Massimo Centini
LA «SAPIENZA» DELL'UOMO SELVATICO
Ritornando al mondo pastorale, dove la vita è scandita da sistemi lineari definiti da una tradizione duratura, ci accorgiamo che l'Uomo Selvatico assolve la doppia funzione di razionale e attento lavoratore e di «mago» della natura, quasi uno sciamano. Il suo totale allontanamento dalle regole, la sua capacità di apparire in un luogo, di familiarizzare, per fuggire lasciando solo flebili tracce, sono caratteristiche che avvolgono il personaggio in un'aura densa di magia, dove i poteri soprannaturali e l'alone di mistero tipico delle creature selvatiche diventano parte di una maschera oltre la quale non è possibile vedere se non con il bene illimitato della fantasia.
Nell'economia pastorale l'Uomo Selvatico accresce ulteriormente la propria forza magica, poiché è padrone di tecniche casearie che sono frutto di un prodotto naturale carico di implicazioni simboliche, che si potrebbe dire, quasi, esplichi una funzione sacerdotale. Il latte è infatti anche strumento di passaggio tra i due mondi. Nutrirsi di latte di qualche animale selvatico (es. la cerva) denota una capacità di accedere all'altro mondo, è una pratica d'iniziazione sciamanica diffusa, secondo le credenze, anche tra gli asceti d'Anatolia: anche l'Uomo Selvatico si nutre, data la sua dimestichezza con gli animali dei monti, di latte di camoscio, il che gli dona una particolare agilità nella corsa. [1]
In quest'ottica quindi, l'elemento magico-rituale dell'azione produttiva è amplificato dalla genesi sconosciuta dell'eroe, che in questo modo si isola ulteriormente dal gruppo umano, per consolidare con maggiore forza la propria appartenenza alla mitologia alpina.
Homo Selvadego di Sacco in Valtellina (affresco, 1464)
E interessante notare come quelle conoscenze superiori non siano state demonizzate dal pastore e dal contadino, ma poste in un ambito sistemato oltre i limiti del magico e considerate patrimonio di una creatura non umana, comunque non appartenente all'universo del mostruoso. Caso opposto a ciò che, nella tradizione popolare, si dice in relazione alle streghe o ad altri esseri dotati di poteri soprannaturali," acquisiti con l'ausilio di sistemi anomali e poi trasmessi generazionalmente, attraverso un percorso pedagogico ristretto a pochi adepti. Nell'Uomo Selvatico, invece, le conoscenze sembrerebbero acquisite attraverso un'attenta osservazione del mondo naturale, e con il contributo di una sensibilità certamente capace di risuonare alla stessa frequenza dello spazio circostante.
Per quanto riguarda il selvatico, tratti riconducibili a quelli dell'eroe culturale sono quindi presenti a livello di immagine, mentre trova sempre più consistenza sul piano comportamentale il riferimento all'eroe civilizzatore. Una presenza che nelle culture di natura "non si riduce a essere un semplice prodotto dell'immaginazione letteraria. Piuttosto ci troviamo in presenza di un essere segnato dal destino, nato agli albori dei tempi. Fu lui, quando l'umanità si era appena svegliata, a fornire agli uomini le loro istituzioni culturali e il loro patrimonio materiale e spirituale. È stato lui, in tempi ancor più remoti, a trasformare il mondo all'indomani della creazione o a secondare il dio supremo al momento dell'atto creativo. A volte capita addirittura che soppianti completamente in questo ruolo l'Essere supremo." [...] [2]
Più di qualsiasi altra figura mitologica, egli si trova così a rappresentare la natura un po' capricciosa, pericolosa e a volte maligna del sovrannaturale.
1. G. Plazio, La cera, il latte, l'uomo dei boschi. Mitologia e realtà sociale in una comunità prealpina, Torino, 1979, p. 128
2. AA.VV., Storia delle religioni. I popoli senza scrittura, Bari, 1978, pp. 195-196
Massimo Centini - L'Uomo selvatico. Dalla "creatura silvestre" dei miti alpini allo Yeti nepalese (Mondadori, pag. 91 e 92)