Dai Savoia a Fanfani Così Perugia fu isolata

Oggi corrono finalmente i Frecciarossa mentre i pendolari si sdraiano sui binari
Come il «Satana su rotaia» ha unito (e disunito) l' Italia
Tutto cominciò con l' anatema di un Papa

«I nsolente è la scienza, licenziosa la sfrontatezza. Le Accademie e le Scuole echeggiano orribilmente di mostruose novità di opinioni...» Si presentò così, nel 1832, Papa Bartolomeo Alberto Cappellari, al secolo Gregorio XVI. Mettendo in guardia nella sua enciclica «Mirari vos» contro tutto ciò che poteva essere considerato progresso. Come «quell' assurda ed erronea sentenza che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenosissimo, a cui apre il sentiero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando». Per non dire della «pessima, né mai abbastanza esecrata e aborrita libertà della stampa nel divulgare scritti di qualunque genere». Va da sé che quando giunse voce che il cattolicissimo Ferdinando II voleva imitare l' Inghilterra, dove dal 1830 la locomotiva Rocket di George Stephenson collegava Manchester a Liverpool, Gregorio XVI evocò il Demonio. Ecco cos' era, per il Pontefice, quel mostro di ferro che il 3 ottobre 1839 ansimò sbuffando sui sette chilometri da Napoli a Portici: «Satana su rotaia». Anche se dopo il viaggio inaugurale, secondo il «Giornale del Regno delle Due Sicilie», «fu preparato un altare per la solenne benedizione e a ciò adempì Monsignor Giusti, Vicario di Napoli». Giovanni Maria Mastai-Ferretti, il suo successore col nome di Pio IX, la pensava diversamente. Anche grazie ai consigli dei collaboratori. Ernesto Petrucci, ne «Il ' 48 e la questione ferroviaria nello stato pontificio», narra che fu decisivo l' impegno di Angelo Galli, Computista generale della Camera Apostolica: una specie di Ragioniere Generale dello Stato. Galli sosteneva la necessità di dotare lo Stato pontificio di una moderna rete di strade ferrate, e riprese le tesi dell' ingegnere piemontese Carlo Ilarione Petitti di Roreto, autore nel 1845 di un progetto di rete italiana che prevedeva pure quel collegamento fra l' Adriatico e il Tirreno che avrebbe acceso la rivalità fra Perugia e Foligno. Ma più in là dei progetti, complici i moti del ' 49 e la confusione seguita, non si andò. Nel 1861, quando le leve del comando passarono agli ingegneri del Regno d' Italia la rete ferroviaria italiana era lunga 2.035 chilometri. E spezzettata in tanti tronchi. Ogni stato preunitario aveva realizzato la rete propria, con ovvie conseguenze: scartamenti diversi, procedure costruttive differenti. Il Regno di Sardegna aveva 802 chilometri di binari, una volta e mezza quella del Lombardo Veneto, costruita dagli austriaci con l' obiettivo di isolare il Piemonte. Di qui il progetto, racconta Petrucci, di una Ferrovia dell' Italia centrale per collegare Peschiera e Mantova a Modena a Livorno: tagliando così fuori il porto di Genova. In Toscana Leopoldo II aveva affidato agli industriali Cini la concessione per realizzare la linea fra Pistoia e l' Emilia, verso Bologna nel tentativo di creare un abbozzo di rete con il confinante papalino. Al Sud, dopo l' esordio del 1839, i piani ferroviari andavano invece a rilento: nel 1861, a dispetto di chi dipingerà il regno delle Due Sicilie come uno stato moderno travolto e impoverito dalla protervia dei Savoia, non c' erano che 99 chilometri. Un ottavo del patrimonio di binari sabaudi. La partita ferroviaria si presentava quindi per il nascente Stato unitario come un rompicapo. Ma tutti, a partire dallo stesso Cavour, si rendevano conto che se c' era una cosa che avrebbe potuto unificare realmente il Paese, quella era il treno. Lo slancio di orgoglio nazionale si trasformò presto in una grande occasione di commistione fra politica e affari. Appena due anni dopo le polemiche del 1860 sulla decisione di Garibaldi di dare la concessione delle ferrovie meridionali al banchiere Pier Augusto Adami e al suo socio livornese Adriano Lemmi, il banchiere massone sostenitore e amico di Giuseppe Mazzini, concessione subito revocata dai Savoia, lo scandalo ferroviario scoppiò proprio dentro il governo sabaudo. A causa del primo macroscopico caso di conflitto d' interessi della storia unitaria: l' assegnazione della concessione per costruire la ferrovia Ancona-Otranto e linee collegate a un altro banchiere di Livorno e parlamentare in carica, il conte Pietro Bastogi. Già tesoriere della Giovine Italia di Mazzini, stimatissimo da Cavour, era stato il suo ministro delle Finanze. Appena fuori dal governo, nel 1862, incassò la concessione. Lasciamo immaginare le polemiche, finite ovviamente nel nulla. Fra scandali e scaldaletti, l' Italia era un gigantesco cantiere ferroviario. Foreste rase al suolo per fabbricare traversine, ferriere che lavoravano senza sosta. Si costruivano nuove linee, si aggiustavano quelle esistenti, si mettevano i binari mancanti per cucire l' una con l' altra reti fino ad allora separate. Una colossale operazione di «federalismo» ferroviario. A fine 1872 c' erano quasi 7 mila chilometri di rotaie. In un decennio la rete era stata triplicata, anche grazie a una legge che aveva favorito l' accorpamento di molte società ferroviarie. E non si fermarono lì. Nel 1884 c' erano 10.510 chilometri. Nel 1905, quando la sinistra nazionalizzò le cinque società concessionarie creando le Ferrovie dello Stato, erano già 13.075. Alla fine il «Satana su rotaia» aveva davvero, almeno in parte, unito l' Italia. Certo, viaggiare in treno non era esattamente alla portata di tutti. Nel 1910 i biglietti della «top class» costavano 12,72 centesimi al chilometro. Per andare da Milano a Roma con il diretto, la «Frecciarossa» del tempo, si potevano pagare in prima classe anche 80 lire, 300 euro attuali. Nella terza non si spendevano meno di 33 lire: 120 euro di oggi. Ma se la differenza allora era fra le accoglienti poltrone della prima classe e i sedili di legno della terza, adesso è fra figli e figliastri. C' è l' Eurostar che divora in neanche tre ore i 632 chilometri fra Milano e Roma e fa concorrenza all' aereo. E c' è il treno dei pendolari che percorre i 100 chilometri fra Potenza e Matera in 6 ore e 50 alla media di 14,5 chilometri l' ora. Più lento della bicicletta. C' è il Frecciarossa con a bordo «l' addetto alla pulizia delle toilette», dove offrono aperitivo e giornale e magari c' è anche la massaggiatrice. E c' è il convoglio di pendolari con i servizi sigillati: che assomiglia più a una tradotta per la coltivazione di acari e zecche che a un treno. Le ferrovie hanno prima unito e poi di nuovo diviso. Per destinazioni. E fra le destinazioni, con una ulteriore discriminazione: un servizio talvolta decente al Nord, quasi sempre indecente al Sud. Ma non solo per questo il confronto con il passato rischia di essere impietoso. In un Paese stretto e lungo l' alta velocità è una benedizione. Peccato che per avere quei mille chilometri dove corrono i supertreni fra Salerno a Torino ci abbiano fatto sospirare quindici anni. In dieci, subito dopo l' unità d' Italia, di chilometri ne fecero cinquemila. Conosciamo l' obiezione: allora non c' erano gli ambientalisti, le Regioni che volevano dir la loro, i Comuni che ricattavano, le competenze decentrate, la burocrazia, i buchi di bilancio... Giustissimo. Se non fosse che in Spagna e Francia l' alta velocità è stata fatta molto più rapidamente e a meno della metà del costo: quindici milioni al chilometro contro i nostri 32. Per com' è fatta l' Italia forse era inevitabile. Forse. Ma è un fatto che per anni tutte le energie umane ed economiche delle Ferrovie siano state concentrate lì. Come se la missione fosse far durare quel gioco costoso più a lungo possibile. Senza curarsi più di tanto di tutto il resto della rete. Dove era sufficiente far camminare i treni. Che poi sopra ci fossero o meno i 2 milioni 630 mila cittadini che ogni giorno affrontano il calvario del pendolare, era un dettaglio. Colpa di scelte politiche scellerate. Che hanno penalizzato le rotaie facendo diventare l' Italia il maggior produttore europeo di smog. Qui circolano 61 automobili per ogni cittadino, contro le 48 della più ricca Germania. Qui il treno non arriva a coprire il 10% del traffico passeggeri. Mentre sulla Bologna Milano sfrecciano siluri a 300 chilometri l' ora, l' 89% della rete siciliana è ancora a binario unico. E quasi il 30% dei 16.687 chilometri di binari non è elettrificato. Stupefacente? Mica tanto, se si considera che fra il 2002 e il 2009 i finanziamenti statali per le linee ferroviarie nazionali e regionali sono stati soltanto 6,3 miliardi, poco più di un sesto di quelli destinati alle strade e alle autostrade. E poi ci si meraviglia se i pendolari esasperati si sdraiano sui binari? Sergio Rizzo Gian Antonio Stella RIPRODUZIONE RISERVATA

Rizzo Sergio