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Discussione: La nota politica

  1. #11
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    Predefinito Re: La nota politica

    Crisi del bipolarismo


    La minaccia alla democrazia


    Perché un sistema maggioritario possa funzionare, prima di una buona legge elettorale, serve una visione comune della vita politica e dei suoi valori. I paesi anglosassoni, esempi classici dei sistemi elettorali maggioritari, hanno avuto alla loro base un’identità indiscussa ed indiscutibile che ha consentito quell’alternanza secolare e pacifica fra le principali forze politiche, perché legata ad un medesimo riferimento storico e nazionale. Eppure la stessa Inghilterra appare oggi come ingessata da questo suo sistema ed un successo alle presidenziali statunitensi di Trump, potrebbe persino compromettere l’unità del vecchio partito repubblicano statunitense. L’articolazione delle posizioni e la complessità sociale, hanno messo in difficoltà anche le coesioni più affidabili dei partiti tradizionali, come quelli che si conoscono nella democrazia americana. Mentre in Gran Bretagna è già emerso un fenomeno come Farage. Il sistema maggioritario ha avuta molte più difficoltà ad affermarsi nel continente europeo, dove i trascorsi politici nazionali sono molto più burrascosi, basta pensare che solo in Italia per decenni metà dell’elettorato si è rivolto al modello sovietico e non a quello occidentale come punto di riferimento. Il tentativo di voler fare come nelle democrazie anglosassoni successivo al crollo del muro di Berlino, aveva sua una ratio, non fosse che più o meno a cavallo di quegli stessi anni i sistemi maggioritari esistenti iniziavano ad essere messi in discussione. Quando Veltroni e Berlusconi lanciavano la loro idea di partito unico, si trovavano un consenso minato alla stessa radice. Semplicemente non si sono voluti accorgere, presi dall’entusiasmo della novità, che Tony Blair aveva persino promesso il proporzionale al popolo di sua Maestà, o che Angela Merkel governava tranquillamente da dieci anni affidandosi a quel sistema. Ora, entrambi i grandi partiti italiani, vivono e hanno vissuto una frammentazione posta alla base dell’instabilità politica del sistema provocando non solo la caduta dei governi legittimi, ma persino l’instaurazione di governi avulsi dalle prese di posizioni dell’elettorato. Per questo hanno ragione coloro che parlano di una minaccia al cuore della democrazia, ma non per le riforme volute dal governo Renzi, che sono in discussione, e sempre le stesse, da più di 15 anni, ma perché ancora non ci si vuole accorgere, dei danni procurati dal sistema maggioritario in un tessuto politico disaggregato come era ed è rimasto quello italiano.


    Roma, 16 marzo 2016


    La Nota Politica

    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #12
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    Predefinito Re: La nota politica

    La grande partecipazione di popolo al referendum costituzionale ha dato un segnale chiaro ed inequivocabile sulla volontà degli italiani di bocciare la riforma del governo, tanto che il presidente del Consiglio, con le sue dimissioni, è stato costretto a prenderne atto. Nel complesso il Paese ha offerto una prova di maturità democratica di cui possiamo essere orgogliosi. Che poi da questo momento si apra un processo politico istituzionale particolarmente difficile e complicato era in qualche modo scontato. Confidiamo nella saggezza del Capo dello Stato e nella responsabilità delle principali forze politiche per riuscire ad avere una soluzione ordinata della crisi. E’ plausibile che il voto referendario abbia posto termine alla legislatura. Ammesso che si possa formare un nuovo governo avrebbe del miracoloso riuscire a far fronte agli impegni economici richiesti dalla Commissione europea, infatti già si paventa di esercizio provvisorio. E’ però necessario uno sforzo per realizzare almeno una nuova legge elettorale, visto che quella varata dalle Camere, non prevede il voto al Senato e quella con cui è stato eletto l’attuale Parlamento, è stata giudicata incostituzionale. Solo una legge elettorale proporzionale, sarebbe in grado di rispettare pienamente la Costituzione vigente, che presume la formazione del governo in Parlamento, e districarsi dalle contraddizioni politiche che hanno caratterizzato il sistema maggioritario. Un sistema che ha saputo dimostrarsi efficace in una sola delle sei legislature che si sono succedute da quando è stato adottato. I risultati di stabilità che aveva promesso, sono falliti clamorosamente sarebbe inutile farsi ulteriori illusioni. Un ritorno al proporzionale offrirebbe una soluzione ordinata alla crisi politica del Paese e consentirebbe al Pri di rilanciare la proposta di una federazione dei repubblicani rivolta a tutti coloro che vogliono difendere l’ancoraggio ai valori ed ai principi di democrazia europea che hanno caratterizzato la nostra vicenda politica dalla seconda metà dell’800 a oggi.



    Roma, 5 dicembre 2016
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  3. #13
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    Predefinito Re: La nota politica

    Rottamazione conclusa


    Riesumato il Mattarellum


    Perché venisse riesumato il “Mattarellum”, sistema elettorale del secolo scorso, all’interno del Pd deve essere cambiato qualcosa di molto profondo, tanto più se si pensa che la Consulta deve ancora pronunciarsi sull’Italicum. Con la “rottamazione” anche la vocazione maggioritaria del partito democratico ha perso smalto e si ritorna ai tempi de “l’Ulivo”, quando vi era una coalizione di partiti alleati che candidava persino un premier estraneo al partito di maggioranza relativa, com’era allora Romano Prodi. Uno schema presto superato, visto che “l’Italicum” prevedeva il premio di maggioranza al singolo partito più votato, quando il “Mattarellum”, lo distribuiva alla coalizione. In pratica, con il “Mattarellum”, più ampia è la coalizione, più vi sono possibilità di vincere le elezioni. Le riserve nei confronti di questo sistema non possono essere dovute al fatto che la vita politica italiana si è tripartita, come pure hanno detto alcuni esponenti di Forza Italia. Anche nel 1996 e nel 2001 i poli erano tre, essendo Rifondazione comunista perfettamente autonoma e comunque un sistema maggioritario quale che sia, si rivolge a soggetti politici ambiziosi di diventare il primo partito dopo il voto. I liberali inglesi ad esempio, sono sempre stati penalizzati dal maggioritario secco in uso nel loro paese, sono una forza del 15, venti per cento dell’elettorato, ma hanno sempre accettato quel sistema elettorale sperando di tornare il primo partito, come accadde loro nell’800. Il problema del “Mattarellum” è piuttosto il recupero proporzionale, lo scorporo e il possibile accordo di desistenza, tutti elementi che contribuiscono a limitare ulteriormente la rappresentanza effettiva del voto dell’elettorato, oltre che a poter creare anomalie nelle due camere. Il “Mattarellum” funzionò nel suo complesso, le maggioranze delineate furono sempre nette, ma venne accantonato comunemente, anche perché dal bipolarismo si volle passare al bipartitismo. Se questo passaggio oggi si considera in crisi, torni pure il “Mattarellum”, anche se sarebbe interessante ascoltare un parere della corte costituzionale su di esso alla luce della sentenza che verrà emessa sull’Italicum.


    Roma, 20 dicembre 2016
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  4. #14
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    Predefinito Re: La nota politica

    Un Patto Federativo Repubblicano



    Il sondaggio della settimana scorsa pubblicato da Repubblica sugli umori degli italiani fa sapere che la sfiducia nei partiti è ancora aumentata così come il sentimento di distacco dallo Stato. Una tale crisi di consenso non si spiega semplicemente con le difficoltà incontrate dalle principali promesse di rinnovamento di questa legislatura, ma con la sempre più profonda convinzione nei cittadini che nessuna delle forze della politica sia in grado di invertire la rotta di declino che il Paese ha preso da trent’anni a questa parte. Si era pensato che bastasse liberarsi del pentapartito e della prima Repubblica, cambiare le leggi elettorali, affidarsi ad un leader lungimirante, ed ecco invece dove ci siamo trovati ridotti. Riannodare il filo di una storia e recuperare i suoi passaggi virtuosi non è un’impresa facile. Presa una rotta di marcia catastrofica con il referendum maggioritario e l’eliminazione giudiziaria dei partiti estensori della Costituzione, nessuno ha voglia di ammettere di aver sbagliato tutto e tanto meno sarebbe possibile ricominciare daccapo come se tutto quello che è avvenuto si potesse cancellare. E’ possibile però per lo meno compiere lo sforzo di richiamare quanto di sano sia rimasto nel Paese ad un impegno comune. L’Italia e la vita politica possono essere migliori di quelle che sono. Le forze di minoranza discriminate dal sistema maggioritario hanno dato un grande contributo allo sviluppo ed al benessere della vita degli italiani dal secondo dopoguerra in avanti, dall’adesione allo Sme alla battaglia, vinta, per i diritti civili. Bisogna saper individuare altri obiettivi utili alla ripresa del Paese ed impegnarsi per raggiungerli. La Repubblica, non è solo il mero esercizio del potere ma la pretesa che questo sia efficace e capace di conseguire risultati utili per la comunità. Un patto federativo tra coloro che hanno interesse al futuro positivo del Paese, un patto federativo repubblicano, è l’ultima possibilità da offrire ad un’Italia sul punto di smarrirsi completamente.


    Roma, 9 gennaio 2017
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  5. #15
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    Predefinito Re: La nota politica

    Dopo la Consulta


    Uno sforzo, un’opportunità


    Per una sorta di eterogenesi dei fini, la legge elettorale che voleva indicare un governo immediatamente aperte le urne, ci riporta un sistema proporzionale corretto, dove solo il Parlamento avrebbe l’autorità di indicare la responsabilità di guidare il Paese. Tale è stata la decisione della Consulta, in rispetto della Costituzione vigente per la quale il governo non viene eletto direttamente dal Popolo. In base a questa stessa Costituzione vigente, ha poco senso chiedere il voto subito da parte di coloro che si sentono autorizzati a farlo, perché finché il governo dispone di una maggioranza parlamentare, non c’è ragione per il Capo dello Stato di sciogliere le Camere. Bisogna che chi è stato contrario alla riforma della Costituzione, da Salvini a Grillo, si rassegni alla lettera di questa esistente. La Corte Costituzionale non ha escluso comunque il premio di maggioranza al partito che raggiungesse la soglia del 40 per cento, un obiettivo che appare piuttosto impossibile. La sentenza consente comunque a Matteo Renzi di rispolverare il suo progetto di “un partito della Nazione” che potrebbe provare a cimentarsi, se la determinazione non verrà a mancare, a raccogliere una tale mole di consensi. In quel caso si salverebbe almeno il sistema maggioritario, come potrebbe anche fare Grillo, se da solo riuscisse ad ottenere lui questo premio. In un quadro dove tutte le certezze avute sino a ieri si rimettono necessariamente in discussione, il partito repubblicano ha di nuovo una sua chance. Con un suo programma autonomo, e suoi candidati sotto le liste dell’Edera, può concorrere per ottenere quel tre per cento dei consensi che gli consentirebbe quella piena indipendenza parlamentare e politica schiacciati dagli anni del bipolarismo maggioritario. Un simile risultato, non è a maggior portata di mano di quello dei partiti che sperano di ottenere il premio di maggioranza, e pure varrebbe la pena di fare uno sforzo in questo senso se riuscissimo a radunare le fila e a cercare quelle convergenze con movimenti politici che non si riconoscono in un quadro politico del tutto insufficiente ad affrontare i gravi problemi del paese.


    Roma, 27 gennaio 2017
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  6. #16
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    Predefinito Re: La nota politica

    Perché c’è bisogno del PRI


    La crisi del partito democratico, si inscrive all’interno di una crisi del sistema maggioritario, ben più grave di quella avvenuta del sistema proporzionale perché spontanea e non indotta dall’azione giudiziaria di 25 anni fa. Nonostante la corruzione sia persino aumentata rispetto ad allora, come dicono gli stessi giudici del pool di “mani pulite”, i partiti resistono molto meglio alle inchieste delle procure e ciononostante si sfasciano peggio. Accadde al Pdl e oggi accade al Pd, ovvero i due principali partiti a vocazione maggioritaria del Paese, esattamente come è accaduto ai governi improntati su questo sistema, salvo la stagione del 2001 al 2005, dove però ancora i sopravvissuti del proporzionale, partiti come quello socialista e quello repubblicano, furono indispensabili alla stabilità del governo. Dopo di che il diluvio: dal 2006 al 2017 si sono succeduti sei governi, di cui solo due eletti direttamente e a questo si è accompagnata una diminuzione costante della partecipazione popolare alle urne. Il sistema maggioritario, non solo ha ridotto la rappresentanza, ma nemmeno assicurato la stabilità, per cui si comprende, indipendentemente dai fattori economici che pure si aggiungono, la deriva di protesta imboccata da grande parte del nostro paese. Quando si poteva ancora sperare in un intervento di ridefinizione del sistema, avevamo proposto inascoltati un’Assemblea costituente. L’occasione propizia era il governo Monti dove destra e sinistra collaboravano o avrebbero dovuto collaborare nell’interesse nazionale. Trascorso quel breve momento di distensione lo scontro è ripreso e senza vincitori, perché la sinistra è a pezzi, la destra peggio e Grillo, il nuovo fattore politico del paese, incontra le sue prime difficoltà alla prova dell’amministrazione. C’è quindi più di un motivo perché il partito repubblicano torni a svolgere un ruolo ed una funzione utile alla nazione: la Repubblica è sull’orlo del precipizio. Ma per avere successo abbiamo bisogno di tutto il vostro impegno e di tutte le nostre forze. Diamoci da fare.


    Roma, 21 febbraio 2017
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  7. #17
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    Predefinito Re: La nota politica

    La posizione del PRI sulla presenza dei simboli religiosi in edifici pubblici


    la Segreteria Nazionale del PRI


    La proposta presentata alla Camera da diversi esponenti di primo piano della Lega di reintrodurre l’obbligo della presenza del crocifisso nei luoghi pubblici vede i repubblicani contrari. Noi crediamo nella laicità dello Stato, che significa rispetto di tutte le religioni e libertà di professarle. I principi fondamentali della Costituzione fissano l’eguaglianza di tutti i cittadini e di tutte le religioni di fronte alla legge. In Italia non esiste una religione di Stato, ma un credo professato da una buona parte degli italiani, che hanno pieno diritto di esporre i loro simboli nei locali religiosi. Gli spazi pubblici devono invece rimanere neutri rispetto ai principi religiosi, mantenendo solo l’esposizione dei simboli dello Stato (la bandiera e la foto del Presidente della Repubblica). Le libertà civili conquistate negli anni non possono essere cancellate, riportandoci indietro negli anni allo Statuto Albertino.
    I parlamentari si facciano piuttosto promotori di proposte più serie. L’ora oggi diventata facoltativa di insegnamento della religione cattolica nella scuola dovrebbe essere trasformata in ora obbligatoria di insegnamento di storia e cultura delle religioni, in modo tale da rendere i giovani aperti al confronto tra credi diversi, oggi più che mai necessario se vogliamo lavorare per creare realmente una società in cui le religioni assumano una funzione di incontro e non di scontro fra civiltà.


    Roma, 30 Luglio 2018



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  8. #18
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    Predefinito Re: La nota politica

    Tornare indietro o andare avanti? Siamo al bivio tra deriva Argentina e Rinascimento italiano


    di Enrico Cisnetto, Direttore del quotidiano online Terza Repubblica


    L’Italia è di fronte ad un crocevia epocale, che potrà deciderne le sorti per molte generazioni a venire. Per la verità sono molti i bivi cui siamo innanzi, ma ce n’è uno che li riassume tutti: vogliamo tornare indietro o andare avanti? Per essere più espliciti, vogliamo considerare il Covid un’emergenza sanitaria da cui rientrare al più presto e con minore danno possibile, per appunto tornare alla situazione preesistente, oppure preferiamo considerarlo anche un’opportunità – non sembri irrispettoso verso la sofferenza che il virus ha generato – grazie alla quale poter fare quel balzo in avanti verso la modernità che non siamo riusciti a compiere prima? Messo in questi termini, il dilemma potrebbe apparire facile da sciogliere: “andare avanti” suona meglio di “tornare indietro”. In realtà, la questione è molto più complessa e la domanda produce molto più tormento di quanto non si pensi. Proviamo a capire perché.
    Il nostro Paese è dentro un declino che dura ormai da trent’anni. Lento, ma inesorabile. Un progressivo scadimento che pervade tutti gli aspetti della vita nazionale: da quello politico e istituzionale a quello economico, da quello sociale a quello culturale. I diritti che prevalgono sui doveri, il merito che soccombe di fronte alla mediocrità, la lentezza e la conservazione che soverchiano la velocità e il cambiamento, la cultura del rischio che alza le mani di fronte alla massimizzazione delle garanzie e alla deresponsabilizzazione. Un impasto di pigrizia, riflessi condizionati, pregiudizi ideologici, conformismo. Tanto che si potrebbe parlare di un processo di involuzione antropologica. Naturalmente, non è un fenomeno a senso unico e uniforme, ci sono ampi strati di popolazione e diversi ambiti nei quali l’eccellenza fa premio. A macchia di leopardo. Ma la tendenza, riassunta nel decadimento del ceto politico e della classe dirigente così come nella perdita di credibilità delle istituzioni pubbliche (e un po’ anche di quelle private), non c’è dubbio che sia ineludibilmente quella.
    La cosa grave è che non ne siamo consapevoli, o quantomeno non fino in fondo e non se siamo chiamati in prima persona ad assumerci la nostra quota parte di responsabilità. Passiamo dalla qualunquistica affermazione che tutto è “emme” a quella consolatoria che in fondo siamo un grande paese, con i ristoranti sempre pieni (pre-virus) e mediamente due auto e due telefonini a testa, e che la colpa di quello che non va è del nemico di turno (la casta, i tedeschi, Bruxelles, l’euro, le banche, gli immigrati, ecc.). In pochi sono consapevoli che la montagna di debito pubblico su cui siamo seduti è la certificazione contabile di un gigantesco trasferimento di ricchezza dalle casse dello Stato a quelle di ciascuno, di categorie, territori, percettori di rendite – sostanziata in quasi 9 mila miliardi di patrimonio privato, tre volte e mezza il debito pubblico e cinque volte il pil – perché piace di più credere che sia il frutto di furti e malversazioni di chi comanda e mette le mani nelle tasche della povera gente.
    Il risultato è una sorta di schizofrenia nazionale: da un lato, la parte protetta dei cittadini, compresi gli imprenditori che vivono attaccati al bocchettone della spesa pubblica, vuole mantenersi garantita e dunque è contraria a qualsiasi cambiamento, ma nello stesso tempo protesta perché vorrebbe ancor più protezione e pensa che ci siano dei privilegiati che glielo impediscano; dall’altro lato, la parte che rischia e si mette in gioco, che sua volta si divide tra coloro che si arrangiano (evasione, elusione, nero) e coloro (parliamo sia degli imprenditori e dei professionisti, sia dei loro dipendenti e consulenti) che invece accettano la sfida della concorrenza, dei mercati internazionali e dell’innovazione tecnologica. Ma questi ultimi, che sulla carta sono la parte più sana e determinante della società, a loro volta hanno il grave difetto (tranne poche eccezioni) di essere chiusi nel loro mondo e, pur mugugnando per ciò che non va, di non formare una élite consapevole del proprio ruolo sociale. Naturalmente non mancano le esimenti, a cominciare dalla deterrenza ad occuparsi della cosa pubblica esercitata dalla magistratura, che con il suo truce giustizialismo incute paura e allontana i migliori.
    Tuttavia, questa è la fotografia socio-economica degli italiani così come sono entrati nel tunnel del Covid. Ed è questa l’Italia che ora, costretta dal coronavirus e dai suoi letali effetti sanitari prima ed economici poi, è di fronte al bivio del che fare. Lo sono il Governo, il Parlamento, le forze politiche, le istituzioni centrali e periferiche. Lo sono le forze economiche e sociali, le imprese, i lavoratori. Lo sono le famiglie e i cittadini in quanto tali. Fino a ieri il crocevia era rappresentato dalla scelta tra cura della salute e tutela del lavoro. Finché nell’opinione pubblica ha prevalso la paura della peste, la strada indicata era quella del lockdown e della sua esaltazione morale, quasi epica. Quando è cominciata a subentrare la stanchezza della segregazione e la paura che la pandemia si trasformasse in carestia, ecco che si (stra)parla di riapertura, di ritorno (seppur graduale) alla normalità. Nel primo caso si è imposto il “tutti a casa” senza indicare preventivamente le conseguenze economiche del blocco, nel secondo si è arrivati a pochi giorni dalla (presunta) fine del lockdown del 4 maggio senza uno straccio di regola, né tantomeno di preparazione organizzativa. Il tutto, sia fase 1 che fase 2, nel pieno di una confusione totale, ridicola se non fosse drammatica, che contrappone il governo centrale presunto decisionista – che per poterlo essere ha sospeso la normale dinamica democratica, per di più procedendo discutibilmente sul piano costituzionale come ha spiegato Sabino Cassese nella mia War Room) – agli amministratori regionali e provinciali e ai sindaci, e che si nutre di un numero crescente di esperti (veri e presunti) e di task force che li raggruppano.
    Nello stesso tempo si è aggiunto, agli altri dilemmi, quello finanziario: tra “facciamo da soli” (sottinteso: che con il debito ci sappiamo fare) e “andiamo ad esigere il dovuto in Europa”, il problema è trovare i soldi necessari a risollevarci dopo lo tsunami (tanti, tra il 10% e il 15% del pil, cioè tra 170 e 250 miliardi). Un dubbio su cui si sono scaricate vecchie pulsioni sovraniste e nuove furbate populiste. E che per la doppia incapacità di non saper indicare la strada maestra da percorrere – che non può non essere quella europea, se non per afflato ideale certamente per stato di necessità – e di non saper negoziare nei contesti internazionali, ci ha esposto al rischio di vederci espulsi dall’euroclub. Un passaggio che per noi sarebbe esiziale e ci porterebbe al default, alla deriva argentina. Per fortuna, è prevalso il timore del peggio (no, di buonsenso non si può parlare), che sommato con la capacità negoziale di Francia e Spagna in seno al Consiglio Europeo (di cui abbiamo usufruito) e la prudenza di Standard & Poor’s che ha confermato il nostro rating evitandoci l’onta di veder finire i Btp tra i titoli “spazzatura”, ci ha per ora consentito di salvarci in corner.
    Ma se alla fine bene o male riapriremo bottega e se, bene o male, resteremo in Europa, ciò non ci esimerà dal dover scegliere che strada imboccare al cospetto del “bivio dei bivi”: torniamo indietro o andiamo avanti? La prima è la via più semplice e per la quale, come ho cercato di dire all’inizio del mio ragionamento, siamo naturalmente portati. Nello specifico, si tratta appunto di continuare a fare come prima, salvo in un contesto reso molto più difficile sia dal permanere del virus – che richiede abitudini comportamentali e una organizzazione di vita personale e sociale diversa da quella del passato, almeno fintanto che non sarà trovato l’antidoto – sia dalla crisi recessiva che il lockdown ha generato. In questo caso tutte le scelte – quelle politiche, ma anche quelle professionali e personali – saranno all’insegna del metterci una pezza in attesa che il virus sia sconfitto e le lancette dell’orologio nazionale siano riportate a prima del Covid. Un atteggiamento sostanziale, che come sempre sarà però accompagnato da un’affabulazione di segno opposto.
    La seconda strada è decisamente più impervia. Per sceglierla occorre avere la piena consapevolezza del declino italiano, della sua dimensione e articolazione, e di conseguenza dell’effetto moltiplicatore e acceleratore che la crisi avrà su di esso. Imboccarla – intendo sul serio, non a chiacchiere – significa accettare l’idea di rimettere in discussione tutto: noi stessi, prima di tutto, e poi la società, intesa come mentalità collettiva e come modelli organizzativi, il sistema economico (il capitalismo all’italiana), la politica, le istituzioni. Significa archiviare la lunga stagione del sommerso fai da te e al tempo stesso smontare il soffocante avviluppo di regole e regolette con cui si è preteso di normare ogni singolo atto delle nostre attività, applicando finalmente il sano principio che tutto è permesso tranne ciò che è espressamente vietato. Significa, di conseguenza, riformare in modo radicale la giustizia, togliendo quella cappa plumbea che blocca l’intrapresa, favorisce la deresponsabilizzazione diffusa e allontana i migliori dalla cosa pubblica e dalla politica. Significa liberare le imprese da mille vincoli e adempimenti spesso solo formali (per capirci, la velocità con cui a Genova si è ricostruito il Ponte Morandi che diventa regola e non resta eccezione), ma controllarle ex-post e castigarle severissimamente quando sbagliano. Significa investire e lavorare come fu nel secondo dopoguerra, dimenticandosi le rendite di posizione. Significa organizzare una società digitale – fateci fare lo smart working con la fibra e vedrete come aumenta la produttività – e abbandonare ogni forma di protezione e indulgenza per quella analogica. Significa ridurre in modo significativo il perimetro della pubblica amministrazione, privatizzandone funzioni e servizi, e nello stesso tempo specializzare e rendere competitiva e meritocratica (con incentivi e disincentivi) la parte che rimane. Significa ripensare senza pregiudizi all’architettura istituzionale, semplificando quella del decentramento e restituendo competenze allo Stato (la sanità, prima di tutto), ma anche cancellando i tanti orpelli che hanno sede a Roma.
    Ma significa, prima di tutto e soprattutto – perché propedeutica ad ogni altro cambiamento – la trasformazione del sistema politico e la rivisitazione delle istituzioni. Un reset che richiede la riscrittura delle regole basilari – senza la furia iconoclasta di chi vorrebbe buttar via la Costituzione, ma neppure senza il tabù della sua intoccabilità – partendo da un’Assemblea Costituente che segni il primo passo del nuovo Rinascimento italiano. Troppo difficile? Troppo ambizioso? È probabile. Un salto nel buio troppo rischioso? Può darsi. Metti in discussione abitudini, garanzie e privilegi? Sicuramente. Ma prima di rinunciare è bene convincersi che scegliere di tornare indietro è ancora più rischioso, perché i ponti levatoi si sono alzati e la probabilità di finire nel burrone – la deriva argentina – non è altissima, è quasi una certezza.


    Roma, 27 Aprile 2020

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