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    Predefinito La “vacanza” infinita dei cassintegrati Alitalia

    SPRECHI ITALIANI


    La “vacanza” infinita dei cassintegrati Alitalia


    Per molti è stato come andare in pensione prima. E intanto sono stati spesi 2 miliardi di euro


    Lidia Baratta

    «Ci hanno mandato in vacanza per sette anni con l’80 per cento dello stipendio», scherza Giuseppe, uno dei 1.100 assistenti di volo lasciati a terra dalla vecchia Alitalia. «In questi anni nessuno ci ha mai proposto un corso di formazione o fornito degli strumenti per trovare un nuovo lavoro. Dobbiamo ringrazia’ Berlusca».

    Per la storia degli ammortizzatori sociali italiani, Alitalia è come unevergreen. La vicenda è nota. Nel 2008 la compagnia aerea di bandiera è sommersa dai debiti, Berlusconi arriva al governo sbandierando la difesa dell’italianità dell’azienda agonizzante, che alla fine viene salvata (si fa per dire) dalla cordata italiana guidata da Roberto Colaninno, Cai, Compagnia aerea italiana, incorporando la malandata Air One. Con gli accordi di Palazzo Chigi, gli oltre 5mila lavoratori in esubero della vecchia Alitalia di fatto hanno smesso di lavorare finendo in cassa integrazione per quattro anni più tre di mobilità con un sussidio all’80% dell’ultimo stipendio, finanziato con un sovrapprezzo di tre euro di tutti i biglietti aerei emessi da Alitalia. Una «vacanza» per alcuni, come Giuseppe, vicini alla pensione. Un incubo per altri che, allo scadere dei sette anni, si ritroveranno con anni di “stipendio” pagato alle spalle e nessun valore aggiunto in tasca per trovare un nuovo lavoro.
    Il governo Monti aveva deciso di porre fine a questa anomalia, limitando il periodo di ammortizzatori a un massimo di cinque anni. I sindacati però si erano opposti, perché così sarebbero stati violati i patti sottoscritti a Palazzo Chigi nel 2008 da «Berlusca». Alla fine, il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi si è impegnato a garantire per almeno altri due anni il sovrapprezzo necessario a finanziare il fondo speciale dei lavoratori ex Alitalia, circa 180 milioni di euro, più altri 28 concessi per finanziare lo sgravio contributivo superiore al 50% per piloti, hostess e steward che ricevono l’indennità di volo. E così è successo: nel pacchettoDestinazione Italia troviamo la proroga degli ammortizzatori sociali per il personale del trasporto aereo oltre il limite del primo gennaio 2016 e la riduzione del cuneo fiscale per il personale navigante. Per attenuare il peso della sovrattassa è stato deciso di eliminare la doppia imposizione per i passeggeri in transito da un aeroporto all’altro.




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    Cosa c’entrino le misure per foraggiare Alitalia con un piano per attirare investimenti viene difficile da capire, ma la storia ci insegna che il trasporto aereo ha sempre avuto negli anni particolare (forse troppa) attenzione da parte dei governi, sia per quanto riguarda il sostegno economico da parte delle casse pubbliche, sia sul fronte della tutela dei lavoratori.
    Era il 2004 quando i trattamenti di cassa integrazione guadagni straordinaria e di mobilità venivano estesi al personale, anche navigante, dei vettori aerei e delle società «derivanti», assoggettate quindi a pagare i contributi per finanziare gli ammortizzatori. Il periodo massimo di cassa integrazione veniva incrementato da 24 a 48 mesi; mentre la mobilità era estesa sia nella durata sia nelle caratteristiche del personale (indipendentemente dalla età anagrafica e dall’area geografica di riferimento). Nel 2008, poi, il ministero del lavoro mette a disposizione un tesoretto di 20 milioni di euro, tutti a carico del Fondo per l’occupazione, per concedere in deroga la cassa straordinaria e la mobilità al personale delle imprese di gestione aeroportuale, obbligate da questo momento in poi anche loro al pagamento dei contributi. Arriva il 2012, e con la riforma del Lavoro Fornero la cassa straordinaria viene estesa alle imprese del trasporto aereo e del sistema aeroportuale, a prescindere dal numero dei dipendenti.
    E il nome di Alitalia (sia Linee italiane spa sia Compagnia aerea italiana) è un evergreen anche per gli ammortizzatori in deroga, cioè quelli pagati dalle casse dello Stato. Solo per l’anno 2012, la troviamo citata in 14 diversi decreti. Alla fine, la manovra messa in atto da «Berlusca» per lasciare Alitalia in mani italiane è costata, solo sul fronte degli ammortizzatori sociali, più di 2 miliardi di euro. A 5mila lavoratori è stato garantito un salario all’80% per sette anni senza che venissero impegnati in altre attività o magari riqualificati per altri lavori, o venisse offerta loro la possibilità di essere reintrodotti in azienda. E non è un caso che le cronache locali ci abbiano raccontato in questi anni diverse operazioni della Guardia di Finanza, che hanno beccato con le mani nel sacco piloti o assistenti di volo in cassa integrazione ingaggiati da altre compagnie straniere con contratti in nero, o senza che ne fosse stata data comunicazione all’Inps.





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    Tra deroghe e rabboccature, tra soldi pubblici e tassazione dei consumatori, i lavoratori della ex Alitalia sono stati lasciati in una sala d’attesa. I pochi dipendenti reintegrati nella Cai, invece, lo hanno fatto a suon di cause di lavoro. «Più che privilegiati, sono stati merce di scambio politico-sociale», ha detto al Sussidiario Mario Canale, presidente di Anelta, Associazione nazionale ex lavoratori del trasporto che sul caso Alitalia ha avviato una class action, realizzando uno studio che verrà presto presentato davanti alla Corte di giustizia europea.
    «Così ci hanno tenuti calmi», dicono tutti, «è stata una mossa politica». Senza neanche preoccuparsi di ricollocarli. Sussidi a fondo perduto, insomma. O meglio, come ripete Giuseppe, «ci hanno mandato in vacanza». La sua storia nella compagnia di bandiera italiana comincia nel 1987, quando fa una selezione come tecnico di volo. Vince il concorso, ma dopo sei anni gli dicono che di tecnici di volo l’azienda non ha più bisogno. Gli aerei sono cambiati e le tecnologie hanno fatto passi da gigante. Quindi si ricicla come assistente di volo e diventa steward. «Allora si guadagnavano bei soldini», ricorda, «il lavoro era molto meno pesante e in vent’anni mi ha dato sicurezza». Ma «è un lavoro usurante, sia dal punto di vista fisico sia per le relazioni», spiega. «Prima, dopo i voli di lungo raggio, avevamo due giorni di riposo fisiologico più i due riposo normale. Ora i giorni di riposo fisiologico sono scomparsi dal contratto. Ma anche se hai qualche giorno di riposo in più rispetto agli altri lavoratori, per gli altri non ci sei mai. Torni a casa da più otto ore del Giappone e poi magari riparti per l’Argentina. E in quei due giorni di riposo, sei come uno zombie».
    Negli ultimi tre anni della sua carriera in Alitalia, Giuseppe sceglie infatti di passare al part time. «Quando scendevo dall’aeroplano, mi tremavano le mani», racconta. «Ho pensato: “Se voglio arrivare alla pensione, devo lavorare di meno”». E così è stato. Poi è arrivata la cassa integrazione. A zero ore e con l’80 per cento dello stipendio. «I primi quattro anni di cassa integrazione con una retribuzione di circa 2.200 euro mensili, gli ultimi tre di mobilità con un guadagno di 2.900 su per giù». Niente male per un “esubero”
    E per lui è stato un po’ come andare in pensione prima. «Un toccasana», ammette, «una manna, devo ringraziare Berlusca», ride, «per come è diventato ora questo lavoro non avrei retto ancora». Così sono passati quasi sei anni di “buste paga”, senza neanche un tentativo di reintrodurlo nello staff di un altro vettore. «Non ho fatto corsi di formazione. Per fortuna non avevo bisogno di entrate maggiori, non avendo figli, quindi non mi sono riciclato con qualche lavoretto in nero. Non ho fatto nulla». Aspettando il momento della pensione, che è arrivato nel marzo 2013 non senza magagne burocratiche per via di errori nei calcoli.
    Anche Clara, alla fine degli anni di ammortizzatori pensava di raggiungere la pensione. Poi è intervenuta la riforma Fornero a “complicare” le cose e si è trovata a far parte della categoria degli «esodati non salvaguardati». Lei, 60 anni nel 2016, in Alitalia è entrata nel 1979. «Tramite l’ufficio di collocamento. Allora era ancora possibile», dice. «Cercavano una stenodattilografa con conoscenza dell’inglese. Così ho cominciato facendo la segretaria di un direttore centrale». Poi è passata allo scalo passeggeri di Fiumicino, dove si fa il check in, e al settore cargo, dove ha anche smistato le merci definite “pericolose”, dalle salme ai veleni. «Nel 2008, poi, ci hanno cacciati tutti fuori». Ma quella di Clara non è stata una “vacanza”, nonostante la sua entrata mensile, 1.400 euro circa, non fosse poi così male per una persona in cassa integrazione. «Sono stata in analisi per due anni e mi sono separata da mio marito», dice. «Non mi ha mai chiamato nessuno per fare un corso di formazione o di aggiornamento. Di essere reintegrata in Cai non se ne parlava. In questi anni hanno assunto tanti precari ma nessuno dei vecchi cassintegrati». Per lei quel 2008 è stato come un fulmine a ciel sereno. «Ci hanno dato il contentino, tenendoci calmi, i vari Berlusconi e Benetton sono apparsi come i salvatori della patria, spendendo soldi senza darci alcuna possibilità».




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    Prima ci sono la rabbia e la delusione di ricevere uno stipendio senza far nulla, «poi ci siamo riciclati. Sono entrata a far parte del comitato in difesa degli ex lavoratori Alitalia e in questi anni mi sono dedicata al principale dei miei hobby, il vino, prendendo un diploma da sommelier, facendo qualche collaborazione estemporanea, ma senza alcun pagamento». Un lavoro, continua, «l’ho pure cercato, da sola ovviamente. C’ho provato. Ma sono del ‘56 e alla mia età non mi si fila più nessuno. E certo con una figlia non posso accettare lavoretti a 900 euro al mese». Clara è una di quelle che ha fatto le battaglie negli anni Settanta per l’affermazione delle donne nel mercato del lavoro e proprio non riesce a spiegarselo «come lo Stato abbia inventato una cosa del genere. Per chi non raggiungeva la pensione nei sette anni, bastava prevedere un rientro, qualcosa. Ci sono persone alle quali mancano ancora 15 anni per arrivare alla pensione. Avrebbero tranquillamente accettato un abbassamento dello stipendio». Ora Clara, esodata non salvaguardata, andrà in pensione con 900 euro al mese, 300 euro in meno del previsto. «Me li farò bastare», dice. «In questi anni ci hanno dipinto come approfittatori e privilegiati, ma raccontavano solo le storie dei piloti in cassa a 10mila euro, non quelle come la mia. I primi tempi addirittura mi vergognavo di dire che ero una cassintegrata di Alitalia».
    Ma se Giuseppe ha raggiunto la pensione negli anni coperti dagli ammortizzatori sociali e Clara ce la fa per un pelo, c’è anche chi dopo sette anni si trova senza un lavoro senza saper fare nulla di nuovo rispetto a prima. «Dopo aver spinto carrellini su e giù per l’aereo», dice Giuseppe, «l’inglese lo dimentichi perché dici sempre le stesse cose. E non puoi neanche riciclarti come barman visto che in aereo distribuisci il cibo di bordo e i cocktail non li sai nemmeno fare».
    La ?vacanza? infinita dei cassintegrati Alitalia | Linkiesta.it

  2. #2
    vae victis
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    Predefinito Re: La “vacanza” infinita dei cassintegrati Alitalia

    Sindacati e Berlusconi vergognosi come sempre .Che schifo.
    Regressista amante della pucchiacca.

  3. #3
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    Predefinito Re: La “vacanza” infinita dei cassintegrati Alitalia

    la fornero ha esteso il provvedimento a tutto il settore aeronautico altrimenti era un'ingiustizia fatta solo per alitalia.... e io che ero precario me la sono presa nel **** senza manco un mese di aiuti....

 

 

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