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    Predefinito "Lo spirito di Destra e lo spirito di sinistra" di G. Thibon

    Lo spirito di Destra e lo spirito di Sinistra

    di Gustave Thibon


    E' facile definire l'uomo di sinistra come un invidioso o come un utopista, e l'uomo di destra come un soddisfatto o un "realista". Queste formule ci dicono assai poco sulla vera differenza interiore fra questi due tipi di umanità.

    Cerchiamo di vederci più chiaro. Se richiamiamo alla mente, in ogni campo, alcune delle personalità superiori (solo esse, forse, sono capaci di fornire l'ingrandimento necessario per scoprire delle essenze) si impone la constatazione seguente: il grande uomo di destra (Bossuet, De Maistre, Maurras, ecc.) è profondo e angusto, il grand'uomo di sinistra (Fénelon, Rousseau, Hugo, Gide, ecc.) è profondo e torbido. Possiedono entrambi tutta l'apertura umana: portano nelle loro viscere il male e il bene, il reale e l'ideale, la terra e il cielo. Ciò che li distingue è questo: l'uomo di destra, lacerato fra una visione chiara della miseria e del disordine umano e il richiamo di una purità che non si può confondere con alcuna realtà a lei inferiore, tende a separare, energicamente, l'ideale dal reale; l'uomo di sinistra, il cui cuore è più caldo, ma lo spirito meno lucido, è incline piuttosto a confonderli. Il primo, preoccupato di garantire all'ideale la sua altezza e la difficile sua accessibilità, fiuterà volentieri odor di disordine negli "ideali" che circolano per il mondo; il secondo, premuroso di realizzare i suoi nobili sogni e forse un poco schivo delle severe ascensioni sarà portato a idealizzare il disordine. Da una parte si mescola, dall'altra si disgiunge...

    Imbavaglia e mortifica il demone che è in te e nel mondo, dice lo spirito di destra. Fanne un angelo, ci sussurra lo spirito di sinistra. Il guaio è, in quest'ultimo caso, che si può in misura infinitamente più facile travestirlo che trasformarlo.

    L'ascetismo è a destra, il quietismo a sinistra. Il duello tra Fénelon e Bossuet riveste, da questo punto di vista, un immenso significato umano. Bossuet aveva presentato, nel quietismo, il primo indizio, ancora timido e velato, di quella catastrofica confusione di Dio e dell'uomo, che doveva caratterizzare l'età moderna. La corruzione quietista equivale, sul piano religioso, alla corruzione democratica sul piano politico: l'una e l'altra sono il frutto della premura febbrile che anima l'essere impotente il quale, privo ormai di forze per lottare e di riserve per attendere, si affretta, - per realizzare, senza ritardo e senza fatica, il suo sogno di pienezza e di felicità, a confonderlo con qualsiasi cosa. Il quietismo e la mistica democratica consistono nel bruciare le tappe - in sogno! La febbre è a sinistra.

    I grandi pessimisti cristiani, come Pascal o De Maistre, non hanno certamente meno nobiltà o generosità di qualsivoglia altro spirito di sinistra, essi hanno semplicemente una coscienza tragicamente viva dell'abisso che si spalanca tra ciò che è l'uomo e ciò a cui è chiamato: essi sono scettici per rispetto della verità suprema, realisti per amore della realtà del loro ideale. -
    Ci si risponderà: la visione e il riconoscimento sincero della miseria dell'uomo sarebbero dunque sentimenti di destra? Eppure, ecco a sinistra questa premura della verità, questa tendenza a strappar la maschera a ogni cosa, a mettere a nudo tante bassezze indebitamente idealizzate (il freudismo e il marxismo, per esempio, sono a sinistra), mentre a destra si osserva piuttosto il farisaismo, l'oscurantismo, la pia fraus... Potremmo replicare che ci sono anche a destra dei grandi smascheratori (un Pascal, un Nietzsche, ecc.). Ma tuttavia, bisogna confessare che, generalmente parlando, il bisogno di esplorare il sottofondo volgare o impuro dell'uomo e della società è un sentimento di sinistra. L'uomo di destra sente troppo la realtà della bassezza umana per provare il bisogno di gridarla sui tetti, sente altresì istintivamente i pericoli che comporta una simile esibizione, prova infine, di fronte alle miserie dell'umanità, una specie di pudore doloroso che lo porta ad allontanare lo sguardo (tale pudore, di natura essenzialmente aristocratica, degenera, nel tipo "borghese", in farisaismo ipocrita).

    E qui assistiamo a questo curioso paradosso. I politici, i moralisti, gli educatori, ecc. di destra, teoricamente trascurano la bassezza degli uomini e sembrano perfino idealizzare ipocritamente la natura umana (vedi per esempio la loro concezione un po' semplicistica dell'"anima", della "virtù", della "patria", ecc.), ma, praticamente, trattano l'uomo con la prudenza e la severità che la sua miseria esige (i climi spiritualisti furono sempre rigidi); quelli di sinistra, all'opposto, gridano ai quattro venti la materialità e l'impurità fondamentale delle tendenze umane (per esempio le teorie marxiste e freudiane); solo che, dopo questa discesa puramente speculativa agl'inferi, trattano l'uomo da angelo, e il loro ottimismo pratico è illimitato.

    Allora qual è il segreto motore di questa furia smascheratrice? Il desiderio di sorpassare oppure di combattere ciò che l'uomo ha di inferiore o di vile? Il fondamentale anti-ascetismo di tutti questi smascheratori dimostra a sufficienza il contrario. L'anima della loro sincerità è ancora - la sete di idealizzare la bassezza umana! Quando si è provato che gli "ideali" dell'uomo non sono che travestimenti dell'istinto sessuale (freudismo) o moventi economici (marxismo), cioè che la carne e la materia sono l'unica realtà, quale aureola appare contemporaneamente attorno alla materia e alla carne! L'uomo di sinistra stigmatizza a gran voce il male del mondo, ma quel male, in fondo, non lo prende sul serio: per lui esso non è che un accidente superficiale ed effimero; un po' di tempo ancora e svanirà al soffio del "progresso", della "rivoluzione", ecc. Vi sono ancora, certamente, dolorose situazioni psicologiche dovute ai conflitti sessuali, vi sono pure crudeli ingiustizie sociali, ma tutti questi mali spariranno dal giorno in cui l'uomo avrà veramente preso coscienza della realtà sessuale e della realtà economica.

    L'ottimismo freudiano e l'ottimismo marxista sovrabbondano di preziosi insegnamenti: per l'uomo di sinistra, il male illuminato e denunciato è già pressoché guarito, il quale non è in fondo che un malinteso, una specie di posizione falsa presa nel sonno dall'umanità... Vi è forse un modo più sottile e pericoloso di idealizzare il male del presentarlo così esteriore e curabile, evolventesi con tanta sicurezza verso un bene e un equilibrio universale?

    Ma i profeti della rivoluzione denunciano proprio la bassezza umana? No, perché fanno di tale bassezza, l'essenza dell'uomo. Ciò che essi denunciano non è la materia o il peccato (anzi, vi si adattano molto bene, perché non vedono niente al di là), ma il tormento e il dolore inerenti alla materia e al peccato. Dalla materia e dal peccato finalmente organizzati, sviluppati, pervenuti alla piena coscienza e al pieno possesso di sè, essi sperano veder scaturire un paradiso. Possiamo così capire ciò che significhi questa premura di denunciare e di sopprimere tutte le miserie umane. La sventura potrebbe far pensare al peccato: si è quindi indotti a farla finita con il corteggio di dolori che la bassezza dell'uomo trae seco, affinché non vi siano più - finalmente! - obbiezioni contro tale bassezza. Si perseguita il dolore per meglio canonizzare il peccato...

    Infatti il primo compito (e quanti ideali morali e politici si fondano su questo desiderio!) è di rendere indolore la bassezza, di addomesticare e castrare il peccato. Questi idealisti accettano ogni aspetto della caduta - salvo l'aculeo del castigo. Essi cercano e implorano una specie di quiete divina, nella vanità - nella povera gioia e nel povero orgoglio dell'uomo caduto. Non dubitano della fondamentale divinità di quell'uomo e lo spettacolo del male è quindi per loro insopportabile. Fin che il male sussisterà sarà impossibile adorare l'uomo senza riserve: un dio non può e non deve soffrire! Conclusione: volontà di cancellare il male-peccato come un mito, e il male-dolore come un accidente. Dopo di che, tutto nell'uomo sarà ben mescolato, confuso, divinizzato! -Tutto è Dio quando non vi è più né sommità né gerarchia. L'anarchia realizza il cielo a buon mercato.

    Rigidità a destra, promiscuità a sinistra. In tutti i campi l'uomo abbandonato a sè stesso non può che oscillare fra questi due scogli. E in ogni campo, solo un clima morale e sociale vitalmente cristiano può risparmiargli questa scelta amara. Gli abissi della ribellione e della miseria umana, la durezza ascetica di destra li ostracizza, la corta follia di sinistra li traveste, ma il cristianesimo li trasfigura. - A sinistra la vastità impura e febbricosa della palude, in cui si mescolano acqua e terra, miasmi e rugiada, - a destra la purità augusta e gelida delle rigide montagne, - in alto la suprema ampiezza del cielo puro, tenero e senza fondo - del cielo più vasto della pianura, più alto e più vergine delle montagne.


    Gustave Thibon
    Credere - Pregare - Obbedire - Vincere

    "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo" (Ger 17, 5).

  2. #2
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    Predefinito Re: "Lo spirito di Destra e lo spirito di sinistra" di G. Thibon

    Citazione Originariamente Scritto da Thibon Visualizza Messaggio
    Ma i profeti della rivoluzione denunciano proprio la bassezza umana? No, perché fanno di tale bassezza, l'essenza dell'uomo. Ciò che essi denunciano non è la materia o il peccato (anzi, vi si adattano molto bene, perché non vedono niente al di là), ma il tormento e il dolore inerenti alla materia e al peccato. Dalla materia e dal peccato finalmente organizzati, sviluppati, pervenuti alla piena coscienza e al pieno possesso di sè, essi sperano veder scaturire un paradiso. Possiamo così capire ciò che significhi questa premura di denunciare e di sopprimere tutte le miserie umane.
    no Tommaso ha detto che Simone Weil è idealista perché non si capacita di come dalla dinamica immanente alla materia dovrebbe scaturire quello che Tommaso non idealista ha chiamato "fuoriuscita dalla preistoria" e "paradiso" (prefigurato dagli antichi testi sacri ma realizzantesi socialmente in virtù di una logica materiale prescindente dalle intenzioni ideali e morali del soggetto)
    Ultima modifica di Troll; 05-04-14 alle 21:30

  3. #3
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    Predefinito Re: "Lo spirito di Destra e lo spirito di sinistra" di G. Thibon

    comunque Giò:

    La differenza fondamentale fra il religioso e il rivoluzionario è che il primo mira al rinnovamento della società attraverso il rinnovamento dell’uomo, il secondo al rinnovamento dell’uomo attraverso il rinnovamento della società. Sono due diversi modi di concepire la «trasformazione». Tutti e due partono dalla stessa esigenza di una trasformazione radicale e per questo sono confrontabili. (Non avrebbe senso stabilire un confronto fra una concezione religiosa della storia e una concezione prammatica, o fra una concezione rivoluzionaria e una scettica o fatalistica, perché sarebbero incommensurabili). Sono confrontabili, il religioso e il rivoluzionario, perché tutti e due provano una profonda insoddisfazione del mondo e credono fermamente che possa esistere vicino o lontano, prossimo o futuro, qui o altrove, un mondo diverso in cui gli uomini vivranno come fratelli, liberi ed eguali. «Liberté, égalité, fraternité» è un ideale insieme religioso e rivoluzionario. Si può dire in sintesi che tanto il religioso quanto il rivoluzionario sono accomunati dall’aspirazione verso l’«uomo nuovo» e dalla ferma fiducia nella sua realizzazione. Il tema dell’uomo nuovo è un tema che serve a contraddistinguere il rivoluzionario dal riformista, dal gradualista, e a maggior ragione dal conservatore che ha una concezione statica, ripetitiva, e per questo tragica, della storia: il tema dell’uomo nuovo è un tema religioso per eccellenza, è il tema alla presenza del quale si suole dire a ragione che una concezione rivoluzionaria della storia è il prolungamento di una concezione religiosa (il prolungamento o la distorsione secondo i punti di vista). L’uomo nuovo, il «novello Adamo», ovvero la fine di una corruzione, di una decadenza, di una degenerazione durata millenni, implica una seconda nascita, una «rinascita»: non si può disgiungere l’idea della rivoluzione da quella della rinascita. Ma il rivoluzionario – e qui sta la differenza profonda – ha imparato o crede di aver imparato dalla lezione della storia che nonostante i lunghi secoli di predicazione religiosa, in particolare del cristianesimo, religione dominante se non addirittura esclusiva nei paesi in cui è nata l’idea della rivoluzione, l’uomo nuovo non è nato: anzi, in questa ultima fase della sua storia – ultima prima della grande trasformazione –, la fase della grandezza e decadenza della borghesia, che ha dato origine alla società capitalistica e all’imperialismo suo prodotto
    naturale, l’uomo che la caratterizza, il borghese appunto, ha sviluppato sino alle estreme piú distruttive conseguenze tutte le facoltà antitetiche a quelle del cristiano (onde la predicazione antiborghese delle chiese cristiane è sempre andata di pari passo con la critica politica dell’oratore comunista o socialista o anarchico, e spesso dal pulpito e dalla tribuna è stata pronunciata la stessa condanna): l’egoismo, l’avidità del denaro, il disprezzo del debole, l’insaziabile sete per il dominio dei beni di questo mondo, la mancanza di scrupoli nella lotta quando l’oggetto della contesa è il proprio interesse, l’elevazione della ricchezza a simbolo di grandezza e a prova di virtú, lo spirito di aggressività esaltato come forza virile, la mitezza o la misericordia o la compassione, virtú cristiane per eccellenza, derise come espressioni di debolezza o peggio di viltà e via enumerando (inutile insistere su questa antitesi che molti di noi, educati contemporaneamente all’etica cristiana e all’etica borghese, hanno vissuto e inconsapevolmente accettato senza apparenti lacerazioni sino all’età delle grandi scelte). Se l’uomo nuovo non è nato, anzi ha continuato a rinascere l’uomo vecchio e continua a dominare il mondo intero la violenza del conquistatore che si prolunga nell’astuzia del mercante, vuol dire che le prediche morali non sono sufficienti. Occorre trasformare i rapporti sociali che rendono possibile la perpetuazione del vecchio Adamo. Il rivoluzionario nasce quando nella critica della società si fa strada la convinzione che l’umanità può essere salvata, la salvezza non può derivare che dalla trasformazione dell’uomo, e la trasformazione dell’uomo non può derivare se non dalla trasformazione della società. Siccome una concezione di questo genere, cosí come è stata elaborata dal gran padre di tutte le rivoluzioni contemporanee, riposa sulla convinzione che l’elemento spirituale derivi, anzi sia condizionato, dall’elemento materiale, si suole contrapporre la concezione materialistica del rivoluzionario a quella spiritualistica o idealistica (se pure in un’accezione non del tutto corretta) dell’uomo religioso. Non ho mai dimenticato dalla prima volta che l’ho letta l’affermazione perentoria di Lenin: «Idealismus ist Pfaffentum» («L’idealismo è roba da preti»). Un’affermazione che ha avuto un’infinità di consapevoli o inconsapevoli ripetitori e che provenendo dal piú grande capo rivoluzionario della storia (dal primo artefice di una rivoluzione finalmente riuscita) può essere assunta a principio discriminante fra la via sbagliata, che sinora l’umanità ha seguito essendo partita dall’alto invece che dal basso, e l’unica giusta che è quella di partire dal basso, cioè dalla trasformazione dei rapporti materiali anziché dalla riforma interiore.
    È troppo presto per dire se la ragione stia dalla parte del rivoluzionario. Se è vero che il tribunale della storia è la storia universale bisogna dar tempo al tempo. Sono occorsi secoli per far nascere il sospetto che la via tradizionale fosse destinata al fallimento: riusciva a convertire questo o quell’individuo non l’umanità nel suo complesso che ha continuato a perpetuarsi nel dolore, nella sofferenza, nella sopraffazione del forte sul debole, nell’oppressione, nella diseguaglianza, in una guerra perpetua in cui i vincitori di ieri sarebbero stati i vinti di domani, nonostante tanti esempi sublimi di nobiltà, di pietà, di carità, di passione per la giustizia. Certo l’esempio che abbiamo sotto gli occhi, l’universo sovietico, non è tale da infonderci molta fiducia nella verità del rovesciamento. Ma indipendentemente dal giudizio sugli effetti di quella che si potrebbe chiamare, parodiando una formula del linguaggio politico corrente, la via rivoluzionaria all’uomo nuovo, un giudizio che potrebbe essere, ripeto, prematuro, devo confessare i miei dubbi. Non pretendo di sostituirmi alla storia universale, la cui sentenza è di là da venire (per chi ci crede naturalmente), ma qualche cosa abbiamo pur appreso dalla storia passata e dalla presente, e possiamo trarne qualche riflessione, o per lo meno arrischiare qualche congettura.
    La teoria rivoluzionaria, ridotta all’osso, riposa sulla convinzione che il male della storia derivi da una causa specifica ed esclusiva, il succedersi di forme della produzione materiale che hanno perpetuato, se pure in diversi gradi e con diversa intensità, la divisione dell’umanità in classi contrapposte. Non dico che l’affermazione secondo cui il male della storia dipenderebbe dalla malvagità dell’uomo, la quale a sua volta sarebbe derivata da una colpa originaria, non mai del tutto espiata ed espiabile, sia una spiegazione piú convincente. Anzi ritengo che la teoria materialistica della storia, in quanto sostituisce a una spiegazione mitica una spiegazione ricavata dall’osservazione dei fatti, sia metodologicamente piú corretta, e debba essere presa seriamente in considerazione e criticata, se deve essere criticata, con lo stesso metodo. Ma ritengo anche che soffra dello stesso errore della concezione che combatte, ovvero della reductio ad unum delle cause della perversione storica. Non pretendo di aggiungere nulla a quello che è stato detto e ridetto mille volte (ma repetita iuvant): se per lotta di classe s’intende la lotta fra la classe dominante e la classe dominata, bisogna pur riconoscere che il teatro della storia presenta ben altri protagonisti e spesso ben piú terribili, che sono le classi dominanti in lotta fra loro, del cui dominio le classi dominate sono sempre state strumenti passivi o vittime innocenti (la tesi oggi in voga che sono le masse a fare la storia è una delle piú macabre invenzioni della sinistra dottrinaria che offre ideologia presentandola come scienza). Ho l’impressione che la sopravvalutazione della lotta di classe come motore della storia ai tempi di Marx dipendesse da queste due ragioni: la vicinanza alla Rivoluzione francese che gli stessi storici borghesi avevano interpretato come una lotta di classe e la perdurante esemplarità della storia romana (da Machiavelli a Vico, a Montesquieu) in cui aveva avuto gran parte la lotta secolare fra patrizi e plebei. (Ma non ne aveva avuta di meno la altrettanto secolare lotta fra Roma e Cartagine). Mi limito ad osservare che la reductio ad unum serve egregiamente al rivoluzionario: anzi una concezione rivoluzionaria della società può fondarsi soltanto su una interpretazione estremamente semplificata della storia. Il rivoluzionario deve credere di aver trovato la chiave che apre tutte le porte. Ma deve prima di tutto presupporre che tutte le porte abbiano la stessa serratura. Altrimenti come farebbe ad aprirle? E se non riesce ad aprirle tutte, dove va a finire la rivoluzione? Ma appunto questo nesso fra miraggio rivoluzionario e interpretazione riduttiva della storia non può non suscitare qualche sospetto sulla genuinità, oggettività e veridicità di quest’ultima.
    Il fascino della teoria rivoluzionaria è la sua semplicità: sinora la storia umana è stata una storia di lacrime e di sangue; la stragrande maggioranza degli uomini sono vissuti nell’indigenza, hanno sofferto l’oppressione e la fame; ogni passaggio da una fase all’altra dello sviluppo storico, ogni «transizione», è avvenuta mediante la violenza (sí, è proprio vero che la violenza è sempre stata la levatrice di ogni nuova società); ma sinora si è sempre creduto, o si è fatto interessatamente credere, che tutto dipendesse dalla volontà imperscrutabile e immodificabile di un dio ignoto, o dalla natura, scrutabile, sí, ma altrettanto immodificabile, dell’animale uomo. E invece no: il «male» della storia è l’effetto delle forme di produzione che sinora si sono susseguite da quando l’uomo è uscito dal grembo della natura; specie dell’ultima, la forma di produzione capitalistica, che ha moltiplicato, ingigantito e acuito le ragioni di conflitto ma fortunatamente ha anche gettato le premesse per il suo superamento. Eliminiamola, e in questo modo avremo avviato il passaggio, la «transizione», dal regno della necessità al regno della libertà. Non mi si dica che sto facendo una caricatura del marxismo. So distinguere Il Manifesto che è un testo di propaganda politica dalla critica dell’economia politica. Ma il nucleo del pensiero rivoluzionario in quanto si contrappone al pensiero religioso è proprio qui: nell’idea che il «male» derivi non da Dio né dalla natura, ma unicamente dalla storia, e, siccome la storia è fatta dall’uomo, sia eliminabile con una riforma radicale delle istituzioni che l’uomo sinora si è dato per regolare la propria vita in comune, prima fra tutte la proprietà individuale considerata la fonte principale della corruzione, della guerra di tutti contro tutti, infine, come aveva affermato perentoriamente il primo grande scrittore rivoluzionario, della «diseguaglianza fra gli uomini». (Ma Rousseau era un pensatore insieme rivoluzionario e religioso, che perseguí contemporaneamente la riforma delle istituzioni attraverso il Contratto sociale, e quella dell’uomo, attraverso l’Emilio: di qui la sua ambiguità, che ha dato tanto filo da torcere agli interpreti, ambiguità che in Marx, in Engels, in Sorel, nella maggior parte della tradizione marxistica, ad eccezione forse di Gramsci, non c’è piú, tanto è vero che da questa tradizione non è venuto fuori un libro paragonabile all’Emilio). Che il nucleo originario del pensiero rivoluzionario contrapposto al pensiero religioso stia nella interpretazione sociale e istituzionale del male, onde non è vero che le istituzioni sono perverse perché l’uomo è malvagio (o per lo meno la maggior parte degli uomini sono malvagi) ma l’uomo è malvagio (o per lo meno la maggior parte degli uomini sono malvagi) perché le istituzioni sono perverse, mi pare dimostrato dalla fiducia assoluta di ogni rivoluzionario (se non fosse assoluta che razza di rivoluzionario sarebbe?) nella radicalità del mutamento storico attraverso l’abbattimento di quell’insieme di istituzioni che costituiscono il sistema capitalistico, e nella sua sostituzione con un altro sistema. [continuerebbe]

    Norberto Bobbio, "L'ideologia dell'uomo nuovo" (1978), riportato nella raccolta "Teoria generale della politica" (2014 Einaudi e Scribd)
    Ultima modifica di Troll; 05-04-14 alle 21:44

 

 

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