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    Predefinito Rif: Breve elogio dell'Uomo Selvatico

    Citazione Originariamente Scritto da Silvia Visualizza Messaggio
    E il dio Pan, forse il predecessore assoluto dell'Uomo selvatico, quasi un'antropomorfizzazione della natura.
    L'uomo-capro che, con la sua irrefrenabile sessualità, simboleggia la forza generatrice della natura.
    E c'è chi è convinto che la natura non sia "intelligente".
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 30-05-10 alle 19:48

  2. #12
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    Predefinito Rif: Breve elogio dell'Uomo Selvatico

    C'è in Italia una curiosa credenza che stenta a sparire essendo radicatissima sia nella tradizione popolare che in quella dotta, piuttosto diffusa in tutto il territorio nazionale e ben oltre. Si tratta della figura dell'Uomo Selvatico, ovvero omo salvatico com'è conosciuto nella letteratura e nella saga popolare.




    Carlo Lapucci

    IL DEPOSITARIO DI UN'ANTICA SAPIENZA: L'UOMO SELVATICO


    Stralcio da un articolo pubblicato su Abstracta n° 26, Stile Regina editrice ( maggio 1988)




    Immagine tratta da Art profane et religion populaire au moyen àge,
    C. Gaignebet e J. D. Lajoux (P.U.F., Parigi 1985



    Ni dialetti l'Uomo Selvatico assume nomi diversi: nel Trentino è detto Om Pelos; Omo Salvadego in Valtellina; Ommo Sarvadzo in Val d'Aosta; Om Salvadegh in Val Pusteria; Wilde Mann nel Tirolo... Come conserva in genere la sostanza del nome, così mantiene di solito anche i connotati fondamentali che variano di poco da tradizione a tradizione, tranne forse il fatto che in alcune leggende delle Alpi (1) diviene feroce e sanguinario, cosa che resta estranea alla maggior parte delle credenze dove si vuole questa strana creatura mite e pacifica, talvolta timida e scontrosa (2). Oltre al fatto di vivere nei boschi e apparire raramente in mezzo agli uomini, vestito d'indumenti rozzi e primitivi, l'Uomo Selvatico è conosciuto universalmente per una particolarità che non risulta appartenere ad altri che a lui, al contrario di quanto spesso avviene per le figure fantastiche popolari: egli infatti ha la strana prerogativa di rallegrarsi quando piove e di rattristarsi fino a piangere quando è bel tempo, per la stravagante considerazione (3) che se c'è il sole si deve prevedere che dovrà poi venire la pioggia e, se piove, prima o poi dovrà venire il sole...La credenza si trova già nel Dittamondo (4) di Fazio degli Uberti (morto, forse a Verona, dopo il 1368), dove si legge (V, 25): Come si allegra e canta l'uom salvatico quando il maltempo e tempestoso vede, sperando nello buono, ond'egli è pratico...
    Se non si riferisse a una figura così antica, misteriosa e conosciuta, questa notazione potrebbe essere considerata come una divertente curiosità; ma in questo caso il fatto merita una più seria considerazione. Infatti non è da escludere che si nascondano, dietro la banale diceria, antichissimi rituali di previsione o propiziazione del tempo, ovvero operazioni scaramantiche, collegate ad altre diffuse credenze popolari, secondo le quali non è bene rallegrarsi troppo del benessere e della buona sorte perché ciò provoca l'invidia, se non la vendetta, di chi governa il destino. […]

    L'uomo delle selve presenta elementi sui quali sono concordi le varie tradizioni locali. L'aspetto ad esempio non è affatto orripilante: non è giovanissimo, ma nemmeno vecchio, è coperto di pelo, in genere fulvo, tranne le mani e il viso, che è un po' caprino; talvolta calza grosse scarpe di corteccia d'albero, è vestito in genere di pelli, cammina un po' goffamente appoggiandosi a un bastone che ha una parentela molto stretta con la clava (4). Le apparizioni dell'uomo dei boschi sono rare, ma preziose per chi lo incontra: sembra, più che uno strano eremita, il depositario d'una sapienza antica, che comunica a chi lo accoglie amichevolmente. Ha infatti insegnato agli uomini a fare dal latte il burro e il formaggio (5), a usare la cera delle api per fare le candele, a innestare le piante e a usare tanti altri accorgimenti.
    Qualcosa farebbe pensare che sia uscito fortunosamente da una civiltà superiore: unisce infatti a queste conoscenze un grande disinteresse per i beni e il denaro: fugge via non appena gli uomini, accortisi delle sue capacità, cercano di sfruttarlo. Allora è inutile richiamarlo, promettendo e scongiurando. Questo distacco, unito alla semplicità e alla sapienza, ha fatto pensare all'uomo dell'età dell'oro che i poeti come Lucrezio e Ovidio descrivono come saggio, misurato e semplice, vestito di pelli, senza egoismo né vizi. Non è da escludere che in questa figura si nasconda l'immagine dell'uomo rimasto fuori dalla civiltà, rifiutando vantaggi e comportamenti di nuove culture e conservando una sorta di primitiva gentilezza, unita a qualcosa che potrebbe definirsi nobiltà d'animo. Interessante a questo proposito l'identificazione che è stata fatta tra il Selvatico ed elementi, fantastici o reali, che vivono appartati dalla società, come il dio Pan, l'eremita, il carbonaio (6), l'Orco.

    Uno dei poemi più antichi dell'umanità ci fornisce, nella linea di questa interpretazione, un prototipo dell'uomo dei boschi della tradizione babilonese e assira. Nell'Epopea dì Gilgames (7) si trova appunto Enkidu, il compagno dell'eroe principale, che vive fuori della piccola cittadella di cui è signore Gilgames. Enkidu «... non conosce né la gente né il paese, è vestito d'un abito come Sumuqan. / Assieme alle gazzelle egli mangia le erbe, / assieme al bestiame accorre ai luoghi di abbeverata, / assieme al brulicame si compiace dell'acqua...» (Tavola I, Colonna II). Ha dichiarato guerra a chi vive nella comunità: strappa le tagliole e libera gli animali, riempie i pozzi che sono stati scavati... Gilgames riuscirà a trarlo nella sua alleanza solo mediante i buoni uffici d'una donna che lo fa innamorare e, abbandonati i suoi antichi modi di vita, Enkidu perde la sua comunione naturale con gli animali e le piante e parte con l'amico per grandi imprese.
    Anche l'Uomo Selvatico ha un lato debole; nelle zone alpine (8) la tradizione si arricchisce d'un particolare altrove sconosciuto: vivendo solitario in una grotta, che spesso diviene un toponimo del tipo Grotta dell'Uomo Selvatico, talvolta si avvicina alle abitazioni e rapisce una ragazza portandola a vivere nel suo abituro. I pastori, quando scoprono il ratto, organizzano battute per liberare la giovane che il Selvatico restituisce, ma addolorato abbandona subito il luogo per non farsi più rivedere. […]




    Uomo selvatico del Castello di Rodengo (Bressanone)


    Non meraviglia trovare, dati i suoi precedenti, l'Uomo Selvatico come un modello, uno strumento polemico, un punto di riferimento nella polemica contro i mali derivanti dalla vita sociale, dallo stato di cultura, dalla civiltà e il progresso. Il pensiero corre immediatamente alle favole dell'età dell'oro e al buon selvaggio degli illuministi. Nella tradizione popolare tuttavia questa figura non sembra avere ambizioni d'incarnare una qualche protesta o contestazione dell'ordine civile. L'Uomo Selvatico si presenta, nei suoi singolari comportamenti, come un «filosofo», così come s'intende questo tipo umano nel linguaggio della strada. Quando, in particolare una volta, si definiva una persona come «filosofo», s'intendeva rifarsi a un modello non molto lontano dall'antico Diogene. Ancora ci si riferisce a qualcuno «troppo intelligente» per vivere una vita normale: la sua ragione, avendo sopraffatto il buon senso, non gli permette di vedere i termini reali dei problemi per cui almanacca e astrologa cose ai più incomprensibili e vive tormentato dalle sue chimere e dalle sue fissazioni, isolato, poco amico del sapone e del barbiere, dicendo tuttavia, ogni tanto, delle grandi verità. Si rintraccia, se mai, nei comportamenti che vengono attribuiti al Selvatico una certa nostalgia per la semplicità e la naturale bontà d'un passato remoto del genere umano, nonché la diffidenza verso i mutamenti che il tempo impone nella vita sociale.
    Il mondo tradizionale ha un'idea della storia diametralmente opposta a quella generale del nostro tempo: Hegel è passato invano e perdura ancora il paganesimo sopravvissuto ai secoli, al cristianesimo e che arriverà a distruggere forse soltanto l'epoca industriale.
    Invece d'un progresso senza limiti, continuo e inarrestabile, gli antichi vedevano nella storia una generale e continua degenerazione dell'umanità, a dispetto di ogni progresso tecnologico: dall'età dell'oro passando per quella dell'argento e del ferro e gli uomini si sarebbero fatti sempre più falsi e maligni.
    La visione pagana del mondo è rimasta in modo consistente nel fondo della tradizione popolare e soprattutto in quella contadina. In un'infinità di particolari, di comportamenti, di credenze, riaffiorano i tratti d'un pensiero antico: dietro il culto dei santi appaiono i tratti degli antichi dèi; riti magici e streghe sono rimasti quelli che si trovavano descritti in Orazio (9); le credenze e le superstizioni si ritrovano nei testi classici a cominciare dalla Naturalìs Hìstoria (18) di Plinio il Vecchio.
    L'Uomo Selvatico, pur restando nei boschi e pur mantenendo la sua vita misteriosa, è divenuto una figura familiare nei detti e nelle storie: non molti anni fa era facile trovare persone che giuravano d'averlo visto e d'averci parlato. In molte zone si usava addirittura durante la vendemmia, la raccolta delle noci e dei frutti, lasciare sulle piante qualcosa che gli servisse di nutrimento nel periodo invernale (10).
    Rarissime le apparizioni delle donne che non possono essere considerate come compagne dell'uomo dei boschi che mai è stato visto con una di loro. Del resto, in questo caso, che bisogno avrebbe avuto di rapire le fanciulle, con le quali peraltro pare che si comporti con gentilezza e umanità?
    Il tratto che più lo distingue è certamente l'originalità, la pervicacia nell'inseguire uno schema antico di vita, nel fuggire l'artificiosità e la convenzione, riproducendo lo schema del vecchio refrattario alle novità, innamorato dei tempi andati, depositario d'una antica esperienza, segnato da una scontrosa e ringhiosa benevolenza.


    NOTE

    (1) Cfr.: G. Sebesta, Fiaba — Leggenda nell'alta valle del Fersina, S. Michele all'Adige 1973. Talvolta è difficile ascrivere una figura fantastica a una tipologia come in questo caso il Patau. Comunque non sono infrequenti i casi in cui i contornì del Selvatico sfumano e appaiono quelli dell'Orco, del demonio, del cacciatore feroce. Tale è anche quello descritto in Ugo Baldesi, Sulle tracce dell'omoselvatico; in AR - Notiziario turistico, Arezzo, marzo-aprile 1987, nn. 125-126.
    (2) V.: G. Sebesta, cit. e L. Merci, Le più belle leggende dell'Alto Adige, Trento 1984. Questa caratteristica è comunemente attribuita al Selvatico anche nel Centro Italia.
    (3) Anche questo è un altro elemento costante, direi distintivo di questa figura. A chi si rallegra per qualche notizia spiacevole si usa dire: «Fai come l'Uomo Selvatico?». V.: AA.VV., Guida ai misteri e segreti di Firenze e della Toscana, Sugar, Milano, s.i.d.
    (4) Riferiamo quello che riportano più comunemente le tradizioni che sembrano collegare questa figura al mondo pastorale e quindi con indosso pelli di capra o di pecora. V. : AA. VV., Guida alla Lombardia misteriosa, Sugar, Milano 1968.
    (5) Anche questo particolare costituisce un elemento fondamentale della figura universalmente attribuitole; cfr.: G. Giannini, Leggende popolari lucchesi in: Archivio per lo studio delle tradizioni popolari italiane, VII, 1888, p. 491; G. Plazio, La cera, il latte, l'uomo dei boschi. Mitologìa e realtà sociale in una comunità prealpina, Giappichelli Ed., Torino 1979
    (6) C. Rosati suggerisce l'identificazione del Selvatico con la figura del carbonaio in ambiente toscano facendo interessanti considerazioni. V.: C. Rosati, [/i]Il carbonaio. Un uomo nero per l'immaginano collettivo[/i], in: L'Uomo Selvatico in Italia, Museo Nazionale delle arti e tradizioni popolari, ottobre-novembre 1986.
    (7) Miti babilonesi e assiri, a cura di G. Furlani, Sansoni, Firenze 1958.
    (8) U. Cordier, Guida ai draghi e ai mostri in Italia, Sugar, Milano 1986; AA. VV., Guida ai misteri e segreti di Torino e del Piemonte, Sugar, Milano 1970
    (9) Orazio, Satire, a cura di Mario Ramous, Garzanti, Milano 1987.
    (10) U. Cordier, Guida ai draghi... cit. Ootto: l'uomo delle foreste (G. Gesner, Leones anumaliumi quadrupedum, vivi parorum et oviparorum, Froschoverus, Tiguri 1560).



    Carlo Lapucci – Articolo pubblicato su Abstracta n° 26, Stile Regina editrice ( maggio 1988)

  3. #13
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    Predefinito Re: Breve elogio dell'Uomo Selvatico

    Massimo Centini

    IL SELVATICO: ESSERE PRIMITIVO O «BUON SELVAGGIO»?





    Mentre la cultura romantica ha visto nell'Uomo Selvatico un essere «puro», non inquinato, per convinzione o per inclinazione naturale, dalla società civilizzata, i positivisti, con minore enfasi, hanno considerato questo essere un chiaro esempio di quell'atavismo che già fece discutere al suo apparire e che fu al centro di ulteriori polemiche, in quanto principio delle non sempre felici teorie del Lombroso. "Per atavismo si intende la possibilità che ricompaiano, a distanza di alcune generazioni, caratteristiche degli antenati che erano scomparse nelle successive generazioni. Il termine è antico: fu ripreso da alcuni botanici del Settecento che studiavano la conservazione dei caratteri delle piante coltivate". [1] In Lombroso tale tema viene particolarmente analizzato per le sue caratteristiche «devianti» quando si ipotizzano certe teorie relative al «delinquente nato». Ma se riportiamo la tesi sul piano antropologico che ci interessa in questa sede, ci si imbatte in uno schema difficile da analizzare razionalmente. Infatti, secondo alcuni ricercatori, l'atavismo (peraltro non riconosciuto da tutti) non potrebbe essere utilizzato nello studio dell'Uomo Selvatico, in quanto le opportunità interpretative di questa teoria sono tali da non accordarsi al soggetto fin qui visto. In pratica è difficile pensare che un uomo, per gli strani meccanismi dell'ereditarietà, sia ritornato alle origini della specie, verso il periodo in cui la separazione tra uomo e animale antropomorfo non era ancora nitidamente tracciata.

    Esiste anche una versione contraria, sempre di matrice positivistica, ma comunque - secondo il nostro punto di vista - non completamente aderente al piano scientifico, che riconosce alla leggenda dell'Uomo Selvatico un'origine storica e vede nelle creature silvestri gli ultimi abitanti delle vallate alpine, ferme a uno stadio primitivo e pertanto considerate anomale, bestiali, anche mostruose, dal nascente complesso civilizzato. Più realisticamente, crediamo che l'ipotesi sia una delle tante versioni della metafora del primitivismo iniziale e che quindi l'arresto evolutivo vada inteso prevalentemente sul piano culturale, prima che su quello fisico e antropologico. Ci associamo a quanto sostiene Piercarlo Jorio, uno dei più sensibili studiosi della mitologia alpina, che riconosce negli uomini selvatici gli ultimi aborigeni delle valli, disadattati e ridotti a vivere in clandestinità da gruppi umani che progressivamente si andavano amalgamando con genti venute dal di fuori, oppure da situazioni climatiche peggiorate che costrinsero la maggior parte degli abitatori ad abbandonare le zone più elevate.

    Noi crediamo che l'origine del mito del selvatico non sia da ricercare in un'alterazione del fattore evolutivo, per il quale l'essere vivente si adatta al suo ambiente attraverso l'acquisizione di caratteri che trasmette ai suoi discendenti (tale tesi ci conduce nella più sfruttata fantasy), ma piuttosto sia l'esito di una figura archetipica, ben presente nella vicenda culturale dell'uomo. Il selvatico, anche quando non partecipa a eventi straordinari (che diventano comunque tali in ragione delle loro irregolarità), veicola valori che da un lato sono l'ultimo riflesso dei nostri precedenti stadi, e dall'altro certificano il progresso raggiunto, designando uno stato sempre molto lontano da quello della cultura presa come riferimento.
    L'Uomo Selvatico, che appare più volte caricato dai significati associati, sul piano fisico e su quello culturale, all'uomo di natura, rispecchia ampiamente il noto «buon selvaggio», fino a essere l'oggettiva immagine del primitivismo più puro. [....] La cultura di cui è portatore il buon selvaggio appare naturalmente meno complessa e intricata di quella dell'uomo civilizzato: questa semplicità, in un'ottica antropologica priva di etnocentrismo, può essere considerata una virtù importante, in grado di permettere la salvaguardia di tradizioni non ancora corrotte dalle abitudini dell'uomo civilizzato.

    Il ritorno dell'umano agli stadi dell'innocenza preistorica è visto dall'essere civile come una fuga ed è sempre accompagnato da una particolare sensazione di disagio, destinato in alcune occasioni a trasformarsi anche in un acceso odio verso la creatura ormai svincolatasi dall'universo di apparenti certezze in cui si è arroccata la maggioranza. Di conseguenza la contrapposizione instauratasi tra la cultura spontanea e quella istituzionalizzata è la stessa divergenza che intercorre tra lo spazio selvaggio e quello addomesticato, tra i luoghi pericolosi e i luoghi sicuri, tra mondo naturale e lo spazio controllato dall'uomo.

    Il primitivismo può essere duro e tenero, ma comunque si tratta sempre di un ambito, malgrado tutto, impenetrabile, che non cede alle adulazioni del civile e solo in qualche caso gli offre parte delle proprie conoscenze, consolidatesi grazie alla simbiosi ininterrotta con l'ambiente naturale. L'Uomo Selvatico incarna, sotto un certo aspetto, i dati migliori del «buon selvaggio» e, sul filo di uno sviluppo ancora non travolto dai contatti esterni, trattiene nel suo primitivo ecosistema le caratteristiche tipiche dell'essere di natura per eccellenza. Il selvaggio è portatore di un codice fatto di elementi profondamente legati al passato e strutturati all'interno di un linguaggio che solo nell'ambito della natura trova una propria significanza. Selvaggi quindi, solo se visti da una distorta angolazione, ma depositari di una loro cultura, di un loro comportamento antropologico «diverso» e anomalo forse solo per questo suo aspetto.

    Possiamo leggere, a conclusione delle nostre considerazioni, una pagina del diario che Paul Gauguin scrisse durante il suo soggiorno a Tahiti: le parole del grande pittore ci sembrano le più adatte per circoscrivere in poche ma nitide riflessioni la fragilità del radicato ma effimero concetto di selvaggio:Per vivere è alla natura che bisogna rivolgersi, essa è ricca è generosa: non rifiuta niente a chi chiede la parte che gli spetta dei tesori che essa ha in serbo sugli alberi, sulla montagna, nel mare. Ma bisogna saper arrampicarsi sugli alberi alti, andare sulla montagna e ritornare con carichi pesanti, prendere il pesce, tuffarsi, svellere dal fondo del mare la conchiglia saldamente attaccata alla roccia. Io, l'uomo civile, ero quindi inferiore, per il momento, ai selvaggi che vivevano felici nei dintorni, in un luogo dove il denaro, non essendo prodotto della natura, non può servire all'acquisto dei beni essenziali che essa produce; e mentre a stomaco vuoto riflettevo tristemente sulla mia situazione, scorsi un indigeno che gridava e gesticolava nella mia direzione. I gesti erano molto espressivi, traducevano la parola: il mio vicino mi invitava a pranzo. [2]


    NOTE

    1.R. VILLA, «L'atavismo: ritorno al primitivo » in La scienza e la colpa. Crimini, criminali, criminologi: un volto dell'Ottocento, Milano, 1985, p. 246

    2. Il diario di Paul Gauguin è stato pubblicato in Italia con il titolo L'isola dell'anima, Como 1987



    Massimo Centini – L'Uomo selvatico. Dalla "creatura silvestre" dei miti alpini allo Yeti nepalese (Oscar Mondadori, pag. 156 e seguenti)

  4. #14
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    Predefinito Re: Breve elogio dell'Uomo Selvatico

    Marco Massignan

    L'UOMO SELVATICO



    L'uomo selvatico di Oneta, Casa di Arlecchino



    Una delle credenze più diffuse nell'ambiente alpino retico rimanda ai tempi remoti in cui la montagna venne colonizzata dall'uomo. In origine, il bosco e la selva, con tutte le loro insidie e minacce, ne erano i protagonisti incontrastati. La tradizione tramanda che questo mondo duro e misterioso non fosse appannaggio solo di animali e piante, ma anche di un essere dalle sembianze e dai costumi in parte umani, in parte animali.

    Secondo un'autorevolissima concezione, che di solito si riferisce al filosofo Aristotele, l'uomo è animale «politico», cioè tende, per natura, ad associarsi ad altri uomini fondando comunità e città. Chi non sente questo bisogno è meno che uomo (animale), o più che uomo (Dio). L'homo selvadego (o salvadego) sembra, almeno in parte, contraddire questa concezione: ha tratti umani (anche se il suo pelo ispido e irsuto, di cui è solamente rivestito, lo rende una figura paurosa, simile per certi aspetti allo Yeti, il cosiddetto Abominevole uomo delle nevi), ma vive solitario e non sente il bisogno di abbattere boschi e fondare villaggi o città.

    Sbaglieremmo, però, a immaginare questo essere come primitivo: o meglio, lo è solo nel senso etimologico di essere stato il primo abitatore dei monti, non nel senso di essere rozzo e sprovveduto. Fu proprio lui, anzi, a insegnare ai colonizzatori quelle arti che permisero loro di sopravvivere alla durezza dell'ambiente montano, vale a dire la coltivazione dei campi, l'allevamento degli animali, l'apicoltura, l'arte casearia, l'arte dell'estrazione e della lavorazione dei metalli. Fu sempre lui a mostrare un costume morale che appare tutt'altro che incivile: non si mostrò ostile di fronte all'invadenza dei nuovi venuti, preferì ritirarsi, discretamente, nelle valli più nascoste e nei luoghi più impervi e inaccessibili.

    Di lui resta, come sintesi di un atteggiamento antitetico rispetto alla violenza predatoria, quel motto che ne accompagna una raffigurazione nella celebre camera pietà (1464) che si trova in una casa della contrada Pirondini di Sacco, nel comune di Cosio Valtellino (Sondrio): «E sonto un homo selvadego per natura - chi me offende gè fo pagura». La paura, dunque, come unica punizione per chi manca di rispetto a questo essere che rimanda al mito di un'originaria alleanza fra uomo e natura. La paura, quasi punizione della coscienza morale (è credenza assai radicata che la paura sia figlia della cattiva coscienza, e attanagli quindi chi fa del male: «Male non fare, paura non avere», recita un adagio della saggezza popolare). In quest'ottica, l'homo selvadego diventa non solo espressione della bontà originaria della natura e di quegli esseri che sanno vivere in armonia con essa, ma anche una sorta di specchio morale che ricorda all'uomo quanto sia innaturale l'offesa, cioè la gratuita forma di violenza.




    L'homo selvadego appare, dunque, come una delle tante espressioni del «buon selvaggio», di illuministica memoria, ma non per questo cessa di mostrare anche tratti assai inquietanti. La forza, soprattutto: il robusto bastone che impugna, anche nell'immagine dello stemma della Lega delle Dieci Giurisdizioni (che faceva parte della Lega Grigia) rimanda a questo aspetto. Una figura complessa, dunque, in cui sono probabilmente proiettati i sentimenti ambivalenti suscitati nei montanari da una natura insieme minacciosa e rasserenante.


    Marco Massignan, Il piccolo popolo. Efi, gnomi, folletti e creature fatate (Xenia edizioni, pag. 32)

  5. #15
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    Predefinito Re: Breve elogio dell'Uomo Selvatico

    QUANDO NEI DIPINTI IRROMPEVA L'HOMO SELVATICUS. MOSTRO? BUON SELVAGGIO? SANTO?


    Da dio pagano a figura socialmente emarginata nella tradizione medievale, quando per la Chiesa era una personificazione del demonio, fino ai santi eremiti di Lorenzo Lotto. Questa è la parabola che, nel corso dell'evoluzione storico-artistica, ha mutato i connotati simbolici dell'uomo selvatico. L'essere, che trova la propria origine nel nume latino Silvano, entità dapprima assimilata a Pan, ma poi, come conseguenza di un processo di emancipazione del ruolo, diventata autonoma, acquista su di sé alcune caratteristiche strettamente legate alla tradizione più arcaica. Per certi aspetti ricorda la figura di Marsia, il cantore vinto e scuoiato da Apollo, a dimostrazione di una lettura traslata dell'evoluzione nell'ambito delle arti e della cultura. L'aspetto animalesco dell'uomo selvatico che si riscontra nei quadri medievali e rinascimentali è retaggio della sfera mitologica, ma si nutre, al contempo, della presenza, in zone isolate di montagna, di genti che vivono in uno stato che sfiora l'animalità. Eccone, in un bestiario dell'VIII secolo, la descrizione: "… pilosum toto corpore quoddam genus hominum didicimus, qui in naturali nuditate, setis tantum more ferino contencti", un uomo selvaggio che vive allo stato ferino ricoperto solo dal proprio pelo.




    Tiziano Vecellio, Supplizio di Marsia (1570/76).
    Museo Arcivescovile, Kroměříž


    A documentazioni di questo genere può essersi ispirato Albrecht Dürer per i due battenti che in origine dovevano chiudersi a libro sul Ritratto di Oswolt Krel, ricco rappresentante di una nota impresa commerciale a Norimberga. Le tavole mostrano due uomini selvatici che reggono con una mano le insegne araldiche di Krel e della moglie, Agathe, e con l'altra un nodoso e massiccio bastone. La scelta iconografica è sicuramente curiosa, ma una spiegazione può essere avanzata confrontando i dati biografici dell'effigiato con le caratteristiche comunemente attribuite all'essere primitivo raffigurato sui pannelli. Quest'ultimo è un individuo restio a conformarsi alle regole civili, non addomesticabile, incontrollabile, violento nonché privo di ragione, simbolo dell'altro, del folle, del diverso, di tutto ciò che esula dalla "normalità" stabilita dalle convenzioni sociali e come tale schiavo della natura e del desiderio (per tale ragione avrà fortuna come maschera carnevalesca e sarà annoverato tra i protagonisti della Commedia dell'arte). Gli aggettivi utilizzati per descrivere l'essere sono conciliabili – che sia solo un caso? – con il carattere di Krel. Dalle note storiche che ci sono pervenute emerge il temperamento irrequieto del personaggio, un temperamento che lo porta alla carcerazione, cosa assai grave considerando il rango familiare. Caratteristica questa che, in qualche modo, si accorda con l'indole dell'uomo selvatico, al quale sembra essere affine sotto certi aspetti, tra cui l'incapacità di rispettare le regole sociali o l'impossibilità di porre un efficace freno alle pulsioni più rudi. Ecco allora una spiegazione coerente del motivo per il quale Dürer ha scelto un tema così particolare per dipingere le ante. Gli esseri rappresentati dovevano forse svelare l'animo tumultuosamente aggressivo di Krel.



    Albrecht Dürer, Ritratto di Oswolt Krel (1499). Alte Pinakothek, Monaco di Baviera



    Altri sono i contesti in cui si ritrova questa singolare figura. Come uomo-scimmia risulta scolpito sulle guglie del duomo di Milano. In tal modo lo effigiano anche gli artisti attivi nell'arco alpino, dalle valli bergamasche a quelle di Bolzano. Spicca per bellezza l'affresco dell'homo selvadego di Sacco, in Valtellina, XV secolo. Con l'avvento del Cristianesimo la creatura è simbolo dell'altro, di tutto ciò che esula dall'ambito sacro, sicuro, protetto – è il lato oscuro e incontrollabile della natura alpina -, in un gioco di contrari che lo portano ad essere emblema di luoghi incerti, di boschi tenebrosi sede di sabba, di un'ignoranza che scade nel diabolico contrapposto alla morale sapienza. E' chiara quindi la valenza didascalica, che trova la propria funzione primaria nell'ambito della formazione del buon cittadino.
    Nelle valli del Canavese l'uomo selvatico assume un ruolo positivo, essendo assimilato ad un eremita – Sant'Onofrio gli somiglia molto – uomo saggio ma solitario, conoscitore dei segreti della lavorazione del burro, dell'arte casearia, dell'allevamento e, ritornando alle credenze condivise nel mondo latino, possessore di una sapienza super-umana trasmessagli dalla natura stessa – ricordiamo che il nume Silvano era in grado di predire il futuro ascoltando il fruscio del vento tra le foglie -.
    Si è visto come la religione abbia nutrito una certa avversione nei confronti di questa divinità pagana – in quanto la intendeva come un pericolo per il popolino, che ne poteva subire nefasti influssi -, e per tale ragione l'aveva identificata con il Male, attribuendole, in gran profusione, significati negativi. C'è però un'eccezione anche in ambito religioso, chiaramente esplicitata nel dipinto di Lorenzo Lotto. Sant'Onofrio è rappresentato nudo, coperto nella zona inguinale da poche frasche. La figura dell'eremita ricorda molto quella dell'uomo selvatico "buono" dell'area canavese. La decisione di effigiare un santo in tale sembiante ha origine proprio dalla presenza di quei connotati positivi che descrivono l'essere in accordo con la natura, più vicino ad una vita ascetica e pura, lontano dalle tentazioni della città: aspetti che calzano a pennello per un santo come Onofrio, che fu eremita nel deserto. La devozione per il il "santo pilosu" fu intensa anche a Costantinopoli e nel meridione d'Italia, specialmente in Sicilia e a Palermo. La diffusione del culto in diverse aree della nostra penisola è dimostrato da affreschi e dipinti da cavalletto.



    Lorenzo Lotto, Madonna col Bambino e i santi Ignazio di Antiochia e Onofrio (1508).
    Galleria Borghese Roma



    Una delle rappresentazioni più incisive di questo personaggio si trova in Valtellina. Nell'abitato di Sacco di Cosio Valtellino, all'inizio della Val Gerola, vi è un edificio (antica abitazione di notai) che riporta una preziosa testimonianza, perfettamente conservata, del mondo orobico del XV secolo. La camera principale fu utilizzata come fienile fino agli ultimi decenni del secolo scorso, questo uso continuato nel tempo non ha però leso la superficie intonacata e affrescata delle pareti: come altre "camere picte" di questo periodo ha decorazioni floreali stampigliate e cartigli con preghiere e proverbi. Diverse figure si succedono sulle pareti: un cacciatore, una grande Pietà con San Bernardo, il committente inginocchiato, i tre volti della trinità sull'architrave di ingresso e un uomo nudo, ricoperto di peli, che porta una lunga clava, è l'uomo selvatico, dalla cui bocca, come un fumetto, esce la frase: " Ego sonto un homo salvadego per natura, chi me ofende ge fo pagura ". Sopra la Pietà si legge Simon et Battestinus pinxerunt (forse pittori della famiglia Baschenis di Averara, artisti itineranti, famosi per le loro danze macabre) e la data in cui fu conclusa l'opera: "18 maggio 1464"; sotto fino a qualche anno fa era leggibile anche il nome del committente, raffigurato in ginocchio in preghiera, sul lato destro della Pietà: "Augustinus de Zugnonibus".




    Infine, una curiosità. Nel complesso sistema iconografico dedicato al soggetto, troviamo situazioni nelle quali il primitivo è ritratto sorridente quando c'è brutto tempo e triste quando c'è il sole. Un comportamento dovuto alla sua malvagità? Secondo l'interpretazione più comune, gli atteggiamenti in apparenza discordanti sono sintomo di previdenza: se piove, egli ride perché è conscio che dopo verrà il sereno e viceversa.



 

 
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