Ormai non passa un giorno senza che un servitore delle potenze dell'economia - sia esso giornalista, scrittore, uomo di televisione, politico, ecc. - dia il suo contributo alla grande narrazione nazionale che vede Napoli indicata come fonte principale di tutti i problemi della nazione.
Ultimamente si è scoperto che anche quando, come a Roma per la finale Fiorentina-Napoli, un napoletano viene ferito con arma da fuoco, è ancora lui il colpevole. Di cosa non si sa bene, e non interessa nessuno tra chi produce informazione; di certo c'è solo che il ferito è napoletano.
Abbiamo già detto come tale gesto criminale va inquadrato nella più ampia problematica della gestione della crisi attuale, cioè della ristrutturazione in processo del capitale nordista. Il fine di tale politica, mai esplicitata ovviamente, è di integrare - con la violenza se necessario - il Meridione in un nuovo corso storico, nel quale le sue condizioni di colonia vengono rafforzate in modo da poter pagare il prezzo della ristrutturazione.
Ma se questa è un analisi del piano politico e strategico, che fin qui non è stata criticata seriamente da nessuno, è da considerare ora che un riscontro della sua validità lo possiamo ritrovare su un piano questa volta più astratto, a livello che sarebbe quello di una metafisica questa volta critica verso il mondo qual'è.
Il processo di crisi che sconvolge la vecchia configurazione del potere in Italia, tolte le solite mistificazioni messe in circolazione dalla propaganda di regime ("i giovani non vogliono lavorare" "cattivi immigrati ci rubano il lavoro" "colpa dei forestali calabresi", ecc.), rientra nella più vasta dinamica di sussunzione sotto il capitale dell'intera attività umana. Cioè, della trasformazione dell'attività totale di produzione della specie in lavoro, quindi in valore, cioè in momenti presupposti dalla forma-merce.
Possiamo dire che l'epoca attuale è il divenire merce del mondo, e quindi la produzione di massa di un rapporto al mondo e sociale che ha integrato come suo limite in apparenza "naturale" la valorizzazione e quindi l'accumulazione infinita. Da qui si capisce come l'utilitarismo è come l'aria che si respira, e perché ogni pretesa di affermare una dimensione sociale che sia allo stesso tempo veritativa - sia essa storica-dialettica o religiosa - venga considerato come un progetto totalitario e quindi criminale.
Ora questo imperialismo della forma-merce incontra una serie di problemi gravissimi. È noto ai più come l'illimitazione dell'accumulo capitalistico provoca la crisi dei sistemi ecologici, lo scardinamento delle società e quindi disastrosi fenomeni migratori chiamati a diventare inevitabilmente cause di guerre e ulteriori catastrofi ambientali, e anche la diffusione di forme patologiche di smobilitazione individuale di fronte all'imperativo di auto-domesticazione per lo sfruttamento.
Trattandosi della problematicità della dinamica in questione, la configurazione socio-storica di Napoli e della sua gente presenta aspetti particolari. All'alba del nuovo ciclo di produzione industriale, è successo infatti che Napoli, malgrado la sua importanza (era una capitale, un porto nodale, un centro di cultura) si trovò emarginata a favore del fautore dell'Unità, il capitale nascente nordista. Da qui si apre la storia che ben conosciamo, che porta alla creazione della colonia meridionale, terra di emigrazione, mercato protetto, riserva di mano d'opera, ecc.
Destruzione si è detto dell'autonomia economica e politica del Meridione, come di tutte le colonie in genere. Però nel caso italiano c'è questa configurazione particolare dalla quale nascerà un anomalia: la forza del polo capitalista nordista non è stata tale da poter integrare nel suo girone l'intero Meridione, e da qui, specie in Napoli, si sviluppa, nel mezzo della condizione coloniale, una narrazione, per non dire un rapporto, una relazione che non produce un significato che la presuppone (i rapporti di lavoro, di consumo, di mera sussistenza) e che sul fondo di patrimonio popolare presenta in certa misura un autonomia culturale.
Cosi, mentre nel mondo del capitalismo moderno la periferia è determinata e interamente compresa come riferita ad un centro, un cuore dell'accumulazione, in Italia questo cuore non riesce a metabolizzare la sua periferia - mutando allora la posizione di questa, che non è più la periferia ma l'estero esotico di una colonia neanche troppo lontana. Nel mezzo di questa, questa volta si al cuore, Napoli riproduce una sua seppur modesta autonomia, e la riproduce appunto nel suo strato popolare più estraneo dalle possibilità integrative del lavoro domesticato.
Ma proprio perché questa cultura è quella di chi non poteva pagarsi la cultura dei dominanti, è anche la cultura che esprime il luogo della contraddizione mortale che abita nel cuore del regime capitalista: infatti questo presuppone il lavoro, ma nello stesso tempo la competizione tra i capitalisti porta ad aumentare al massimo la composizione organica - anche nella Milano da bere si doveva in un modo o nell'altro costituire in modo stabile la figura del terrone, perché tale deve restare chi... deve sparire.
Ma Napoli non è il mega-terrone dell'Impresa Nord, Napoli considerata come un complesso territorio-urbanismo nega il cambiamento provocato dall'irruzione di un nuovo modo di produzione, non sale quindi sul treno di quella storia che porta (oggi) al Nord e non beve di lavoro a Milano ma di sangue - magari fosse milanese, torinese, o almeno romano - nella bella Sanità. Succede quindi questo fatto clamoroso, che raramente viene notato anche da parte dei critici radicali del capitalismo: quella rapporto sociale non certo periferico ma capitale (nel senso di centrale) di e in Napoli, che esprime in un primo momento l'incompiuta integrazione economica e quindi propriamente nazionale del paese Italia, esprime nella sua forma al momento della attuale ristrutturazione non più il passato pre-coloniale del Meridione, ma forse il futuro post-capitalista del Nord.
Cioè il rapporto che compone sia l'individuo e la società, nella crisi di quello centrale di lavoro e di produzione di un astrattezza reale - la forma-merce -, rischia di diventare il rapporto che si riproduce liberamente in alcuni strati della popolazione partenopea.
Allora diventa ovvio come sia doveroso, per il mostro autonomo capitale, non solo negare la possibilità di un autonomia di rapporti fuori dalla sua dittatura, ma anche l'espressione già esistente di questa autonomia - anche se avviene nelle forme degradate, contaminate da fonti che non rimandano specificamente al patrimonio storico napoletano ma alla rapacità del venditore di menzogne basato a Milano.
Inoltre, nello stesso momento in cui si manifesta l'inquietante estraneità di un rapporto non domesticato, si pone la grave domanda di capire dove, in quale patrimonio che non sia stato già interamente mercificato e quindi omogeneizzato, il mondo della morte del Dio-denaro possa trovare un nuovo fondamento metafisico. C'è qualcosa di veramente scandaloso nel pensare che la politica coloniale non abbia sconfitto l'entità più pericolosa, quella metafisica discreta, ma si dirà che non tutti sono furbi tra chi non vive di mare e di sole.
Ecco dunque dove si trova l'articolazione tra dittatura del capitale, la sua filosofia, la configurazione particolare all'Italia, il razzismo anti-napoletano e l'agguato di Roma.
Certamente si tornerà sulla questione, visto che al di fuori di questa non c'è questione importante per l'Italia, cioè per il capitale nordista periferico, e la sua colonia che in Napoli vede negarsi la possibilità di essere solo periferia - anche se non sempre lo sa (ma a Napoli si sa).