Sembrava destinato a uscire di scena. Sembrava destinato ad assumersi interamente la responsabilità per la crisi del suo partito e a pagare per il pessimo risultato ottenuto alle elezioni europee. E invece no: in Danimarca Lars Løkke Rasmussen, leader del Partito Liberale, ha vinto. Resta al suo posto, anche se qualcosa è comunque cambiato.
Rasmussen è stato sotto tiro per una decina di giorni. I quotidiani danesi si sono avvicinati al vertice convocato martedì scorso dai liberali raccogliendo nomi, percentuali, collezionando virgolettati: tessere di un mosaico che sembrava lasciare poche speranze a Rasmussen. Tanti colleghi di partito sembravano decisi a pretendere la sua testa. Alcuni giornali, martedì pomeriggio, anticipavano già il discorso d’addio che l’ex premier avrebbe dovuto tenere entro poche ore. E invece no. Rasmussen è sopravvissuto, per dirla con*un titolo del Berlingske Tidende.
È stato Rasmussen stesso ad annunciarlo nella tarda serata di martedì, alla fine di*un vertice durato sette ore: una conferenza stampa per dire che il Partito Liberale aveva deciso di proseguire con lui al vertice e Kristian Jensen come vice presidente.
In pochi avrebbero scommesso su un finale del genere. Negli ultimi mesi Rasmussen ha affrontato scandali, ha dovuto chiedere scusa, e stato messo in discussione come mai gli era successo. Le elezioni europee hanno certificato l’avanzata del Partito Popolare Danese, sempre più protagonista nello schieramento conservatore, e la crisi del Partito Liberale. A molti analisti quel*voto era sembrato*il colpo di grazia alla leadership di Rasmussen, che invece in dieci giorni è riuscito a tenere intorno a sé il consenso necessario per andare avanti.
Lars Løkke Rasmussen

Ma come e quanto andrà avanti resta da vedere. Il Berlingske Tidende ha scritto che qualcosa è comunque cambiato, in cima al Partito Liberale. Il tandem Rasmussen-Jensen rappresenta de facto una nuova leadership. Le possibilità di recupero per il Partito Liberale stanno tutte nella loro capacità di marciare insieme.
In Finlandia il grande sconfitto della tornata elettorale europea è stato il Partito Socialdemocratico. Uno scivolone previsto. Due anni fa, il partito era al 20,8 per cento. Il voto per il Parlamento europeo ha abbassato l’asticella del consenso al 12,3.
Nei giorni scorsi, l’Yle – la radiotelevisione di stato finlandese – ha provato a capire chi ha abbandonato il Partito Socialdemocratico. Risultato: giovani, donne, elettori con alta istruzione. È la classe media quella che se ne sta andando.
Anti Rinne, leader del partito da pochi giorni, ha già segnato l’obiettivo: riportare i socialdemocratici ai livelli del passato. Sfida complicata, la sua, da combattersi tenendo d’occhio i delicatissimi equilibri di governo: Rinne infatti è anche Ministro delle Finanze. Ma in dubbio c’è l’esistenza stessa dell’esecutivo: le politiche della maggioranza sono già state rimesse in discussione e tra pochi giorni*il premier Katainen abbandonerà il suo incarico, come annunciato da settimane.
Katainen non ha mai nascosto di ambire a un incarico a Bruxelles. La scorsa settimana è tornato a parlarne: “la mia speranza è poter lavorare come membro della Commissione europea, se la mia esperienza e la mia competenza sono sufficienti”. A Helsinki i media sono convinti che nel futuro dell’attuale premier si sia un ruolo d’alto livello nelle istituzioni Ue.
In Islanda invece le elezioni comunali dello scorso fine settimana hanno visto l’affermazione del Partito dell’Indipendenza che ha vinto nei principali centri abitati del paese ma ha perso la battaglia più importante: quella per il controllo di Reykjavík, dove si è imposta l’Alleanza Socialdemocratica con il 31,9 per cento dei voti. In seconda fila il Partito dell’Indipendenza (25,7 per cento), mentre Futuro Radioso – all’interno del quale era confluito anche il Miglior Partito dell’ex sindaco Jón Gnarr – si è fermato al 15,6. Dietro tutti gli altri. Bassissima l’affluenza: 63 per cento, mai così giù dal 1928.
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Scritto da: Antonio Scafati
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