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  1. #11
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    Predefinito Re: La paganità risorge anche attraverso i riti cristiani!

    la natura è ormai rinata tutta!

    LE MAGGIOLATE

    Proseguendo per l'Appennino ritroviamo in Emilia e in Toscana la tradizione della questua del Maggio, quando nella notte del 30 aprile i "Maggiolanti" ovvero i "Maggiaioli" andavano ad annunciare il Maggio nelle case. Le strutture sono simili al Cantar Maggio del Nord Italia: annuncio del maggio, richieste di uova -simbolo di fecondità (ma anche prosciutti e formaggio) e di buon vino, eventuali strofe di maledizioni in caso di mancata ospitalità, oppure ringraziamenti con tanto di benedizioni.

  2. #12
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    Predefinito Re: La paganità risorge anche attraverso i riti cristiani!

    LA MAGIA DEI FALO'. DAGLI ANTICHI RITI PAGANI ALLA FESTA CRISTIANA DE “SANT’ANTONI DE SU FOGHU”, L'EREMITA CHE RUBO’ DALL’INFERNO IL FUOCO A SATANA.


    Oristano15 Gennaio 2011
    Cari amici,
    tra domani e dopodomani in tanti Paesi della Sardegna si accenderanno una miriade di “Fuochi Rituali”, in onore di “Sant’Antoni de su Fogu”, ovvero S. Antonio Abate, festeggiato in tante altre parti d’Italia, soprattutto nel meridione. Secondo i dati forniti dalla Regione Autonoma della Sardegna sono poco meno di cento i centri dove tra il 16 e il 17 gennaio, festa del Santo, verranno accesi i caratteristici fuochi rituali per rendere omaggio e festeggiare il Santo taumaturgo.
    Considerato che la ricorrenza risulta alle soglie del Carnevale, evento molto caratteristico ed importante per la nostra isola, i fuochi in onore del santo sono da considerarsi un vero e proprio anticipo del carnevale imminente, anzi la vera e propria giornata di inizio. Per creare nuove correnti turistiche quest’evento, uno dei più suggestivi del patrimonio culturale dell’isola, è stato incluso nel progetto “L’isola che danza”, finalizzato proprio a creare flussi turistici “fuori stagione”. Per i riti legati ai fuochi di Sant’Antonio Abate si è scelto il claim “Scintille dal cuore”, Ischintziddas dae su coro, in Lingua Sarda.


    Fuochi e falò che non sono uguali, per composizione, forma e dimensione, e che a seconda delle zone della Sardegna vengono chiamati in modo differente: Is fogus, is fogaronis o fogadonis, sos focos, sos o’os, foghilloni, fogoni e s’ogulone. Is frascas e sas frascas, is sèlemas e sas sèlemas, soprattutto in Ogliastra e in Baronia, perché costituiti da cataste di legna e frasche di cespugli della macchia mediterranea. A Dorgali è chiamato su romasinu, perché prevalgono i cespugli e l’odore del rosmarino. A Bitti è chiamatosa ochina, mentre a Torpé su fogulone. Is tuvas e sas tuvas (tronchi di alberi che i fulmini e lo scorrere del tempo hanno reso cavi), a Sedilo, Aidomaggiore, Ghilarza, Abbasanta, Norbello ed altri centri dell’alto oristanese. Nomi e composizioni differenti, però, tutti realizzati con cataste di legna di buona qualità, che brucia a lungo, regalando ai numerosi spettatori uno spettacolo di alta suggestione.
    Ma da dove trae origine questa radicata cultura del fuoco, risalente certamente agli albori dell’umanità, e che, nonostante le nuove tecnologie non ha mai abbandonato l’uomo? Cerchiamo insieme di comprenderne il perché.
    La crescita culturale dell’uomo, lo sappiamo, è fatta di una sequenza ininterrotta di tappe, dove la cultura e la conoscenza precedente si modificano e si aggiornano in continuazione, amalgamando vecchio e nuovo, senza soluzione di continuità. A somiglianza del mondo vegetale, dove sui vecchi legni coriacei e inspessiti dalla corteccia si formano, sbocciano e crescono le nuove gemme ed i nuovi rami che, rinnovandosi, danno vita a nuovi virgulti ed a nuovi frutti.
    Con il passaggio dalla cultura pagana a quella cristiana anche il Cristianesimo nella sua lenta e costante crescita non ha ripudiato la precedente cultura ed i precedenti riti pagani, ma li ha inglobati, metabolizzati. Ha operato amalgamando e trasformando le antiche credenze e tradizioni in rinnovati riti cristiani, evitando pericolosi cambiamenti e sicuri traumi ai popoli convertiti al cristianesimo. Intelligente operazione di ‘transizione’ che, trasportando le precedenti pratiche pagane in un contesto religioso, consentì, stante la forte connotazione contadina dell’epoca, un trapasso indolore dal paganesimo al cristianesimo.
    Gli antichi riti pagani delle “feste del fuoco” trassero certamente origine da due elementi essenziali che regolavano lo svolgersi della vita sulla nostra terra: il sole, la cui venerazione per la forza ed il suo calore era assoluta, ed il fuoco, la cui grande forza, capace di riscaldare, illuminare, purificare ,ma anche di distruggere, era seconda solo a quella del sole. Sole e fuoco dunque le grandi forze della natura a cui erano dovute adorazione e rispetto. La loro importanza era tale da alimentare le più strabilianti rappresentazioni. Una relativa al sole era quella di costruire e far ruzzolare una ruota infuocata giù per una collina, riproducendo cosi l’arco ed il movimento del sole; Un’altra, relativa all’ansia creata dal buio, era quella della costruzione ed accensione di grandi torce, capaci di illuminare le tenebre della notte, fugando la paura del buio. Sole e fuoco complementari ed alleati, capaci di riscaldare la terra e di esorcizzare le tenebre, riportando “luce e calore” sulla terra. All’idea del fuoco, surrogato del sole e del suo calore, si aggiungeva quella del fuoco come elemento purificatore: capace di distruggere il morbo dannoso, di liberare spazi all’agricoltura, di ridare vita nuova e fertilità al terreno, per una rinnovata annata agraria.

    Dalla cultura pagana alla cultura cristiana il passaggio è stato indolore. La radicata cultura della venerazione del fuoco come “Dio pagano” il cristianesimo l’ha metabolizzata e rinnovata, trasformando le antiche e radicate tradizioni popolari, in omaggio e devozione verso il Santo cristiano, capace di padroneggiare il fuoco, Sant’Antonio Abate appunto, che, nell’interesse dell’umanità, riuscì a procurarsi il sacro fuoco, rubandolo con grande astuzia al diavolo nell’inferno. Nella comune raffigurazione iconografica S. Antonio Abate (per noi sardi Sant’Antoni de su fogu) viene rappresentato con la fiamma viva che arde nel palmo della mano. Santo ancora più importante del Dio pagano, a cui ci si poteva rivolgere non solo per le necessità del fuoco che riscalda e da calore ma anche per mitigare e far guarire “il fuoco della malattia”, invocato da quelli colpiti dal doloroso ’Herpes zoster’. Nella tradizione popolare, infatti, un’altra caratteristica importante attribuita al Santo taumaturgo, fu quella di guaritore degli ammalati di ‘ignis sacre’, detto più comunemente “fuoco di Sant’Antonio”.
    Ma chi era questo santo a cui venne tributata tanta devozione e che ha assorbito nella cultura popolare il Dio pagano del fuoco, cui erano tributati solenni sacri riti? Eccone una breve e sintetica storia.
    S. Antonio abate fu uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa. Nato a Coma, nel cuore dell'Egitto, intorno al 250, a vent'anni abbandonò ogni cosa per vivere da eremita nel deserto e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita da anacoreta per più di 80 anni: morì, infatti, ultracentenario nel 356. Già in vita accorrevano da lui, attratti dalla fama di santità, pellegrini e bisognosi da tutto l'Oriente. Anche Costantino e i suoi figli ne cercarono il consiglio. La sua vicenda è raccontata da un discepolo, sant'Atanasio, che contribuì a farne conoscere l'esempio in tutta la Chiesa. Per due volte lasciò il suo romitaggio. La prima per confortare i cristiani di Alessandria perseguitati da Massimino. La seconda, su invito di Atanasio, per esortarli alla fedeltà verso il Concilio di Nicea. Nell'iconografia è raffigurato circondato da donne procaci (simbolo delle tentazioni) o animali domestici (come il maiale), di cui è popolare protettore.
    Anche in Sardegna, come in altre culture, soprattutto del meridione d’Italia, si ripropongono in chiave fantastica episodi biografici riguardanti il santo. In una di queste leggende, ancora oggi tramandata ad Orgosolo ed Aidomaggiore, si racconta come un monaco eremita, verosimilmente S. Antonio abate fosse riuscito ad ottenere per gli uomini il fuoco, dopo averlo rubato al diavolo. Diavolo scaltro, racconta la leggenda, che lo offriva agli uomini barattandolo in cambio dell’anima. Naturalmente nessuno intendeva accettare tali scambio. Però, una soluzione bisognava trovarla per avere il fuoco, strumento ritenuto di primario interesse. Era necessario trovare uno stratagemma per rapire al diavolo almeno una favilla. Un vecchio allora propose ai suoi compaesani di chiedere consiglio ad un eremita che abitava in una grotta lontano dal paese e che era da tutti considerato un sant’uomo. Racconta la leggenda che fosse ritenuto talmente capace ed astuto che neppure il diavolo sarebbe stato in grado di farlo cadere in tentazione e quindi in peccato. L’eremita acconsentì a recarsi all’inferno per recuperare il fuoco. Operando con grande abilità ed astuzia riuscì ad imbrogliare il diavolo, che gli voleva impedire di avanzare all’interno dell’inferno, e recuperò una favilla di fuoco. Fu per questo motivo, conclude il racconto, che quel santo eremita venne chiamato S. Antonio del fuoco.
    Un’altra leggenda su S. Antonio, che potrebbe essere interpretata come una sorta di mito di Prometeo, quello che rubò il fuoco agli dei, cosi racconta. Essendosi un giorno il Santo accorto della grande sofferenza degli uomini che pativano il freddo, che causava inoltre mille altri malanni, animato da un nobile senso di compassione paterna, abbandonò il suo eremitaggio nel deserto per recarsi all’inferno. Preso un bastone di ferula si avviò lentamente verso il grande portone che ne delimitava l’ingresso e bussò alla porta. All’inferno, dove certo il fuoco non mancava, gli si parò davanti l’arguta faccia di un diavoletto che, pensando alle richieste di un dannato, spazientito gli chiude con rabbia la porta in faccia, bestemmiando Dio ed i suoi santi. Il Santo, paziente, non si scompose, ritentò e riprovò tre o quattro volte, finché i demoni guardiani, per toglierselo di mezzo, gli consentirono di entrare per riscaldarsi. Sant’Antonio si avvicinò all’immenso e inestinguibile fuoco e allungò le mani verso le fiamme per riscaldarsi; senza dare nell’occhio immerse nel fuoco la punta del suo bastone di ferula che, avendo un midollo spugnoso, aveva la capacità di custodire viva per parecchio tempo, nascosta dalla cenere, la forza del fuoco. Quando il Santo si accorse che il suo stratagemma era riuscito, con maniere garbate si congedò dai suoi ospiti, portando cosi in salvo il sacro fuoco e donandolo, trionfante, agli increduli uomini.
    Questa antica festa del fuoco e del suo Santo protettore, che continua ad essere oggetto di grande venerazione, verrà anche quest’anno “calorosamente” festeggiata in tanti centri dell’Isola. Sono tanti i comuni sardi dove anche quest'anno si ripeterà l'antica tradizione dell'accensione del fuoco in onore di Sant'Antonio. Ricordiamo i più importanti. Partendo dalle porte di Cagliari (Ballao) e Sassari ( Florinas), troveremo la massima concentrazione tra le province di Oristano (Abbasanta, Aidomaggiore, Ardauli, Assolo, Arborea, Bosa, Boroneddu, Busachi, Fordongianus, Ghilarza, Laconi, Montresta, Morgongiori, Norbello, Nughedu S. Vittoria, Ollastra, Paulilatino, Samugheo, Scano Montiferro, Sedilo, Tresnuraghes, Ula Tirso), Nuoro (Aritzo, Dorgali, Lodé, Macomer, Nuoro, Oliena, Orosei, Ottana, Silanus, Torpé) e Ogliastra (Gairo).
    L’antico rito del fuoco richiede una lunga preparazione, certamente non uniforme nella forma, nei vari centri citati, ma identico nella sostanza. Le persone di ogni centro, soprattutto i giovani, provvedono nei giorni precedenti il rito alla raccolta della legna necessaria. Al centro viene posto un grosso tronco cavo di quercia o di olivo, “ Sa Tuva”, attorno al quale si collocano diversi tipi di legna di varia dimensione, fino alla più fine, che dovrà innescare le prime fiamme. Terminata la preparazione il giorno della festa attorno a questo ‘sacro fuoco’ si svolgono dei particolari rituali preparatori. E’ una cerimonia collettiva, propedeutica ad un momento di incontro dalle funzioni apotropaiche, in funzione di allontanamento dei mali, anche tramite la preghiera, che recitata con tre giri in senso orario ed altri tre in senso opposto intorno alle fiamme, diventa elemento purificatore per i credenti, proiettandoli allo stesso tempo in una dimensione di rinnovata fiducia nel futuro. Intorno al fuoco purificatore, benedetto dal parroco, si riunisce tutta la collettività, religiosa o meno, e si contemplano con gioia e fiducia le fiamme incantatrici, capaci di allontanare sia i mali fisici che quelli dell’anima.
    E’, questo del fuoco, un rito di grande gioia, vissuto e trasformato in festa. I partecipanti, incantati dal rituale, dal calore e dal crepitio delle fiamme, mangiano e bevono in compagnia, inebriati dal vino novello che circola in abbondanza. Si commentano e condividono i sapori dei piatti tipici, dei vini e dei numerosi dolci locali, si consumano piatti fumanti di fave e lardo, carni variamente cucinate di maiale, pecora o selvaggina, accompagnate da patate, cipolle e cavoli, offerti con gioia a tutti i presenti. Tutto questo diventa festa comunitaria, rinnova la felicità dello stare insieme, dell’incontro, della condivisione; tradizione, suggestione e raccoglimento, tutti insieme, in riflessione o preghiera, nell’auspicio di un anno migliore.
    In questa notte magica è il Santo protettore che aleggia sulla festa e sui partecipanti. Si chiedono al Santo grazie e miracoli in un contesto quasi magico, dominato dall'imponente falò che, lanciando enormi lingue di fuoco, consuma enormi cataste di legna. Il fuoco brucia tutta la notte. Gli anziani osservano con attenzione le caldissime volute del fumo che, uscendo dal tronco infuocato, sale in cielo. Saranno proprio i disegni del fumo emanato a suggerire auspici e profezie per l’annata agraria. All’alba, in silenzio, i resti del grande fuoco non andranno perduti: tizzoni, carboni e ceneri verranno prelevati e conservati. Saranno usati per curare e scongiurare malattie, sia degli uomini che del bestiame; verranno anche utilizzati per preservare le colture (da intemperie e malattie), perché il Santo taumaturgo, ha sempre operato per proteggere gli uomini e le loro cose. Continuando ad invocarlo e festeggiarlo, ne siamo certi, continuerà a farlo.
    Grazie, cari amici della Vostra attenzione.
    Mario


    PUBBLICATO DA MARIO VIRDIS A 83 PM

  3. #13
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    Predefinito Re: La paganità risorge anche attraverso i riti cristiani!

    LA PREGHIERA DELLA POTENZA
    Il cristianesimo degli alboriè legato a pratiche induiste arrivate in Occidente anche attraverso il sufismo.
    Sto parlando della pratica dell'esicasmo, chiamata anche preghiera del cuore, pratica alquanto controversa nella storia della cristianità. Pratiche ricondotte dai padri del deserto, che erano in uso anche dai sacerdoti dell'antico Egitto. sono passate fino a noi quasi intatte.

    Lanfranco Rossi
    IL CORPO Dl LUCE NELL'ESICASMO

    In questo sito trovate una precisa disanima della "via che si apre con l'esicasmo"
    IL CORPO Dl LUCE NELL


    Pratiche che riprendono i principi dell'immemore alchimia .....

  4. #14
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    Predefinito Re: La paganità risorge anche attraverso i riti cristiani!

    Tutti i riti e le feste cristiane-cristicole sono riprese da riti pagani. Se c'è un merito degli scrittori-minestrone commerciali alla Dan Brown è che han fatto conoscere certe cose al grande pubblico.
    Molti ancora non credono di festeggiare il Sol Invictus il 25 dicembre, e che il supposto messia, se è esistito, è nato in primavera.

  5. #15
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    Predefinito Re: La paganità risorge anche attraverso i riti cristiani!

    La chiesa di Simon Mago

    Basilica di Santa Francesca Romana al Palatino (Santa Maria Nova)
    La Chiesa di Santa Francesca Romana si trova nel Foro Romano, tra il Tempio di Venere e Roma ed il Colosseo.
    Inizialmente le venne dato il nome di Santa Maria Nova, poi, nel XV secolo vi fu sepolta Santa Francesca Romana e la chiesa assunse l’attuale denominazione.
    Il luogo dove sorge la Chiesa, secondo la leggenda, è quello in cui morì Simon Mago quando tentò di sfidare con le arti magiche San Pietro e San Paolo. Particolare reliquia è custodita all’interno della chiesa: le impronte delle ginocchia di san Pietro intento a pregare, impresse nel marmo e protette da una grata.
    L’interno è a una sola navata e il pavimento risale al restauro del 1216. Nella cripta, oltre alla tomba di Santa Francesca Romana, opera ottocentesca dell’architetto Andrea Busiri Vici, c’è anche il monumento funebre di Papa Gregorio XI, realizzato da Pietro Paolo Olivieri nel 1584 in ricordo del ritorno della sede pontificia da Avignone a Roma.
    Altri elementi artistici arricchiscono questa piccola Chiesa nel cuore di Roma: il soffitto ligneo a cassettoni, impreziosito da una ricca decorazione dipinta; all’interno della sagrestia c’e’ “La Madonna Glykophilousa”, una preziosa icona del V secolo ritrovata nel 1950. Sull’altare maggiore c’è un dipinto del XII secolo raffigurante la Madonna con bambino.
    La facciata esterna, in elegante travertino, è stata realizzata da Carlo Lombardi nel 1615. Nell’antico monastero annesso c’è l’Antiquarium Forense, uno spazio museale con reperti del Foro Romano.
    Il 9 marzo di ogni anno un gruppetto di credenti porta vicino la Chiesa la propria auto per farla benedire, visto che Santa Francesca Romana è protettrice degli automobili

  6. #16
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    Predefinito Re: La paganità risorge anche attraverso i riti cristiani!

    Anche le liturgie utilizzate in chiesa hanno origine pagana, l'uso della mitra, il pastorale, l'incenso, le candele.
    When the facts change, I change my mind. What do you do, sir? John Maynard Keynes

  7. #17
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    Predefinito Re: La paganità risorge anche attraverso i riti cristiani!

    Citazione Originariamente Scritto da Saturno Visualizza Messaggio
    Anche le liturgie utilizzate in chiesa hanno origine pagana, l'uso della mitra, il pastorale, l'incenso, le candele.
    Giusta osservazione!

  8. #18
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    Predefinito Re: La paganità risorge anche attraverso i riti cristiani!

    La Via Lattea fra il gioco dell'Oca e la "merelle de compostelle"

    San Giacomo di Compostela e il simbolismo del "Gioco dell'Oca"

    Il Cammino di Compostela ed il simbolismo del gioco dell’oca

    Il labirinto di Chartres

    Secondo una leggenda medioevale, il corpo di San Giacomo Maggiore, dopo la sua decapitazione avvenuta a Gerusalemme fu trasportato su una barca che approdò in Galizia, nella “ria di Padròn” (Iria Flavia). Per secoli la tomba dell’Apostolo fu introvabile; solo nell’818 una stella ferma nel cielo indicò agli abitanti della ria il luogo della sepoltura. Il vescovo di Iria Flavia fece scavare in quel punto e fu riportata alla luce un’arca marmorea con le spoglie del santo. Il luogo fu chiamato Campo della Stella, da cui il nome spagnolo Compostela. Sulle sacre reliquie fu costruita una cappella e, dopo la battaglia di Clavijo (840) contro i Mori, nella quale apparve su un cavallo bianco San Giacomo incitante i cristiani alla vittoria, gli fu eretta una basilica che divenne subito meta di pellegrinaggio. Il Santo fu creato patrono della Spagna e la via di accesso al suo santuario si chiamò il Cammino di Compostela o di Santiago. Col passare del tempo questa strada fu punteggiata da monasteri, ospizi ed ospedali, la cui difesa fu affidata ad ordini militari. Ma il Cammino di Compostela era una via di pellegrinaggio antichissima, percorsa fin dal periodo neolitico da moltitudini di persone in cerca di iniziazione. In epoca precristiana era denominata: “L’Arcobaleno di Lug” (il dio dei Celti che forse ha dato il nome alla città di Lugo, antica capitale della Galizia), “La via delle Stelle”, “La via delle Oche selvagge”. Ci si domanda come mai la leggenda cristiana avesse scelto fra i dodici apostoli proprio San Giacomo Maggiore per apporre il proprio marchio ad una tradizione molto più antica. Le leggende cristiane medioevali ebbero origine nei monasteri benedettini dopo la fusione dei monaci di San Benedetto con quelli irlandesi di San Colombano, gli ultimi detentori delle conoscenze dei Druidi, sopravvissute alla conquista romana. I monaci irlandesi erano dei costruttori e la loro presenza sul “Cammino di Compostela” è ancora visibile in Galizia (Lugo e Pontevedra) e in Navarra (Leyra), dove rimangono importanti esempi di architettura di ispirazione celtica. Fra le leggende delle confraternite di costruttori medioevali v’era quella che narrava di un certo Maestro Giacomo, tagliatore di pietre, nativo dei Pirenei, tanto valente nella sua arte che aiutò Hiram di Tiro nella costruzione del Tempio di Salomone, innalzando la colonna Jakin, vocabolo che in basco significa “saggio”. I costruttori di Compostela erano riuniti in una confraternita denominata “Figli del Maestro Giacomo”, i quali erano cristiani, ma continuavano a seguire le loro antiche tradizioni. Il loro simbolo era il piede palmato dell’oca, simbolo del dominio dello spirito sulla materia, che si riallacciava a quello dei popoli navigatori dell’antichità, come gli abitanti di Tartesso, i Liguri ed i Fenici, a cui era stato dato il nome di “popoli dell’Oca”. Gli Etruschi-Villanoviani avevano le prue delle loro navi sagomate a forma di testa e collo d’oca, perpetuando un’antica tradizione dei popoli da cui discendevano (si noti che una radicata tradizione vuole gli Etruschi-Tirreni discendenti degli Atlantidi). I Liguri erano gli adoratori dell’Oca sacra e trasmisero quella tradizione ai Romani (oche del Campidoglio). Risale forse a quel periodo remoto il toponimo “Bric dell’Oca”, rimasto ad una montagna presso Urbe in provincia di Savona? Quando gli antichi costruttori furono cristianizzati, il Maestro Giacomo, il saggio Jakin, divenne San Giacomo; i Jars (Oche), membri della confraternita, furono chiamati “Figli di Maestro Giacomo” ed il simbolo compagnonino dell’Oca si mutò nella conchiglia con la quale i pellegrini ornavano il loro mantello. Così, con una lieve modifica che lasciava intatto il nome era rispettata la tradizione antica lungo la via di Compostela, che in epoca pagana era detta: via delle Oche Selvagge (degli Jars liberi). La tradizione antica si conserverà non solo nel nome, di alcune vie di paesi sorti sul “Cammino” (Calle de los Cisnes Viajeros, Calle de las Ocas Salvajes), ma anche in numerosissimi toponimi. Se osserviamo una carta del cammino jacopeo, vediamo che l’Oca si presenta nella sua duplice forma linguistica: Auch, vocabolo preindoeuropeo, passato attraverso il latino Auca, poi Oca (Auche, Oja, Oca); Hamsa, vocabolo sanscrito, poi latino Anser (Ganso, Anso, Ansar, Gans, Jars). Per citare solo alcuni esempi, troviamo il paese di Ansò, sotto il passo pirenaico Somprt, da dove inizia il “Cammino” francese; Villafranca Montes de Oca, ad est di Burgos, dove i Templari possedevano un’importante precettoria, ora ridotta a fattoria; Castrojeriz, che probabilmente era in antico Castrojars, ad ovest di Burgos; nella regione del Bierzo, a sud di Astorga, il paese El Ganso; presso il valico de la Oca, il paese di Oca per dove si scende a Compostela; San Sebastiano de Oca presso la ria di Noya ed il monte Aro, verso capo Finisterre. Da millenni si effettuavano pellegrinaggi da parte dei Jars, i costruttori iniziati, che si recavano fino alle coste dell’Atlantico per decifrare i segni sacri incisi sulle rocce della Galizia. I petroglifi galiziani risalgono a tempi preistorici, alcuni riproducono i segni di un alfabeto sconosciuto che ritroviamo tracciati sulle pareti dei monasteri costruiti lungo la via di Compostela; fra questi la zampa schematizzata dell’Oca, o Tridente. Nella chiesa di Santa Maria de las Huertas a Puente la Reina (Navarra) si trova un crocefisso templare in cui il Cristo è inchiodato su una croce a forma di piede d’Oca: il segno cristiano sovrapposto al segno pagano. Un altro petroglifo galiziano è visibile sul pavimento di molte cattedrali gotiche: il Labirinto, simbolo iniziatico del cammino dell’uomo e della rinascita ad una nuova vita. Anche i costruttori cristiani, i “Figli del Maestro Giacomo”, seguirono il “Cammino” degli antichi Jars, percorrendo la via di pellegrinaggio fino al luogo dove, secondo la tradizione, sbarcarono gli antichi saggi (Noè? Gli Atlantidi?), che incisero i petroglifi, simbolo del loro sapere. I monaci si assunsero il controllo della via di Compostela con le medesime finalità dei costruttori laici: a differenza della gente comune che si metteva in viaggio per compiere un pellegrinaggio di penitenza, i “Jacques” e i monaci percorrevano il lungo itinerario con fini iniziatici di ascesi spirituale e di trasformazione interiore, gli uni fino alle rocce atlantiche, gli altri fino alla tomba del Santo. La via iniziatica precristiana delle “Oche Selvagge” è stata rapportata al Gioco dell’Oca, i cui inventori erano indubbiamente dei Jars. Esso è più di un passatempo: è un insegnamento esoterico tramandato attraverso il gioco, un rituale d’iniziazione mediante il quale si devono superare determinate prove per giungere ad uno stato di coscienza superiore. È un gioco antichissimo, sopravvissuto fino ai giorni nostri. Secondo la leggenda, fu inventato da Palamede, figlio del re dell’Eubea e nipote di Poseidone-Nettuno, per divertire i guerrieri greci che si annoiavano durante il lungo assedio di Troia. Il nome Palamede significa: uomo dalla mano palmata. Si trattava dunque di un Jars che trasmetteva le sue conoscenze all’umanità. Secondo lo studioso spagnolo Rafael Alarcòn, il disco di Phaistos potrebbe essere un antico esempio del Gioco dell’Oca, creato 2000 anni avanti Cristo. È probabile che fosse una via iniziatica a forma di spirale. In otto caselle sono rappresentati altrettanti grossi uccelli, forse si trattava di oche o forse di cicogne (nome con cui venivano indicati i Pelasgi, i popoli del mare); in altre vi appaiono barche per l’attraversamento di acque e strani edifici simili ad alveari. Si ha notizia del Gioco dell’Oca in una leggenda romana di cui Ercole è protagonista e, storicamente, nel secolo XVI. Forse la sua riscoperta avvenne in Italia, in quanto sappiamo che Francesco de’ Medici ne donò una copia a Filippo II d’Asburgo, ed il gioco affascinò la corte spagnola e presto si diffuse in tutti gli stati sociali della popolazione. Su un tavoliere è disegnato il tracciato di una via che gira a spirale, circolare o ellittica, diviso in 63 caselle numerate, di cui 13 con figure di oche, rappresentanti delle tappe vantaggiose. Lo stesso numero di tappe fu consigliato nel Medioevo ai pellegrini che si accingevano a compiere il percorso di Compostela. Altre caselle contengono figure simboliche che comportano delle penalizzazioni. Il riquadro centrale, senza numero, è il traguardo finale: il Giardino dell’Oca. Si tratta dunque di una via di Oche che, dopo il superamento di ostacoli nella marcia a spirale con giri sempre più stretti, conduce al Giardino dell’Oca, lungo di beatitudine fuori dal tempo, contemporaneamente fisico e metafisico, reale forse alle origini ma ormai soltanto spirituale, assimilabile all’Eden, all’isola di Avalon, al Giardino delle Esperidi. Le caselle favorevoli sono quelle delle Oche (Jars) e dei Dadi (Grandi Pietre. Le costruzioni megalitiche) che facilitano, le prime, il proseguimento del percorso e lo indicano e lo difendono i secondi. Gli ostacoli sono: il Ponte, l’Albero, il Pozzo, il Labirinto, il Carcere e la Morte. Ma la Morte si può sconfiggere con riti di rinascita. E di rinascita si tratta. Per l’iniziato Jars il termine del pellegrinaggio non è Compostela, luogo di morte, ma è oltre: è la costa atlantica, è il capo Finisterre (Finis Terrae, estremo limite della terra), dopo il quale si entra nel Giardino dell’Oca, dove inizia il regno dello Spirito (la comunione con gli antenati).



    È impossibile stabilire un esame comparativo fra le tappe del “Cammino” di Compostela e quelle del Gioco dell’Oca che, nell’intenzione dei suoi ideatori, rappresenta una mappa non tanta fisica, quanto simbolica della strada di pellegrinaggio jacopea. Un particolare comunque è certo: sia in un percorso che nell’altro l’Oca segna una divisione, un confine tra una tappa e l’altra. Una conferma del percorso iniziatico dei Jars oltre Compostela è messo in evidenza dall’analogia riscontrata nelle ultime tappe del viaggio. Nella casella n.54 del gioco troviamo un’oca; nella casella n.58, la Morte, in quella n.59 un’altra oca. Se identifichiamo la prima oca con il paese galiziano di Oca presso il valico omonimo, la Morte con Compostela, in quanto luogo cimiteriale con la tomba di San Giacomo e l’oca seguente con S.Sebastiano de Oca presso la ria di Noya ed il monte Aro, appare chiaro che l’antico pellegrinaggio delle Oche Selvagge, cioè dei costruttori Jars, arrivava fino al capo Finisterre, la fine delle terre ma anche la finestra sull’Ignoto. Il pellegrinaggio cristiano, invece, si ferma a Compostela dove, a prescindere dall’esistenza vera o falsa del corpo di San Giacomo nella cripta del santuario, si perpetua da secoli un’antica tradizione iniziatica di ascesi spirituale, sostenuta anche dalle eccezionali energie cosmo telluriche del luogo, scoperte dal popolo “megalitico” preceltico, mirabilmente adattata dai monaci medievali alle nuove esigenze del culto cristiano e tramandata alle generazioni future. Il cammino di Compostela, rappresentato simbolicamente dal Gioco dell’Oca, è probabilmente un modo per ricongiungersi spiritualmente con un centro di origine della conoscenza, della “luce divina” (Lug è l’equivalente di “lux”) delle tradizioni. Ma quasi certamente rappresenta anche un percorso reale, seguito per millenni da un’umanità confusa e sconvolta dopo un immane cataclisma, nella fede, o speranza, che esso possa ricondurla verso tale luogo di origine, verso l’Eden perduto. Quello che è stato considerato un tridente, simbolo del regno e del potere di Poseidone, potrebbe essere invece il simbolo del piede palmato dell’Oca, uccello con il quale veniva identificata la stirpe degli Atlantidi. Ma anche dell’Ibis, uccello sacro degli Egizi e riferito a Toth quale simbolo della divina conoscenza, e della Cicogna, uccello che simboleggia i Pelasgi (i discendenti degli scampati di Atlantide?), infaticabili girovaghi che hanno percorso tutto il mondo (lungo gli itinerari delle Tule e delle Rode? Secondo l’affascinante ipotesi di Enzo Gatti), tracciando un cammino di rinascita e di civiltà nell’ardente desiderio di ritrovare, o ricostituire idealmente, l’antica patria perduta. E probabilmente questo popolo la patria perduta, o le sue ultime vestigia, l’ha alfine trovata se dobbiamo dar credito al racconto di Ercole e del Giardino delle Esperidi. Ma forse questo viaggio non si è svolto lungo il “Cammino” di Compostela, ma attraverso un itinerario ben più lungo e penoso. Tali popoli migranti hanno edificato lungo il loro cammino città e fortezze, magazzini e mercati per la sussistenza e per gli scambi commerciali e centri di rifocillamento e riparazione dei mezzi di trasporto dove l’antico tridente di Poseidone, o piede d’uccello migratore, si è trasformato in un simbolo fallico, come presso l’acropoli di Alatri. Nelle località più importanti hanno eretto altari propiziatori alle divinità secondo schemi cosmici (stellari) al fine di placare la loro ira ed ottenerne i favori per coronare l’impresa. Questa altari ed i monumenti alle divinità (megaliti o tumuli), avevano anche lo scopo di indicare la via a coloro che li avrebbero seguiti, come le stelle in cielo indicano la rotta ai viaggiatori e ai naviganti. Ermete, il Toth degli Egiziani, divinità e simbolo dei percorsi spirituali, divenne anche la divinità degli itinerari stradali (e del commercio e dei traffici che automaticamente s’accompagnano alle strade e ai viandanti) per cui, ad ogni biforcazione, in suo onore veniva eretto un cumulo di pietre al cui ingrandimento provvedeva, con il proprio contributo, ciascun viaggiatore. Questi tumuli in alcuni casi finirono per diventare vere e proprie colline o monticelli e, successivamente, piramidi e ziggurath, simboli e monumenti depositari dell’antica sapienza. Nelle zone montane o collinari gli altari furono edificati direttamente sulle cime e furono accesi fuochi perpetui, affidati a sacerdoti, per indicare anche di notte il cammino ai pellegrini e per riprodurre sulla superficie terrestre la copia della volta celeste (Compostela significa campo, territorio stellato, e la leggenda medioevale che ne interpreta il nome in chiave cristiana, adombra certamente una tradizione molto più antica e complessa). In tal modo anche di notte gli dèi avrebbero veduto quei punti luminosi e, riconoscendo in essi un’immagine celeste, che era anche una preghiera, avrebbero risparmiato la Terra da altre catastrofi, rendendola stabile ed immutabile come il Cielo che è la loro dimora. Questo continuo peregrinare, questa incessante ricerca per alcuni fini. Per altri, invece, si trasformò in un credo religioso ed una filosofia di vita: fin quando la ricerca non si concludeva e non si ritrovava il “paradiso perduto”, il ciclo non si completava e non c’era rischio di un’altra “fine”, di un’altra catastrofe. Da queste convinzioni, successivamente, hanno avuto origine i viaggi mitologici e le leggendarie ricerche: dai frutti d’oro del Giardino delle Esperidi, al Vello d’oro degli Argonauti, al Santo Graal, all’Eldorado. L’uomo che cerca, che si assoggetta a viaggi lunghi e pericolosi in terre sconosciute e che si batte contro mille ostacoli e li supera, è l’Eroe o il Cavaliere “senza paura e senza macchia”, pervaso da una fede incrollabile nella forza che gli deriva dalla divinità, nel suo coraggio e nello scopo trascendente della sua missione. Successivamente all’Eroe si sostituirà il Santo Missionario, colui che deciderà tutto se stesso e la propria vita al fine che si è proposto. Nel Gioco dell’Oca, quello che oggi è inteso come tale, un gioco appunto, ma che anticamente aveva tutt’altro significato e tutt’altra funzione (forse divinatoria), vi sono delle caselle favorevoli ed altre sfortunate, pericolose. Nell’antica Roma tale gioco, che si svolgeva come oggi per mezzo dei dadi, riconoscendo in quest’ultimi il manifestarsi del volere del destino o della divinità come si evince dal famoso detto di Cesare “Il dado è tratto”, a significare che l’uomo non può mutare quanto il fato ha già stabilito, era proibito; tranne che durante le Saturnalia, quando il ciclo annuale si concludeva e l’ordine del nuovo anno veniva espresso dalla divinità tramite questo mezzo di divinazione collettiva e individuale. Le caselle favorevoli, che aiutano e facilitano il viaggio e la ricerca, sono quelle con le Oche (gli Atlantidi o i loro discendenti e, successivamente, i Templari, i nuovi iniziati alle arcane conoscenze e agli antichi “misteri”) perché possono fornire aiuto, guida e sostegno, e quelli con i Dadi (le grandi pietre sagomate) che rappresentano i luoghi dove vivono gli Atlantidi (o i loro discendenti spirituali) e sono i lori segni indicatori. Le caselle sfavorevoli sono Ponti (gli attraversamenti), gli Alberghi (luoghi sicuri e confortevoli dove la determinazione può venire meno e che è sempre penoso lasciare), i Pozzi (gli abissi), il Labirinto (il percorso sconosciuto dove è facile smarrirsi o perdere la memoria dello scopo della propria missione), il Carcere (il luogo che trattiene contro la propria volontà) e la Morte (che interrompe per sempre il viaggio). I Labirinti, con il tempo, da ostacoli e impedimenti diventeranno delle prove da superare se si vuole raggiungere la meta e dei simboli di rinascita o rigenerazione spirituale, ma anche simbolo del viaggio stesso, del pellegrinaggio. Il girovagare, il viaggiare continuo, il cercare senza tregua, finirà per essere assimilato al movimento degli astri e del sole in particolare o darà luogo al culto solare. Sui loro itinerari i discendenti degli atlantidi edificheranno torri e fortezze accanto alle quali fonderanno le loro Tube e le loro Rode, fino a quell’ipotetica “Ultima Tule” che rappresenta la fine del viaggio e fino a ritrovare Rute, l’isola degli antenati. Questo continuo viaggiare, ormai assimilato nel macrocosmo al movimento del sole e degli astri, sarà simboleggiato dalle danze rituali, ed i vorticosi girotondi ed il ruotare su se stessi indurranno nei danzatori una esaltazione ed una trance che affinerà le qualità psichiche e permetterà loro di fare incredibili viaggi spirituali e porsi in comunicazione con gli antenati. Come ad esempio fanno i Dervisci e gli Sciamani. Per questo la musica, che inizialmente era soltanto ritmo per sostenere la danza, e la danza stessa, sono ritenuti doni divini in quanto spalancano all’uomo orizzonti immensi e pongono la psiche umana in diretta comunicazione con il trascendente. Ma non sono solo le danze iniziatiche ed estatiche a provenire da questa ricerca delle origini e dal cammino che è necessario compiere, anche il modo di camminare deve essere ritmato e simbolico nei percorsi rituali. Nelle grandi processioni, si pensi ad esempio a quelle veramente imponenti del periodo megalitico, lungo gli allineamenti di Carnac, ma anche a quelle babilonesi, egiziane, romane, della Cina, o del nuovo mondo, i portatori dei simboli sacri devono scandire il passo in modo lento e solenne, in armonia con il cosmo e con i suoi ritmi. Così è nato anche il “passo dell’Oca”.
    Il gioco della campana

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    Predefinito Re: La paganità risorge anche attraverso i riti cristiani!

    « La spiegazione del mistero della salvezza mediante la donna, o se si preferisce mediante la femminilità, sta nella natura stessa di Maya: se la Maya può attrarre verso l'esterno, può ugualmente attrarre verso l'interno. Eva è la vita ed è la Maya manifestante; Maria è la Grazia ed è la Maya reintegrante. Eva personifica il demiurgo nell'aspetto di femminiltà; Maria è la personificazione della Shekhinah, della presenza a un pari virginale e materna>>
    Frithjof Schuon







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  10. #20
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    Predefinito Re: La paganità risorge anche attraverso i riti cristiani!

    Nel Piemonte più appartato resistono vestigia di un’antica, segreta devozione popolare d’esaltazione del vigore maschile, e Biella non è esente da questi segni della tradizione.
    Nel lontano passato della cristianizzazione è stato inglobato nel Battistero romanico un singolare bassorilievo litico d’origine incerta ma verosimilmente d’età romana. Raffigura due misteriosi personaggi di sesso maschile, entrambi nudi e coi genitali in mostra, uno con una fronda in mano e l’altro abbracciato ad una colonna dall’inequivocabile forma fallica.
    Cosa rappresenti davvero questa singolare scultura non si è mai capito anche se i due fanciullini esibiscono anch’essi i genitali, sembrano voler agitare una fronda ed eseguire un passo di danza.
    Nel 1881 lo storico Severino Pozzo sostenne che l’arcaica scultura avrebbe raffigurato l’eroico guerriero Ercole assieme al dio Bacco mentre Giuseppe Fontanella nella “Guida al Biellese nel turismo e nell’industria” lo ritiene “un bassorilievo marmoreo raffigurante Ercole con amorini, soggetto pagano dell’epoca dei Cesari, probabilmente proveniente da tombe romane preesistenti nelle adiacenze”.
    Un noto esperto come Gianni Carlo Sciolla ha più correttamente spiegato che nella lastra sono raffigurati due “eroti”, dunque dei personaggi al centro delle pratiche sessuali del mondo pagano.
    L’erudito nobiluomo britannico Richard Payne Knight che alla fine del ‘700 scopriva sorpreso la sopravvivenza di culti fallici nel santuario di Cosma e Damiano ad Isernia notava acutamente che il membro maschile è stato l’unico organo umano raffigurato come dotato di vita indipendente. In effetti, uccelli-mostri e satiri sono i soli “mostri” raffigurati in scene con personaggi umani e la scultura biellese non fa eccezione; accentua anzi l’autonomia del fallo, raffigurato gigantesco, turgido e ritto.
    La lastra con la colonna fallica benché d’origine oscura non è stata collocata in un museo ma orna il portale d’ingresso del più antico edificio religioso cittadino ancora in piedi, il battistero preromanico posto accanto al duomo della città.
    Perché i biellesi abbiano cristianizzato proprio questa lapide non è dato sapere.
    Ma ad accrescere il mistero di quella collocazione si aggiunge il fatto che al centro della piazza del duomo su cui si affaccia il Battistero è stata collocata nell’Ottocento una fontana sovrastata da una statua dello scultore biellese Giuseppe Bottinelli che raffigura Mosè con le famose “corna di luce” che gli spuntano dal capo come nell’analoga statua di Michelangelo e che Knight aveva interpretato come un esempio di permanenza del modello satirico-priapesco. Costretto a rappresentare nel marmo l’immateriale chiarore lo scultore, senza volerlo, doveva fornire al personaggio biblico le protuberanze sul capo che paiono davvero l’attributo più rappresentativo dell’ambivalente natura animalesca di creature ibride come i satiri sessualmente disinibiti di Roma antica o i “Salvèj” dell’emarginazione montana….





 

 
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