di Giovanni Spadolini




23 gennaio 1945. Dalle colonne dell’edizione romana dell’Italia libera, Ugo La Malfa lancia la clamorosa proposta di dar vita a “un raggruppamento democratico con aspirazioni maggioritarie”, cementato da pochi ed essenziali punti programmatici, tali da assicurare autentiche “riforme strutturali”, un reale avanzamento democratico al Paese. È una proposta di “rottura” fra partiti della coalizione antifascista, volta a isolare a destra i liberali (i liberali di allora) e a sinistra i comunisti, avvicinando democristiani e socialisti e – in funzione di equilibrio nel nuovo, vagheggiato schieramento – azionisti, repubblicani, i pochi seguaci della “Democrazia del lavoro” (ombra del vecchio consunto radicalismo).
I mesi in cui matura la proposta sono mesi di intenso travaglio interiore per La Malfa. Con la formazione del governo Bonomi aveva sperato “in un grande inizio di democrazia”, come si legge in una lettere indirizzata a Adolfo Tino, il 6 dicembre 1944 pubblicata sulla Nuova Antologia, a cura di Elisa Signori, nel fascicolo dell’aprile-giugno ’83.
“Ma gli uomini si mostrano inferiori al compito – prosegue La Malfa in quella lettera (“compreso il capo – cioè Bonomi -, onesto ma sbiadito”) - , gli alleati non sanno veder chiaro e la povera gente è afflitta da mille guai e disorientata”. “Bonomi non è stato fedele alla missione per cui era stato assunto al governo. Egli ha lasciato molte situazioni invariate, altre le ha fatte regredire: esteri, interni e guerra sono stati al centro di una politica di ripresa reazionaria e di mollezza prefascista. Quell’energica azione di governo che noi speravamo non si è avuta: I quadri del vecchio Stato rimangono incrostati. Il tutto si muove con incredibile lentezza e con molta incertezza”.
Con lo stato d’animo derivante da questa rigorosa coscienza e quasi altera intransigenza, La Malfa ha guidato il partito d’azione contro Bonomi, tentando di impedirne la conferma, avanzando la candidatura coraggiosa e il nome prestigioso di Carlo Sforza: una candidatura colpita dal “veto” britannico e infranta nel “no” del Luogotenente.
“Nuovi equilibri” è il titolo di quell’articolo apparso su Italia libera (https://forum.termometropolitico.it/...ml#post4591465). Sembra un annuncio di tempi nuovi, ma c’è soprattutto la critica spietata delle giornate che si stanno vivendo. Il realismo lamalfiano si contrappone all’utopismo generoso che alimenta altri filoni del partito d’azione (movimento complesso, in cui si rispecchiano parecchie ispirazioni intellettuali, l’anima dell’ “Unione democratica” di Giovanni Amendola ma anche l’anima di una “terza via” per il socialismo caratterizzante i gruppi più propriamente rosselliani, di “Giustizia e Libertà”).
In La Malfa non c’è nessuna indulgenza agli idola fori. Egli intuisce l’affievolirsi dello spirito della Resistenza, ancor prima della liberazione del Nord, delle storiche giornate di Milano. Sente che la forza trainante del partito d’azione potrebbe non sopravvivere a uno schieramento fortemente radicalizzato, a contrapposizioni rigide e manichee, muro contro muro. Insiste sulla necessità – egli che è stato fra i fondatori del partito d’azione, “il capo più in vista del partito-pilota”, come lo chiama anche Leo Valiani appena lo incontra – di impedire con nuove e originali soluzioni il ritorno al passato, il prevalere delle forze conservatrici sui fautori del “rinnovamento”. La rivoluzione democratica, che in taluni si tinge di messianesimo, è per lui fattore di impulso, di progresso, ma nell’equilibrio complesso di una società squilibrata dalla dittatura.
L’effettiva consistenza del partito comunista in Italia, lo spettro della rivoluzione sociale spingevano a destra i ceti medi: la democrazia cristiana “che avrebbe virtuale tendenza a gravitare verso le riforme strutturali di Pietro Nenni e del partito d’azione – scriveva in quei giorni La Malfa – si muove da sinistra verso destra, quasi intuendo la debolezza delle forze democratiche alla sua sinistra”.
Creare già allora, anticipando di un ventennio la storia, un saldo blocco di centro-sinistra, sottrarre i socialisti ai condizionamenti dell’alleanza col PCI (allora legato all’URSS) e inserirli nel metodo e nelle regole della democrazia parlamentare: fu questa la vera, autentica “occasione mancata” dalla Resistenza, occasione che il leader politico siciliano avrebbe sempre ricordato con rammarico. Una proposta, la sua, caduta sul nascere, di fronte al rigido rifiuto di Nenni di rompere il patto di unità di azione coi comunisti, di trattare da solo con De Gasperi.
Il colpo di grazia alla posizione predominante avuta nella Resistenza, il partito d’azione (di cui La Malfa avvertiva il nobile travaglio pari solo alla grandezza delle contraddizioni) lo ricevette pochi mesi dopo, con la crisi del giugno ’45. Isolato nel suo stesso partito (gli è vicino, nel giudizio politico, Adolfo Tino, l’antico amico della Commerciale), La Malfa paventò l’incarico a Parri, sostenne apertamente De Gasperi: con De Gasperi, le sinistre avrebbero potuto premere sul governo, assicurare al paese una graduale, ma costante spinta in avanti, sulla via delle conquiste sociali e delle riforme. Come preservare il patrimonio ideologico del partito di fronte a un’esperienza di guida del governo prematura?
Ugo La Malfa e il partito d’azione. Ma non solo La Malfa, e non solo Parri e Tino a lui vicinissimi; ma il gruppo di Torino, con Bobbio e Galante Garrone e Giorgio Agosti e Ada Gobetti e infiniti altri; il gruppo di Firenze, con Calamandrei e Ragghianti e Codignola e gli ex salveminiani sullo sfondo e poi il Ponte; il gruppo di Pisa, con l’influenza di Calogero perdurante oltre il manifesto del liberal-socialismo, tornato all’attenzione degli storici col convegno di Firenze su Tristano Codignola; e l’ombra di Capitini a Perugia; e il nucleo degli intellettuali di “Terza forza” a Roma; e la battaglia generosa di Omodeo a Napoli (di qui la ricostruzione della storia dell’Acropoli).
Ecco il paesaggio ideale che aveva avuto finora solo uno storico, uno storico dalle grandi linee, Leo Valiani, e che ha trovato un esegeta attento, penetrante e analitico in un giovane studioso del fascismo e della Resistenza, Giovanni De Luna: Storia del partito d’azione: La rivoluzione democratica (1942-1947). Fino alla finale spaccatura di La Malfa con Lussu, nella dicotomia su democrazia chiusa o aperta all’ideologia marxista.
De Luna ha frugato negli archivi privati, ha bussato a molte porte, ha incontrato difficoltà talora insormontabili. Momento di storia vivente, il partito d’azione non è ancora entrato nei classificatori. E non potrebbe neanche facilmente entrarvi: essendo stato, sotto molti aspetti, l’ultimo momento del Risorgimento in Italia (e non solo per quella testata, ideata da Mario Vinciguerra).
La “rivoluzione democratica”, per la quale gli uomini del partito d’azione, da Valiani a La Malfa, da Lussu a Parri e a Ragghianti si erano battuti senza risparmio di energie, morali e materiali, non ci fu, si infranse su quell’ultima spiaggia, sull’onda del riflusso moderato seguito alla caduta di Ferruccio Parri: quel riflusso destinato a costituire il vero supporto alla forza iniziale di De Gasperi. “Una grande energia morale si è dispersa”. Così La Malfa avrebbe definito la straordinaria e purtroppo effimera concentrazione di forze intellettuali che il partito d’azione riuscì a raccogliere, in quel particolare momento storico. E le energie morali, in ogni paese, proseguiva La Malfa, non sono una quantità infinita, ma anzi finita e scarsa. “Sono come l’uranio… Se questa quantità si disperde, la società tende a divenire opportunista e trasformista. Questa forza morale, quando accompagna le vicende politiche, è quella che “tiene” un Paese”. Di una “forza morale” di questo tipo avvertiamo il bisogno oggi ancor più di un quarantennio fa.

Da Giovanni Spadolini, Italia di minoranza. Lotta politica e cultura dal 1915 a oggi, Le Monnier, Firenze, 1983, pagg. 347-351.