Che ci piaccia o no, l’Europa siamo noi
Difficilmente viene naturale riprendere quasi nella sua interezza un articolo di giornale. Ma trattandosi di Guido Tabellini, uno dei nostri migliori economisti, e avendo svolto lui un ragionamento di una linearità ammirevole che condivido QUASI in toto e che è in gran parte quanto da quasi 3 anni ripetiamo su questo blog, beh, val la pena citarlo (in corsivo) ad ampie mani dal Sole 24 Ore (grazie a Paolo per avermelo segnalato) e commentarlo.
*Gli ultimi dati deludenti sulla crescita nell’area euro e in Italia confermano, se ancora ce ne fosse bisogno, l’inadeguatezza della strategia di politica economica seguita finora in Europa. Ogni Paese deve risollevarsi da solo, con riforme dal lato dell’offerta per riacquistare competitività, e con politiche di bilancio restrittive per riassorbire il debito pubblico. Ma il problema oggi nell’area euro è la carenza di domanda interna, non la competitività, e la stagnazione impedisce il rientro dal debito.
Nulla da aggiungere, perfetto!
Questo problema può essere risolto solo a livello europeo: i governi nazionali non hanno strumenti efficaci per stimolare la domanda aggregata, perché hanno le mani legate dal patto di stabilità e non hanno sovranità monetaria.
Qui leggo i prodomi del fallimento del ragionamento di Guido. Hanno le mani legate? Sleghiamole! Non abbiamo sovranità monetaria? Riprendiamocela! Ma ci torniamo più avanti, l’analisi di Guido si fa sempre più interessante.
Dal punto di vista tecnico, la soluzione sarebbe semplice e non avrebbe grosse controindicazioni. Ogni Paese dell’area euro dovrebbe tagliare le imposte di un ammontare rilevante (ad esempio del 5% del reddito nazionale), finanziandosi con l’emissione di debito a lungo termine (30 anni), e impegnandosi a ridurre i disavanzi nell’arco di cinque o sei anni, attraverso una combinazione di maggiore crescita e tagli di spesa. Il debito emesso dovrebbe essere acquistato dalla Bce, senza sterilizzarne gli effetti sull’espansione di moneta.
Il coordinamento tra politica monetaria e fiscale sarebbe essenziale per il successo dell’operazione: l’espansione monetaria farebbe svalutare il cambio e arresterebbe le spinte deflazionistiche; l’acquisto di titoli di Stato da parte della Bce eviterebbe l’aumento del costo del debito e, restituendo gli interessi sotto forma di signoraggio, ne alleggerirebbe il peso. E il taglio delle imposte darebbe uno stimolo diretto alla domanda aggregata, in un momento in cui i tassi di interesse sono già a zero e il canale del credito è bloccato dalle sofferenze bancarie.
E va beh, non si può avere tutto dalla vita. Tabellini, come Perotti, Alesina e Giavazzi, credono che l’abbassamento delle tasse e la riduzione della spesa (non degli sprechi, della spesa, ma ci torniamo dopo) siano espansivi. Non sarebbe difficile fargli vedere che tutti i dati scientifici a disposizione mostrano che tagli di spesa sono molto recessivi e diminuzioni di imposte poco efficaci in una recessione da domanda di questo tipo perché famiglie ed imprese non spendono le minori tasse ma le tesoreggiano in attesa che torni il bel tempo. Ma sostituite con “maggiori investimenti pubblici” le sue “minori imposte” e con “tagli di sprechi” il suo “tagli di spesa” (e già, non sono la stessa cosa) e ci ritroviamo perfettamente. Anche se mi domando: non sta Guido in questo passaggio chiedendo proprio di slegare le mani legate dal Patto di Stabilità e dalla mancata sovranità monetaria, cosa che poco prima dichiarava impossibile?
Questo è sostanzialmente quanto hanno fatto o stanno facendo, con modalità diverse, Stati Uniti, Inghilterra e Giappone per uscire dalla crisi. Eppure un’ipotesi del genere nell’area euro è pura fantascienza, perché si scontra con i vincoli istituzionali di Maastricht e con il veto politico della Germania che teme l’azzardo morale. Di qui a sei o nove mesi probabilmente la Bce sarà comunque costretta ad acquistare i titoli di Stato, per cercare di contrastare la deflazione. Ma l’intervento sarà ancora una volta timido e tardivo, e soprattutto, senza l’aiuto della politica fiscale, poco efficace. In questo disarmante quadro europeo, cosa può fare la politica economica italiana?
Ah ecco. Quindi il problema è effettivamente il disarmante quadro europeo. E allora perché non far qualcosa al riguardo? Non capiamo. Ma seguiamo il ragionamento sull’Italia per un attimo.
Innanzitutto, non deve fare errori. Questo vuol dire soprattutto non aggravare la carenza di domanda aggregata attraverso aumenti della pressione fiscale. La cosa è tutt’altro che scontata, perché l’assenza di crescita mette a rischio gli obiettivi di bilancio, sia per l’anno in corso che per il 2015 (dove manca qualche decina di miliardi). Per il 2014 probabilmente non c’è più nulla da fare, ed è meglio avere un disavanzo sopra il 3% e se necessario rientrare nella procedura di disavanzo eccessivo, piuttosto che aumentare il prelievo.
Mmmmm. OK, quindi dobbiamo slegarci le mani dal Patto di Stabilità. Possiamo concordare, ma non è il contrario di quanto detto sopra? Andiamo avanti.
Per il 2015 non ci sono alternative al dare piena attuazione ai tagli di spesa identificati dal rapporto Cottarelli, accelerandone i tempi. È inutile illudersi che esistano imposte innocue; in questa situazione qualunque forma di maggior prelievo avrebbe effetti negativi sulla fiducia e sulla spesa privata.
Bene, siamo d’accordo. Ma attenzione, non chiamiamoli tagli di spesa, se non vogliamo incappare in tagli lineari che ammazzano ulteriormente l’economia. Devono essere solo tagli di sprechi, un po’ come ha fatto il Regno Unito di cui oggi molti celebrano il successo.
In secondo luogo, è importante fare tutto il possibile per evitare ulteriori aumenti del debito pubblico. Non tanto perché lo impongono i vincoli europei, ma per non perdere la fiducia dei mercati. Le privatizzazioni devono ripartire, andando oltre i modesti obiettivi indicati dal programma di stabilità del governo Letta e confermati da questo governo (1% del PIL ogni anno), e finora disattesi. La situazione sui mercati finanziari non è sfavorevole, e qualunque ritardo o esitazione sarebbe del tutto incomprensibile.
Un po’ banale questo passaggio (anche ricordando che le privatizzazioni sono previste per 0,7% l’anno): il debito su PIL sale perché il PIL scende. E continuerà a salire quando le privatizzazioni saranno finite (presto); non saranno certo loro a rassicurare i mercati che esigono crescita dall’Italia. Il che ci porta naturalmente alla proposta di Guido sulle famose riforme: come potevano mancare anche se all’inizio aveva detto che l’offerta non c’entra niente con questa crisi da domanda?
E le politiche dell’offerta per ridare competitività all’economia italiana? Anche se il loro effetto sulla crescita è dilazionato nel tempo, sono comunque urgenti e essenziali, per due ragioni. Primo, per rinforzare la fiducia delle imprese e dei mercati finanziari sulle prospettive future dell’economia italiana. Secondo, per vincere le resistenze europee ad adottare politiche macroeconomiche più espansive.
Ecco, le riforme non incidono ora sul PIL (quindi come abbattiamo il debito su PIL se non con politiche della domanda?). Ma servono per convincere la Germania a farci fare politiche più espansive (quanto espansive?). Può darsi. Ma quali riforme? Io penso per esempio che una buona spending review, assieme ad un abbattimento dei vincoli regolatori per le PMI, sia l’unica cosa di cui abbiamo veramente bisogno come riforma.
In altre parole: la crisi economica non potrà essere superata senza una svolta nelle politiche macroeconomiche di tutta l’area euro. Ma questa svolta non ci sarà senza riforme radicali nei paesi del Sud Europa. Che ci piaccia o no, questa è la realtà della moneta comune.
Insomma, capiamoci. Le riforme non servono a risolvere la crisi, la crisi si risolve con politiche fiscali che rinnegano il Fiscal Compact e che levano indipendenza alla BCE quando questa come oggi non rispetta il suo mandato, eppure… facciamo le riforme perché non possiamo fare altro e così forse ci permettono un pochino di fare la cosa giusta. Che ragionamento convoluto e poco efficace (se abbiamo bisogno di tanto spazio per la politica monetaria e fiscale come pensare che ne otterremo tanto a parità di regole?).
“Che ci piaccia o no, questa è la realtà della moneta comune”? Evidentemente Guido non ci piace, né a te né a me, ed allora perché non cambiarla? Per esempio battendosi contro il Fiscal Compact come stiamo facendo noi oggi con il Referendum contro l’austerità?
Quello che sfugge a Guido Tabellini è che l’EUROPA SIAMO NOI e se qualcosa non ci piace, la possiamo cambiare noi perché è cosa nostra, non altrui. Altrimenti, negandolo, Guido Tabellini avrà servito su un piatto d’argento la migliore ragione per la morte del progetto europeo: la sua mancanza di democrazia. E siccome Guido di studi sulla democrazia importanti ne ha fatti tanti si candida naturalmente come primo esponente degli economisti Bocconi a firmare il nostro referendum.
Gustavo Piga, professore ordinario di Economia politica presso l'Università degli studi di Roma Tor Vergata, specializzato in affari economici internazionali, spesa pubblica e corruzione.