca scorta in Italia, attraverso il Moncenisio, per umiliarsi dinanzi al papa. Gregorio VII, già in viaggio verso Augusta, alla notizia del suo arrivo si era chiuso nella rocca di Canossa (Emilia) della marchesa Matilde, seguace fedele e incondizionata del papato. Enrico si presentò per tre giorni successivi alle porte del castello "scalzo e vestito di saio come un penitente" (Reg. 4, 12) sollecitando l'ammissione e implorante l'assoluzione dalla scomunica. Dopo prolungate trattative, per i buoni uffici della suocera Adelaide di Susa, della cugina Matilde di Canossa e del padrino S. Ugo di Cluny, al quarto giorno ottenne di essere assolto e comunicato dal papa. Enrico riusciva così a spezzare il cerchio dei suoi avversari, mentre il papa, in quell'occasione più sacerdote che statista, si lasciava sfuggire di mano importanti vantaggi politici.
    L'atto generoso di Gregorio non aveva soddisfatto appieno Enrico il quale avrebbe voluto, con l'assoluzione, anche la restituzione del trono, e aveva intiepidito i principi germanici i quali dessero nuovo re Rodolfo di Svezia, ambizioso cognato di Enrico. Nella guerra civile che ne seguì il papa tentò di porsi arbitro tra i due contendenti, ma Enrico, superiore di forze, con la minaccia di far eleggere un antipapa, chiese il riconoscimento per sé e la scomunica per suo cognato. Gregorio, invece, nel sinodo quaresimale del 1080, rinnovò la scomunica e la deposizione di Enrico, confermò Rodolfo e rinnovò il decreto dell'investitura con l'aggravante della scomunica. Nel sinodo tenuto a Bressanone poco dopo, Enrico fece di nuovo dichiarare dai vescovi Gregorio VII deposto. Al suo posto fu eletto Viberto, arcivescovo di Ravenna, con il nome di Clemente III.
    Dopo la morte di Rodolfo in battaglia, Enrico sì trasferì in Italia con il suo esercito. Solo dopo quattro anni riuscì a entrare in Roma e occuparla (1084), fatta eccezione di Castel S. Angelo, in cui il papa ancora resisteva.
    Tredici cardinali passarono dalla parte di Clemente il quale, a Pasqua, incontrò Enrico imperatore. Gregorio sarebbe caduto in mano del suo avversario se, al suo grido di aiuto, non fosse giunto Roberto il Guiscardo, vassallo della Chiesa, che costrinse i tedeschi alla ritirata. Ma il saccheggio e l'atroce devastazione compiuti dalle sue soldatesche mercenarie provocarono tale inasprimento dei cittadini contro Gregorio, che gli resero impossibile la permanenza in città. Si ritirò quindi a Salerno, capitale dei normanni, dove morì il 25-5-1085 esclamando con il salmista: "Ho amato la giustizia e odiato l'iniquità, perciò muoio in esilio". (SI. 44, 8). Fu sepolto nel duomo. Non fu canonizzato formalmente, però Benedetto XIII ne estese la memoria a tutta la Chiesa nel 1728.
    Con la sua morte sembrava sancita la sconfitta del papato per sempre. Era vero invece il contrario. I successori di Gregorio VII raccoglieranno il frutto del suo apparente insuccesso: il consolidamento dell'autorità giuridica, morale e politica della Chiesa che avrà il suo apogeo con Innocenzo III. Neppure egli era conscio del grande bene che operava per la santità e l'unione della Chiesa. Alla fine della sua esistenza terrena scriveva scoraggiato: "Da molto tempo chiedo all'onnipotente Signore di togliermi da questa vita o di rendermi utile alla nostra santa Madre Chiesa, e tuttavia né Egli mi ha tolto dalle mie afflizioni, né mi ha permesso di rendere alla Chiesa i servizi che vorrei" (Reg. 2, 49).
    Nonostante che l'idea dominante di questo pontefice, quale appare dal tanto discusso documento detto Dictatus papae, fosse quella della supremazia del papato sull'impero, tuttavia non si può mettere in dubbio la rettitudine del suo operato in difesa dei diritti della Chiesa. Nel 1076 scrisse infatti ai principi e ai vescovi della Germania: "In questi giorni di pericolo, in cui l'anticristo si agita in tutte le sue membra, si troverebbe invano un uomo che preferisca sinceramente l'interesse di Dio ai suoi propri comodi... Voi mi siete testimoni che nessuna idea di secolare potenza mi ha spinto contro i principi cattivi e i sacerdoti empi, ma la comprensione del mio dovere e della missione della Sede Apostolica. Meglio per noi subire la morte da parte dei tiranni che, col nostro silenzio, renderci complici dell'empietà".
    Questo "acerrimo difensore della Chiesa" fu pure il primo a concepire l'idea di una crociata. Egli progettò nel 1074 di recarsi personalmente alla testa di un grande esercito in Oriente, per liberare il Santo Sepolcro caduto nel 1070 in mano ai Turchi, e rinnovare l'unione con la Chiesa greca.
    Prima della sua elevazione al pontificato romano, egli aveva favorito l'occupazione dell'Inghilterra nel 1066 da parte di Guglielmo I, duca di Normandia. In quella spedizione egli aveva visto una crociata e nel suo capo un campione della Chiesa contro la simonia. E noto pure quanto si sia adoperato per l'estinzione dell'eresia di Berengario, che insegnava a Tours, il quale sosteneva che l'Eucarestia è soltanto segno o simbolo del corpo di Cristo. Il Concilio tenuto nel 1054 in quella città sotto la presidenza del legato pontificio Ildebrando, si era accontentato della sua dichiarazione che il pane e il vino sull'altare dopo la consacrazione sono corpo e sangue di Cristo. Essendo in seguito ricaduto nel medesimo errore, Gregorio VII lo fece venire a Roma e nel sinodo quaresimale del 1079 l'obbligò ad accettare la dottrina ecclesiastica della "transostanziazione".
    In occasione della festa del Papa San Gregorio VII (1015?-1085) vorrei meditare su un testo attribuito al Santo Pontefice e che ne riflette comunque il pensiero, il “Dictatus Papae”, la cui prima redazione nota è del 1090: un testo cordialmente detestato dai teologi progressisti. È una specie di sommario delle tesi che gli erano care. Storicamente, la più significativa è la tesi – che ha una sua armoniosa bellezza, per quanto sia abitualmente disprezzata – relativa ai rapporti fra il Papa e l’Imperatore.
    Ricordiamo che l’Imperatore del tempo, Enrico IV (1050-1106), interveniva pesantemente negli affari della Chiesa e cercava di controllarla attraverso la nomina dei vescovi. San Gregorio VII combatté questa politica. Voleva eliminare questa pretesa del governo imperiale e dare una lezione all’Imperatore. E ci riuscì.
    Il “Dictatus Papae” mostra le relazioni che devono esistere fra il Sacro Romano Impero e il Papato. La seconda proposizione afferma che solo la monarchia del Romano Pontefice “può a buon diritto essere chiamata universale”. Questa universalità si riferisce al campo spirituale. Il Papa non pretende affatto di governare direttamente l’Impero. Ma rivendica il diritto di esercitare un’influenza decisiva. Nel Sacro Romano Impero il documento vede la spada del Papa: pronta a proteggere la Santa Chiesa Cattolica, a difendere la fede e a combattere i suoi nemici. Da una parte, il potere temporale deve governare in modo indipendente secondo il diritto naturale. Dall’altra, il Papato deve sorvegliare che questo effettivamente avvenga. In questo senso i due poteri sono diversi e indipendenti.
    Ma il “Dictatus Papae” afferma pure che, se ci si chiede qual è il potere più elevato ed eminente in Terra, la risposta è chiara – e rappresentata anche nell’arte dell’epoca. Il Papa è sempre un gradino sopra; l’Imperatore sta alla sua sinistra, un gradino sotto, e ancora al di sotto dell’Imperatore stanno tutti i re e sovrani della sfera temporale. Alla destra del Papa, ma anche loro un gradino sotto, stanno tutti i membri della gerarchia cattolica che governa la sfera spirituale. È certo che nella concezione di Gregorio VII dei due poteri il Papa ha un primato e una posizione centrale.
    In questo giorno della sua festa possiamo chiedere a San Gregorio VII d’intercedere per il mondo perché si recuperi lo spirito della sua nozione di distinzione e insieme di unità dell’ordine spirituale e dell’ordine temporale. Se questa diventasse una nozione generalmente accettata ci troveremmo all’alba del Regno di Maria. È anche vero che se venisse l’alba di una nuova epoca assai favorevole per la Chiesa, appunto il Regno di Maria, questa nozione ne farebbe parte.
    Preghiamo dunque San Gregorio VII perché chieda a Dio che questa sublime visione torni sulla Terra, in quanto ci è sommamente utile a trovare il giusto cammino.
    Sto combattendo la Buona Battaglia, sto proseguendo la Corsa, sto tentando di conservare la Fede

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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri

    "Ho amato la giustizia e odiato l'iniquità, perciò muoio in esilio"

    Queste sono le sue ultime parole (riprese dal Salmo 44), scolpite sulla sua tomba

    "Io, Papa Gregorio VII, stabilisco:
    Che la Chiesa Romana è stata fondata da Dio e da Dio solo.
    Che il Pontefice Romano è l'unico che può essere giustamente chiamato universale.
    Che Egli solo può deporre o riammettere i vescovi.
    Che in qualunque concilio il suo legato, anche se minore in grado, ha autorità superiore a quella dei vescovi, e può emanare sentenza di deposizione contro di loro.
    Che il Papa può deporre gli assenti.
    Che, fra le altre cose, non si possa abitare sotto lo stesso tetto con coloro che egli ha scomunicato.
    Che ad Egli solo è legittimo, secondo i bisogni del momento, fare nuove leggi, riunire nuove congregazioni, fondare abbazie o canoniche; e, dall'altra parte, dividere le diocesi ricche e unire quelle povere.
    Che Egli solo può usare le insegne imperiali.
    Che solo al Papa tutti i principi devono baciare i piedi.
    Che solo il Suo nome sia pronunciato nelle chiese.
    Che il Suo nome è il medesimo in tutto il mondo.
    Che ad Egli è permesso di deporre gli imperatori.
    Che ad Egli è permesso di trasferire i vescovi secondo necessità.
    Che Egli ha il potere di ordinare un sacerdote di qualsiasi chiesa, in qualsiasi territorio.
    Che colui che Egli ha ordinato può dirigere un'altra chiesa, ma non può muovergli guerra; inoltre non può ricevere un grado superiore da alcun altro vescovo.
    Che nessun sinodo sia definito "generale" senza il Suo ordine.
    Che un testo può essere dichiarato canonico solamente sotto la Sua autorità.
    Che una Sua sentenza non possa essere riformata da alcuno; al contrario, Egli può riformare qualsiasi sentenza emanata da altri.
    Che Egli non possa essere giudicato da alcuno.
    Che nessuno può condannare chi si è appellato alla Santa Sede.
    Che tutte le cause maiores, di qualsiasi chiesa, debbano essere portate davanti a Lui.
    Che la Chiesa Romana non ha mai errato; né, secondo la testimonianza delle Scritture, mai errerà per l'eternità.
    Che il Pontefice Romano eletto canonicamente è senza dubbio alcuno santificato in virtù dei meriti di San Pietro, secondo quanto detto da sant'Ennodio, vescovo di Pavia, confermato da molti santi padri che lo hanno sostenuto, secondo i decreti di San Simmaco papa.
    Che, dietro Suo comando e col suo consenso, i vassalli hanno titolo per presentare accuse
    Che Egli possa deporre o reinsediare vescovi senza convocare un sinodo.
    Che colui il quale non è in pace con la Chiesa Romana non sia da considerare cattolico.
    Che Egli possa liberare i sudditi dall'obbligo di obbedienza ai principi che hanno imposto il loro potere con la forza."

    Questo è il testo del famoso Dictatus Papae
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri

    Santa Maria Maddalena de' Pazzi, Vergine, 1566-1607 (25 e 29 maggio)



    Martirologio Romano: Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, vergine dell’Ordine delle Carmelitane, che a Firenze in Cristo condusse una vita nascosta di preghiera e di abnegazione, pregò ardentemente per la riforma della Chiesa e, arricchita da Dio di doni straordinari, fu per le consorelle insigne guida verso la perfezione.

    Una santa da capogiro. Parte della sua vita si svolge come fuori dal mondo, in lunghe e ripetute estasi, con momenti e atti quasi “intraducibili” oggi: come lo scambio del suo cuore con quello di Gesù, le stigmate invisibili, i colloqui con la Santissima Trinità... Scene vertiginose di familiarità divino-umana; dopo le quali, però, lei ritorna tranquilla e laboriosa monaca, riassorbita nella quotidianità delle incombenze.
    Nasce nel 1566, appartiene alla casata de’ Pazzi, ricchi e potenti (e violenti) per generazioni in Firenze, e ancora autorevoli alla sua epoca. Battezzata con il nome di Caterina, i Padri gesuiti, visto il grande desiderio della bambina e la sua maturità spirituale, si presero la responsabilità di far fare a Caterina la prima Comunione a soli dieci anni: fatto insolito, quasi scandaloso per le consuetudini del tempo.
    Caterina rifiutò ogni corteggiatore e nel 1583 decise di farsi suora nonostante l'opposizione dei familiari e soprattutto della madre. Scelse il convento delle Carmelitane, il più austero della città, perché soltanto quelle monache si Comunicavano quotidianamente.
    A 16 anni entra nel monastero carmelitano di Santa Maria degli Angeli in Firenze e come novizia prende il nome di Maria Maddalena.
    Nel maggio 1584 soffre di una misteriosa malattia che le impedisce di stare coricata. Al momento di pronunciare i voti, devono portarla davanti all’altare nel suo letto, dove "dì e notte sta sempre a sedere". Ed ecco poi quelle estasi, che si succederanno per molti anni. Le descrivono cinque volumi di manoscritti, opera di consorelle che registravano gesti e parole sue in quelle ore. (Parole sorprendenti: nelle estasi, lei usava un linguaggio colto, “specialistico”, di gran lunga superiore al livello della sua istruzione). Questi resoconti, che lei legge e corregge, e che acuti teologi perlustrano in punto di dottrina, contengono – espresso in mille modi e visioni e voci – l’invito appassionato a ricambiare l’amore di Cristo per l’uomo, testimoniato dalla Passione.
    Più tardi le voci dall’alto le chiedono di promuovere la “rinnovazione della Chiesa” (iniziata dal Concilio di Trento con i suoi decreti), esortando e ammonendo le sue gerarchie. Maria Maddalena esita, teme di ingannarsi. Preferirebbe offrire la vita per l’evangelizzazione, segue con gioia l’opera dei missionari in Giappone... Voci autorevoli la rassicurano, e allora lei scrive a papa Sisto V, ai cardinali della Curia; e tre lettere manda ad Alessandro de’ Medici, arcivescovo di Firenze, che poi incontra in monastero. "Questa figliola ha veramente parlato in persona dello Spirito Santo", dirà lui. Maria Maddalena gli annuncia pure che presto lo faranno Papa, ma che non durerà molto (e così gli ha predetto anche Filippo Neri). Infatti, Alessandro viene eletto il 10 maggio 1605 con il nome di Leone XI, e soltanto 26 giorni dopo è già morto.
    Passata dai vertici della contemplazione agli abissi della tentazione e dell'aridità spirituale senza conforto e ancora alla stoica sopportazione dello strazio fisico in nome della fede (è il tempo del "nudo soffrire"), Maria Maddalena morì a quarantun anni, il 25 maggio 1607, dopo averne trascorsi tre di grave infermità, devastata dalla tisi. Il suo corpo si conserva incorrotto nella chiesa di Santa Maria degli Angeli a Firenze. Fu canonizzata il 28 aprile 1669 da Clemente IX. Nel 1857 è a lei che fu dedicata la prima chiesa degli italiani negli Stati Uniti d'America. La sua memoria si celebra il 25 o il 29 maggio.
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  9. #9
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri

    " O Amore dammi tanta voce che chiamando te Amore, io sia sentita dall'Oriente insino al Occidente, e da tutte le parte del mondo, etiam nell'Inferno, accioché da tutti tu sia conosciuto e amato, amore; [...] Amore, amore tu solo penetri e trapassi...se' cielo e terra, Fuoco et Aria, Sangue e Acqua. "

    “Vieni, o Spirito Santo.
    Venga l’unione del Padre, il compiacimento del Verbo.
    Sei, o Spirito di verità, premio dei santi, refrigerio delle anime,
    luce delle tenebre, ricchezza dei poveri, tesoro di quelli che amano,
    sazietà degli esaurienti, consolazione dei pellegrini.
    Tu sei, insomma, colui nel quale si contiene ogni tesoro.
    Vieni Tu, che discendendo in Maria, hai fatto incarnare il Verbo,
    e fa’ in noi per grazia quello che hai fatto in lei per grazia e per natura”.

    "Sei l’essere di te stesso, sei l’essere del tuo Verbo.
    Sei l’essere dello Spirito Santo, sei l’essere della Santissima Trinità.
    Sei l’essere di ogni cosa che ha essere.
    E che cosa si può dire che abbia essere se non tu stesso?
    La creatura non ha essere alcuno se non da te stesso.
    Tu gli hai dato quell’essere "

    Dai "Manoscritti"
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  10. #10
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    Predefinito Rif: La Voce dei Padri e dei Dottori

    San Giustino di Nablus, Filosofo, Padre della Chiesa e Martire, inizio II secolo-circa 164 (13 e 14 aprile e 1° giugno)



    Martirologio Romano: Memoria di san Giustino, martire, che, filosofo, seguì rettamente la vera Sapienza conosciuta nella verità di Cristo: la professò con la sua condotta di vita e quanto professato fece oggetto di insegnamento, lo difese nei suoi scritti e testimoniò con la morte avvenuta a Roma sotto l’imperatore Marco Aurelio Antonino. Infatti, dopo aver presentato all’imperatore la sua Apologia in difesa della religione cristiana, fu consegnato al prefetto Rustico e, dichiaratosi cristiano, fu condannato a morte.

    Quella di Giustino, filosofo cristiano e martire, è una figura complessa e difficile da definirsi, anche perché vissuto in un’epoca caratterizzata dal primo vero impatto culturale del cristianesimo col mondo circostante, greco e romano (oggi si direbbe il primo tentativo di vera inculturazione).
    Negli “Atti del Martirio”, di San Giustino, al capitolo 1, troviamo queste parole autobiografiche ("Ho provato tutte le filosofie, poi...") che sono un ottimo biglietto da visita per descrivere la sua personalità e la vita intera. Non una esistenza trascinata in nome del quieto vivere, saturo delle certezze raggiunte, ma una continua ricerca non di verità ma della Verità, per la quale valesse la pena anche di morire. Leggiamo insieme: “Ho tentato di imparare tutte le filosofie, poi ho aderito alla vera dottrina..."
    Quella di adorare il Dio dei Cristiani, che riteniamo unico creatore e artefice, fin da principio, di tutto l’universo, delle cose visibili e invisibili; e inoltre il Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, che fu preannunciato dai profeti come colui che doveva venire tra gli uomini di salvezza e Maestro di buona dottrina”. Sono queste parole (assieme alle altre “Io sono Cristiano”) la sua professione di fede: la sintesi delle cose che lo avevano sostenuto nel vivere e gli davano la forza di morire. Parole dette negli ultimi istanti della sua vita, davanti al prefetto di Roma Rustico che lo condannerà a morte.
    Per questo suo aspetto di instancabile cercatore della verità intera, non possiamo definire Giustino un uomo “post moderno”. Oggi spesso si dice che una verità vale l’altra, una religione vale l’altra, che non c’è bisogno di “scannarsi”, dialetticamente parlando. Tanto tutto è relativo: ai tempi che ognuno vive, ai parametri culturali, al carattere della personalità del credente, alle proprie paure e desideri inconsci, alla pressione del gruppo, ai condizionamenti sociali, al contesto familiare ecc. ecc. Si afferma inoltre anche che il processo di globalizzazione, irreversibile e irresistibile, toccherà e trasformerà il concetto di religione.
    La verità religiosa generata da questo processo, secondo alcuni sociologi e politologi, non sarà certo monolitica: si avrà una specie di sincretismo religioso, teorico e pratico, un cocktail ben miscelato di credenze e valori presi dalle varie religioni. Si arriverà così ad una “verità globale”, sintesi di tutte le verità necessariamente parziali. Gesù Cristo, per esempio, in questa miscela religiosa perderà i connotati della divinità, e diventerà semplicemente uno dei grandi dell’umanità, un maestro di verità, non la Verità, e il portatore del messaggio definitivo e insuperabile da parte di Dio all’umanità. Senza dimenticare che il regista ultimo della scelta di quali elementi religiosi o filosofici e del loro grado di miscelazione spetterà fondamentalmente all’uomo post moderno, al singolo individuo, “misura di tutte le cose”.
    San Giustino sarebbe così irriso non solo da questi “religiosi post moderni”, ma anche da tutto quella vasta tipologia di religiosi indifferenti alla... religione. Questi gli direbbero di lasciar perdere, di non affannarsi, di vivere la propria vita, giorno per giorno, lasciandosi guidare dalle piccole verità quotidiane, senza grandi risposte (che non ci sono) e senza grandi sogni. Accontentarsi insomma delle piccole verità “deboli” sì (ma le uniche possibili) senza inseguire le grandi verità delle religioni di salvazione (o anche delle grandi narrazioni onnicomprensive o ideologie) dell’età moderna. La vita di Giustino è la sconfitta di questa post modernità strisciante, e dell’ipotesi neo religiosa portata dal vento inarrestabile della globalizzazione.
    Si dice anche che l’uomo post moderno deve vivere la sua vita e progettare la sua esistenza senza certezze. Perché non ci sono più (erano infatti il retaggio della modernità). Del resto sembra che le stesse religioni di salvazione, per definizione portatrici di certezze metafisiche, sono in crisi. Sembrano non più certe delle proprie certezze. Ed inoltre, per un profeta della post modernità Nietzsche, la realtà ultima non è accessibile (“Dio è morto” aveva gridato uno dei suoi personaggi). Se Dio, che è il garante della realtà ultima, anzi la Realtà Ultima per eccellenza, non c’è più, allora l’uomo rimane nella sua limitatezza, nella sua solitudine, nella morsa della morte, preludio del niente. Da questo l’ineluttabilità del nichilismo come sistema di vita: cioè la negazione di ogni certezza, e di ogni possibilità di raggiungerla. Si annuncia il naufragio della filosofia come via di ricerca e conoscenza di Dio. Proprio la sconfessione di ciò in cui credeva Giustino. Tra i suoi colleghi filosofi post moderni, si troverebbe a disagio.
    La sua famiglia è di probabile origine latina (il padre si chiama Prisco), quasi sicuramente agiata (la prova viene dai suoi viaggi e dagli studi o scuole di filosofie frequentate), e vive a Flavia Neapolis, città fondata in Samaria dai Romani, vicino Sichem, dopo avere schiacciato l’insurrezione nazionale ebraica e aver distrutto il Tempio di Gerusalemme. Nato nel paganesimo, Giustino studia a fondo i filosofi greci, e soprattutto Platone. Poi viene attratto dai Profeti di Israele, e per questa via arriva a farsi cristiano, ricevendo il battesimo verso l’anno 130, a Efeso.
    Ma questo non significa una rottura con il suo passato di studioso dell’ellenismo. Anzi: egli sente di avere raggiunto un traguardo, trovando in Cristo la verità che i pensatori greci gli hanno insegnato a ricercare.
    Giustino è un giovane filosofo impegnato nella ricerca ardente della verità, dotato di una intelligenza pronta, acuta e sufficientemente critica da percepire i punti deboli dei sistemi filosofici allora per la maggiore. Ce li descrive lui stesso nella sua opera Dialogo con l’ebreo Trifone: “Dopo aver frequentato abbastanza a lungo un maestro stoico senza arricchire le mie conoscenze su Dio – egli stesso non lo conosceva e non riteneva necessario conoscerlo – mi allontanai da lui e mi recai presso un altro uomo, un cosiddetto peripatetico (cioè un seguace di Aristotele) che si considerava ricco d’ingegno. Costui fu paziente con me solo un giorno, poi pretese che fissassi il pagamento, perché il nostro rapporto non fosse privo di utilità. Fu questo il motivo per cui abbandonai anche lui, che a mio parere non era affatto un filosofo”. Già due delusioni. Ma la sua ricerca continuò. Avvicinò un famoso filosofo pitagorico “un uomo che si vantava molto della sua sapienza”. E puntuale arrivò la terza delusione. Prima di fare filosofia, costui pretendeva da Giustino che studiasse musica, astronomia, geometria (e certamente anche la “tabella pitagorica”). Lo abbandonò perché ciò che lo assillava era il problema teologico, cioè la verità su Dio, non le altre scienze interessanti ma periferiche a questo, per lui, il problema dei problemi.
    Quarto tentativo con i platonici: “Nella mia sconsideratezza decisi di ascoltare anche i platonici; anch’essi infatti avevano una buona fama. Dato che nella nostra città dimorava un dotto che godeva di grande considerazione tra i platonici, lo frequentai più che potei. Feci progressi e mi andai perfezionando giorno per giorno. Mi interessava molto la spiritualità dell’incorporeo e la visione delle idee diede ali al mio pensiero. In breve tempo credetti di essere sapiente e nella mia limitatezza nutrivo la speranza di vedere direttamente Dio. Questo infatti è il fine della filosofia di Platone”. La sua ricerca sembrava terminata, la sua navicella sembrava essere in vista del porto della tranquillità e della verità definitiva. Proprio perché non fosse disturbato da niente, si ritirò in un luogo solitario presso Efeso, in riva al mare. E qui gli capitò un incontro casuale: un vecchio saggio gli aprì gli occhi sulla verità cristiana.
    Dopo averlo ascoltato a lungo il vecchio saggio gli disse: “Ma tu sei un amante del bel parlare, non certo un amico di chi vuol agire secondo verità”. Parole profonde e fulminanti. Seguì il consiglio del vecchio e cominciò a leggere i profeti che preparavano la venuta del salvatore Gesù Cristo. Scrive ancora nel Dialogo che seguendo questo consiglio e ammirando la coerenza dei cristiani che sapevano affrontare persino il martirio per testimoniare la verità, ben presto si convinse che il cristianesimo era “la sola vera e utile filosofia”. Ecco la sua conversione culturale ed esistenziale: avrebbe difeso con le armi della ragione e dello studio quella fede che spesso era calunniata e disprezzata dalle persone colte.
    La parabola di questa vita fatta di ricerca della verità gli ha fatto guadagnare una citazione nell’Enciclica “Fides et Ratio” di Giovanni Paolo II (1998). Ha scritto il Papa: “Quale pioniere di un incontro positivo col pensiero filosofico, anche se nel segno di un cauto discernimento, va ricordato San Giustino: questi pur conservando anche dopo la conversione grande stima per la filosofia greca, asseriva con forza e chiarezza di aver trovato nel Cristianesimo «l’unica sicura e proficua filosofia»” (n. 38).
    Arrivato alla verità trovata nel Cristianesimo e in particolare in Gesù Cristo, il Logos supremo, Giustino ha vissuto il resto dei suoi giorni di questa Verità e per questa Verità. Non gli bastava averla trovata, sentiva la missione ed il compito di farla conoscere agli altri. Da qui la sua opera di apologeta e di insegnante in una scuola che egli stesso fondò a Roma. In questo egli si atteneva alle norme della legge. Lo stesso Marco Aurelio non seguiva una filosofia, quella di Epicuro? Perché ai cristiani doveva essere impedito di seguire e di predicare il Cristo? Proprio per rivendicare questo diritto egli aveva diretto agli ultimi due imperatori e alle persone più ragguardevoli di Roma due Apologie in favore del Cristianesimo.
    Negli anni 131-132 lo troviamo a Roma, annunciatore del Vangelo agli studiosi pagani; un missionario-filosofo, che parla e scrive. Nella prima delle sue due Apologie, egli onora la sapienza antica, collocandola nel piano divino di salvezza che si realizza in Cristo. È l’uomo, insomma, dei primi passi nel dialogo con la cultura greco-romana.
    Al tempo stesso, Giustino si batte contro i pregiudizi che l’ignoranza alimenta contro i cristiani, esalta il vigore della loro fede anche nella persecuzione, la loro mitezza e l’amore per il prossimo. Vuole sradicare quella taccia di “nemici dello Stato”, che giustifica avversioni e paure. Il successivo Dialogo con Trifone ha invece la forma letteraria di una sua disputa a Efeso con un rabbino, nel quale Giustino illustra come Gesù ha dato adempimento in vita e in morte alla Legge e agli annunci dei Profeti.
    Predicatore e studioso itinerante, Giustino soggiorna in varie città dell’Impero; ma è ancora a Roma che si conclude la sua vita. Qui alcuni cristiani sono stati messi a morte come “atei” (cioè sovversivi, nemici dello Stato e dei suoi culti). Allora lui scrive una seconda Apologia, indirizzata al Senato romano, e si scaglia contro un accanito denunciatore, il filosofo Crescente: sappiano i senatori che costui è un calunniatore, già ampiamente svergognato come tale da lui, Giustino, in pubblici contraddittori.
    Ma si sa che la verità ha avuto sempre dei nemici. Non dimentichiamo che il Diavolo è definito nella Bibbia il “padre di ogni menzogna”. Anche l’apostolato della verità, attraverso la sua scuola, incontrava delle difficoltà e anche ostilità aperte. I nemici c’erano e si fecero ben presto sentire.
    Ma Crescente sta con il potere, e Giustino finisce in carcere, anche lui come “ateo”, per essere decapitato con altri sei compagni di fede, al tempo dell’imperatore Marco Aurelio. Lo attestano gli Acta Sancti Iustini et sociorum, il cui valore storico è riconosciuto unanimemente. Non ci è noto il luogo della sua sepoltura.
    Anche la maggior parte dei suoi scritti è andata perduta. Eppure la sua voce ha continuato a parlare. Nel Concilio Vaticano I i vescovi vollero che egli fosse ricordato ogni anno dalla Chiesa universale. E il Concilio Vaticano II ha richiamato il suo insegnamento in due dei suoi testi fondamentali: la costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen gentium, e la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes.
    La dottrina di Giustino si concentra sul progetto unitario di Dio (l’economia di Dio): articolato storicamente nei due testamenti dell’unica Rivelazione, ma compresente a tutta la storia degli uomini. Perno centrale di tutta questa economia divina è la figura di Gesù Cristo, Verbo incarnato e Redentore. Cristo è per Giustino il Logos eterno (ricordiamo il famoso prologo del Vangelo di Giovanni), la ragione prima ed ultima di tutto l’esistente, la Luce dalla quale deriva ogni piccola luce presente nei filosofi e anche nei semplici uomini di ogni tempo. Non c’è verità se non fondata su questa Verità del Logos, non c’è il più piccolo gesto di bontà in questo mondo che non abbia in lui il suo oggetto e finalità e spiegazione totali. La storia dell’umanità si può descrivere come “la storia di Cristo”, schierata pro o contro Cristo, cioè secondo ragione o contro ragione. La presenza di Cristo nella storia non è quindi incominciata in una data storica, per cui si può dire che il Cristianesimo non è un sistema recente. C’erano cristiani già prima di Cristo (“Semina Verbi”) e sono quelli che sono vissuti istruiti per vie misteriose a Cristo, e sono vissuti seguendolo. Giustino affermò con forza che solo in Cristo l’Antico Testamento ha il suo senso compiuto, perché in esso sono adombrate tutte le tappe del suo evento storico-salvifico.
    In questa grande prospettiva dell’Incarnazione, egli ha dato anche grande rilievo a Maria di Nazaret. Essa è vista come protagonista nel momento centrale della storia salvifica: l’incarnazione del Logos eterno, il Cristo. Tra le profezie si concentrò particolarmente su quella di Isaia (7,14). La Vergine che partorisce il Figlio. Giustino, attraverso Maria, la “donna –vergine-che-partorisce”, enunciò il principio della riconciliazione dell’umanità con Dio: da una donna era arrivata la disobbedienza e la morte (Eva) attraverso un’altra donna era arrivata la vita, Maria. L’Annunciazione quindi diventava così l’inizio della salvezza, antitetico alle scene della caduta dell’Eden della Genesi. È il famoso parallelo antitetico Eva-Maria, che appare per la prima volta nei suoi scritti, e che avrà tanta fortuna negli altri Padri della Chiesa. Si intuisce da questi piccoli cenni l’influsso sulla mariologia futura da parte di questo filosofo convertito.
    uella Verità che Giustino aveva cercato con tanta insistenza e coraggio gran parte della vita, chiedeva da lui la suprema testimonianza, quella del proprio sangue. Per Giustino quella verità trovata era la Verità, era Cristo, per cui valeva la pena vivere e anche morire.
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