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    Predefinito Discorso per lo Stato Corporativo - 14 novembre 1933

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  2. #2
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    Predefinito Re: Discorso per lo Stato Corporativo - 14 novembre 1933

    Uno dei discorsi più significativi, importanti e "belli" di Mussolini - a mio avviso.
    Credere - Pregare - Obbedire - Vincere

    "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo" (Ger 17, 5).

  3. #3
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    Predefinito Re: Discorso per lo Stato Corporativo - 14 novembre 1933


    di G. Bot.

    CORPORATIVISMO. - Questo termine è usato, sia per designare l'organizzazione corporativa dello stato, qual è attuata in Italia e si viene attuando, sull'esempio italiano, in altri paesi, sia il complesso di quelle correnti di pensiero, che affermano la necessità di costituire l'organizzazione statale sulla base di corporazioni e secondo uno spirito corporativo. Tale movimento, promosso dalle idealità della rivoluzione fascista, ha portato, in Italia, alla costituzione dell'ordinamento giuridico e politico corporativo e all'elaborazione dottrinale di nuovi concetti intorno allo stato nei suoi varî aspetti, politici, sociali, economici, giuridici. Con minore nettezza e decisione di conclusioni e di risultati il movimento s'è poi manifestato in altri paesi, specie d'Europa.

    La parola può indurre, e induce, in effetti, a incomprensioni e deviazioni, per i riferimenti molteplici all'organizzazione corporativa medievale (v. corporazione, XI, p. 459 segg.), ch'essa, inevitabilmente, suggerisce. Appunto per questo è necessario distinguere e fissare con chiarezza i caratteri del corporativismo moderno nei confronti dell'antico.
    Quando vediamo, dalla metà del sec. XVIII, il movimento di abolizione delle corporazioni procedere dall'Inghilterra verso tutti i paesi del continente europeo più aperti a nuove correnti di pensiero, fino a culminare, in Francia, quindici anni dopo il vano tentativo del Turgot, nella legge Le Chapelier, del 17 giugno 1791, non possiamo non sentirne la giustificazione storica. A un uomo moderno il pensiero solo di quelle corporazioni, basate sul privilegio e sul monopolio, postulanti una collaborazione interna, di mestiere, chiusa ed esclusivistica, appare insopportabile. L'enfasi giacobina ha esagerato nelle conclusioni, com'era inevitabile, aprendo, tra l'individuo e lo stato, non più collegati da organi intermedî, la crisi della società moderna; ma non si vorrebbe che un'enfasi, altrettanto sconsiderata, gettasse negli animi e nelle menti germi d'un'involuzione, insiti in ogni organizzazione di mestiere e professionale, per la società moderna non meno pericolosa.
    Per riassumerli e metterli in evidenza si può dire che i caratteri fondamentali della corporazione medievale sono: organizzazione integrale del mestiere, i cui attori (imprenditori, dirigenti, operai) sono insieme associati, per quanto divisi in classì gerarchiche; rigida regolamentazione del mestiere, che si chiude ermeticamente; monopolizzazione del mercato; limitazione della concorrenza tra aziende; tendenza al livellamento tecnico delle imprese.
    Il raccostamento, da operare con le dovute cautele, mette in piena evidenza, che quanto sopravviva dell'antico corporativismo nelle associazioni professionali odierne è una forza contraria alla loro sistemazione nello stato contemporaneo: è il mestiere chiuso, che eleva il proprio interesse a norma, è la casta economica, che domina con la forza del suo stesso egoismo. Lo stato, sia che si limiti a riconoscere alle associazioni il diritto d'esistere, sia che le accolga, con più ampio disegno giuridico, nella loro funzione, non può lasciare che si traccino, entro il confine del territorio su cui la sua potestà si esercita, altri confini, che sotto qualunque pretesto, o economico o sociale, favoriscano il nascere o il crescere di poteri al suo estranei o avversi, che gli contendano perfino la protezione e la disciplina dei singoli, avocandola esclusivamente a sé medesimi. Lo stato moderno è unità; il corporativismo medievale è particolarità. Nessuna conciliazione era ed è possibile tra i due termini. Il corporativismo, che uno stato moderno può considerare non incompatibile con la propria struttura, è in crudo contrasto col corporativismo medievale, morto con lo scomparire delle condizioni che ne resero possibile il sorgere e il prosperare.
    Il fascismo, dovendo scegliere tra la formazione professionale chiusa e quella aperta, caratteristica del nostro tempo, s'è attenuto a questa, poiché contiene in sé le maggiori possibilità di aderire alle esigenze dell'apparato produttivo moderno. Viva antitesi del corporativismo medievale è, dunque, quello fascista, i cui istituti, i due fondamentali in specie, il sindacato e la corporazione, sono la negazione d'ogni particolarismo e l'affermazione, nel seno stesso dei gruppi, che inquadrano e disciplinano, dell'unità della società nazionale nell'ambito dello stato. Le sue origini vanno ricercate nel sindacalismo moderno, il cui svolgimento si accompagna alla trasformazione capitalistica dell'economia, al perfezionamento della tecnica, alla formazione dei grandi stati nazionali. Anche là dove quel sindacalismo, nelle sue molteplici incarnazioni, si colora di particolari ideologie, dal fascismo lontanissime, in sé stesso accogliendo riflessi e bagliori della lotta politica, il fondo dei problemi appare lo stesso. "Il fascismo - dice Benito Mussolini - è contro il socialismo che irrigidisce il movimento storico nella lotta di classe e ignora l'unità statale che le classi fonde in una sola realtà economica e morale; e analogamente, è contro il sindacalismo classista. Ma nell'orbita dello stato ordinatore le reali esigenze da cui trassero origine il movimento socialista e il sindacalista, il fascismo le vuole riconosciute e le fa valere nel sistema corporativo degl'interessi conciliati nell'unità dello stato" (cfr. fascismo, XIV, p. 848).
    Nella formazione del corporativismo moderno infatti concorrono motivi critici diversi, scaturiti dall'elaborazione del pensiero negli ultimi decennî del sec. XIX e nel primo del XX, ed esigenze politiche di organizzazione sociale, affiorate già nel corso del sec. XIX e diventate urgenti negli anni dalla fine della guerra mondiale alla crisi economica mondiale. I motivi critici e le esigenze politiche hanno, in gran parte, la loro origine nel fenomeno che ha dominato il sec. XIX: il rapido e immenso sviluppo dell'economia. La rivoluzione industriale, con i nuovi processi di fabbricazione, e la produzione per grandi masse, da una parte, e, dall'altra, il regime liberale, che lascia ogni possibilità allo sfrenarsi dello spirito individuale di traffico e di lucro, consentono il massimo espandersi alla vita economica della produzione e degli scambî, sì che questa diviene la vita stessa delle masse, di tutti i cittadini, e pervade tutto il tessuto della vita sociale.
    L'organizzazione giuridica e politica dello stato, che, fino alla riforma corporativa fascista, è quella liberale-democratica, conforme ai principî affermati dalla rivoluzione francese, si propone, tuttavia, di lasciare la massima possibile sfera all'azione del privato cittadino, limitando lo stato alle funzioni di garante dell'ordine giuridico, cioè del libero godimento di beni nella sfera privata, entro la quale l'individuo è arbitro. Lo stato liberale, quindi, si propone di non intervenire nella materia economico-sociale. Il suo proponimento assurge nella dottrina a una vera e propria ragione di principio; si pone, anzi, tra i fini stessi dello stato. Quest'atteggiamento, contrastando con la reale invadenza dell'attività economica in ogni ordine e grado della vita sociale e statale, fa sorgere una serie di problemi, pratici e teorici. I primi nascono dal disordine provocato dal fatto, che nell'ambito dell'organizzazione statale tanta parte, e così importante, della vita individuale sia fuori dell'ordinamento giuridico, non essendovi considerata e regolata; i secondi, dalla insostenibilità d'una concezione dello stato che non assume tra i proprî elementi costitutivi l'aspetto economico della vita umana sociale. Si parla, quindi, nella dottrina, di "crisi dello stato", e s'imposta il problema della posizione giuridica e politica del sindacato, mentre la vita sociale è turbata dal movimento socialista, dalle agitazioni operaie, dal prepotere delle concentrazioni economiche (trusts, cartelli, consorzî, ecc.).
    Il fascismo ha visto chiaramente il problema, anche prima che la crisi economica mondiale, dal 1929, lo ponesse in tragica evidenza; e ha affermato che il sistema capitalistico, l'economia classica, lo stato liberale - tre aspetti d'una stessa concezione della vita sociale e politica - sono in crisi, crisi d'ordine costituzionale, non superficiale e momentanea. La crisi ha la sua radice prima nell'eccessivo dominio consentito all'arbitrio dell'individuo, che considera l'economia cosa sua particolare; si sviluppa, conseguentemente, col lasciare la vita economica sprovvista d'un qualunque organamento in vista delle necessità collettive; ed è, senza dubbio, aggravata dai provvedimenti parziali e casuali, che lo stato prende quando è costretto, come avviene nella pratica dello stato liberale, a interventi occasionali e improvvisi, che aggravano gli squilibrî, anziché risolverli.
    La crisi dello stato moderno consiste, in sostanza, nel distacco delle forze sociali dalla costituzione statale, nell'impossibilità ideale e pratica, per lo stato liberale-democratico, di assumere, entro la sua suprema potestà sovrana, la nuova realtà sociale prodottasi nell'età contemporanea. Il corporativismo, affrontando il problema nella sua essenza, sostiene la necessità d'un'organizzazione delle forze economiche sociali, del loro riconoscimento e inquadramento nell'ordinamento giuridico-politico dello stato. Il corporativismo constata che la vita dello stato risulta, in gran parte, dalla vita economica; che la vita politica è intessuta con i fili della vita economica; e viceversa. Nella comunità statale l'individuo esprime e realizza tutto sé stesso; l'unità indivisibile della personalità umana conduce necessariamente a dare una qualifica morale e politica a ogni determinazione economica. Non è concepibile atto economico, che non rechi modificazioni che si propagano come onde, mutando tutta la realtà; non è concepibile atto economico, che non abbia, per mille connessioni, un valore politico. Politica ed economia sono due aspetti d'una stessa realtà, manifestazioni coessenziali del fenomeno sociale. Il corporativismo parte dalla coscienza di questa coessenzialità per costruire una nuova concezione dello stato.
    Lo stato, nella concezione del corporativismo, assume nella sfera della propria essenza etico-politica tutta la vita sociale, tutte le forze sociali ed economiche espresse e realizzate dai cittadini, dando loro il battesimo della sua eticità e politicità, ordinandole e regolandole secondo i suoi supremi fini. Per ciò, alle forze economiche, alle categorie sociali, viene conferita una personalità morale, giuridica, politica; agl'interessi economici viene riconosciuta una legittima capacità d'agire. Ordinare le categorie sociali in associazioni con la personalità giuridíca di diritto pubblico, come fa l'ordinamento corporativo italiano, significa riconoscere il valore che la vita delle categorie stesse ha nella vita della comunità statale; considerare come un interesse pubblico gl'interessi delle categorie; sollevare la vita economica dei cittadini sopra un piano, che è quello stesso della vita politica dello stato. Il principio fondamentale del corporativismo, dunque, è il principio dell'organizzazione e personificazione delle forze economiche, perché partecipino coscientemente alla vita della comunità politica, rendendo possibile la loro disciplina unitaria da parte dello stato.
    Questa è la soluzione che il corporativismo offre alla crisi, in cui si dibattono lo stato moderno e l'economia contemporanea. La ricostruzione dello stato, infatti, non può prendere le mosse se non dall'eliminazione dell'interno dissidio che lo travaglia e dall'ordine delle forze economiche che ne minano l'esistenza. Soltanto il corporativismo, che afferma la preminenza della volontà etico-politica dello stato e, insieme, la dignità politica degl'interessi economici, può ispirare questa ricostruzione; giacché tale preminenza non è l'inerte gravare d'un'autorità esterna, astratta, che si fa forte d'un suo potere giuridico, ma è il valore della volontà etica che non considera le forze sociali dal di fuori, ma penetra in esse, le porta dentro di sé, in una compenetrazione che dà concretezza e verità tanto allo stato quanto a quelle forze, così alla politica come all'economia.
    La legge italiana sulla "costituzione e funzionamento delle corporazioni", del 5 febbraio 1934, sviluppando i principî posti dalla Carta del lavoro (v. carta: Carta del lavoro, IX, p. 206 segg.) e dalle precedenti leggi, dà al movimento corporativo una sempre più concreta e vasta, per quanto non ancora definitiva, attuazione di norme e di istituti; arricchisce la corporazione di nuove attribuzioni; stabilisce un'organizzazione autonoma e indipendente delle corporazioni. Queste sono organi dello stato, nel cui ambito e nella cui autorità i ceti produttori si autodisciplinano per coordinare e regolare ogni specie di rapporto economico, che interessi le aziende nella loro propria struttura e nelle reciproche relazioni. Autogoverno delle categorie e intervento dello stato trovano nel corporativismo italiano un contemperamento suscettibile di originali sviluppi.
    Dopo la legge istitutiva delle corporazioni, l'ordinamento corporativo ha continuato a perfezionarsi, al centro con la rinnovata costituzione del comitato corporativo centrale, organo coordinatore della politica economica nazionale, e le nuove attribuzioni conferitegli, le quali garantiscono, oltre che tempestività di intervento da parte dell'istituto, un coordinamento fra attività di questo e attività delle corporazioni, specie per quanto riguarda la funzione normativa in materia economica; alla periferia con la nuova attrezzatura dei consigli provinciali delle corporazioni cui è stata attribuita maggiore capacità funzionale. Siffatto ordinamento, in tale fase di sviluppo, corrisponde alle necessità dell'economia nazionale, e a queste, praticamente, soddisfa, come viene dimostrato da quanto esso realizza, fra l'altro, con la predisposizione dei piani autarchici, con lo studio dei costi di produzione e il controllo e la disciplina dei prezzi, con il controllo e la disciplina della produzione agricola e dell'attrezzatura industriale, risolvendo in tal modo i problemi della produzione e della distribuzione della ricchezza nel quadro del superiore interesse della nazione.
    Anche fuori d'Italia si sono manifestate tendenze verso il corporativismo, più o meno direttamente influenzate dall'esempio italiano. In Inghilterra e in Francia, pur essendo viva la preoccupazione di non menomare i vecchi principî dell'individualismo liberale in politica e in economia, s'è molto discusso in linea teorica intorno ai concetti di stato organico, di economia diretta o controllata o concertata o organizzata. In America si cerca di attuare un'economia regolata in base a criterî che si vorrebbe fossero unitarî, ma i risultati sono ostacolati dall'esistenza di un ordinamento politico a base individualista, non essendo possibile un compromesso fra individualismo politico e intervento organico e permanente nell'economia.
    In altri paesi, invece, dove lo stato è organizzato su basi unitarie, è dato rilevare concrete affermazioni dei principî corporativi. Nella nuova costituzione politica del Portogallo, entrata in vigore l'11 aprile 1933, lo stato è definito "unitario e corporativo" e si riconosce e consacra la partecipazione di "tutti gli elementi strutturali" della nazione alla vita amministrativa e all'elaborazione delle leggi. Nello Statuto del lavoro nazionale, emanato il 23 settembre 1933, con un evidente riferimento alla Carta del lavoro italiana, dopo l'esplicita affermazione che "lo stato portoghese è una repubblica unitaria e corporativa" (art. 3), si dichiara che "lo stato riconosce nell'iniziativa privata lo strumento più fecondo del progresso e dell'economia della nazione" (art. 4); e delle corporazioni è detto che "costituiscono l'organizzazione unitaria delle forze della produzione e ne rappresentano integralmente gli interessi" (art. 41). Molti dei principî fondamentali dell'ordinamento italiano trovano riscontro nella legislazione portoghese: così la proibizione dello sciopero e della serrata, il conferimento della personalità giuridica alle associazioni professionali, alle quali viene riconosciuta la rappresentanza di tutti gli appartenenti alla categoria anche se non iscritti, la non obbligatorietà dell'organizzazione sindacale (salvo, però, per determinate attività essenziali all'economia nazionale), l'ordinamento e il coordinamento in senso verticale dei sindacati, l'attribuzione di un'efficacia obbligatoria generale ai contratti collettivi stipulati dalle associazioni riconosciute, l'istituzione di una magistratura del lavoro; l'affermazione che l'attività sindacale può esplicarsi soltanto nel rispetto a quelle che sono le superiori necessità della nazione; la disciplina delle attività agricole della nazione a mezzo di speciali organismi corporativi (gremios del lavoro) che rappresentano tutti i produttori della zona ed hanno personalità giuridica, l'estensione delle colonie, con opportuni criterî di elasticità, dell'ordinamento corporativo. Sempre in riferimento all'ordinamento corporativo italiano sono da ricordare, come elementi costitutivi dell'ordinamento portoghese, una Camera corporativa (con funzioni prevalentemente consultive) costituita nel 1934 e disciplinata definitivamente nel 1936; un Consiglio corporativo (istituito nel 1934) organo superiore di orientamento dell'organizzazione corporativa nazionale, e altri organi speciali di natura corporativa, di particolare importanza politica, sociale ed economica (Consiglio tecnico corporativo del commercio e dell'industria, organi corporativi degli enti padronali).
    In Germania, dall'avvento della rivoluzione nazionalsocialista si è affermato il proposito d'una trasformazione dell'ordinamento dello stato in senso corporativo. Come in Italia, si è sentito il bisogno di purificare le organizzazioni operaie dall'ideologia marxista per inquadrarle poi nell'ordinamento politico-giuridico nazionole. Il primo passo, nel senso di una rieducazione spirituale alle idealità nazionali, fu fatto con la costituzione del Fronte del lavoro, che comprende tutti i produttori, datori di lavoro e lavoratori, ad eccezione degli agricoltori e dei pubblici funzionarî ed ha lo scopo principale di formare i lavoratori tedeschi secondo lo spirito nazionalsocialista. Sono state anche costituite una Camera di cultura del Reich, che è un'organizzazione corporativa delle attività culturali e artistiche (novembre 1933) e una Corporazione delle attività agricole (settembre 1933), che ha scopi eminentemente economici e realizza per l'agricoltura tedesca una forma d'economia regolata e diretta dallo stato. Il 20 gennaio 1934 è stata poi emanata la legge sull'ordinamento del lavoro nazionale (entrata in vigore il 1° maggio successivo) che ha dato una nuova e completa disciplina ai rapporti di lavoro, seguendo speciali criterî non del tutto in armonia con le iniziali proclamazioni corporative. Il fenomeno associativo è del tutto ignorato; si assume l'impresa, o l'azienda, a base dell'ordinamento; si dà all'imprenditore riconoscimento di "capo" o "condottiero" che decide di tutte le questioni riguardanti l'impresa e vigila sul benessere dei suoi dipendenti, che tutti insieme formano il suo "seguito" (si noti la differenza dal sistema italiano in cui fra datori, lavoratori e tecnici si ha una posizione di parità pur avendo l'imprenditore i diritti e i doveri di comando che gli derivano dalla sua posizione); in ogni impresa che occupi almeno venti persone, il capo è coadiuvato da un "consiglio di fiducia" reclutato nel personale con il compito di corroborare e approfondire la mutua fiducia della comunità, di dare pareri e dirimere divergenze; speciali "tribunali d'onore" giudicano d'ogni infrazione ai doveri sociali fondati sulle necessità e sugl'interessi dell'impresa. Provvedimenti nei quali può rilevarsi un carattere corporativo sono quelli contenuti nella legge 27 febbraio 1934 sulla costruzione organica dell'economia tedesca e nell'ordinanza emanata per la sua esecuzione: l'economia industriale viene ordinata in gruppi cui è preposto un presidente che deve dirigere il gruppo nel senso dello stato nazionalsocialista ed espletare gli affari del gruppo e dei suoi membri, avendo riguardo all'interesse comune dell'economia industriale e salvaguardando l'interesse dello stato. Un'azione totalitaria diretta a regolare e organizzare l'economia ha avuto inizio nel 1936 (ottobre) quando fu stabilito di procedere all'attuazione del piano quadriennale che ha per scopo lo sviluppo della produzione e l'indipendenza economica.
    Principi corporativi che si ispirano principalmente all'ordinamento italiano sono stati posti a base della nuova costituzione brasiliana (10 novembre 1937); in essa infatti si dichiara che "la ricchezza e la prosperità nazionale hanno per base l'iniziativa individuale, il potere di creazione, organizzazione e invenzione degl'individui, esercitato nei limiti del bene pubblico", e si afferma il principio dell'intervento dello stato legittimo soltanto per supplire alle deficienze dell'iniziativa individuale e coordinare i fattori della produzione in maniera da evitare o risolvere i conflitti e introdurre nel giuoco delle competizioni individuali la considerazione degli interessi della nazione rappresentata dallo stato; intervento che potrà essere indiretto e diretto, e rivestire la forma del controllo, dello stimolo o della gestione diretta (art. 135). Altri punti fondamentali, di cui è evidente la fonte, sono l'affermazione che il lavoro è un dovere sociale (art. 136); il principio che solo il sindacato regolarmente riconosciuto dallo stato "ha diritto di rappresentare legalmente coloro che appartengono alla categoria di produzione per la quale è stato istituito", "di stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatorî per tutti gli associati, di imporre contributi ed esercitare, in relazione a questi, le funzioni a esso delegate dal potere pubblico"; l'obbligo del salario minimo; l'istituzione della Magistratura del lavoro; il ritenere lo sciopero e la serrata espedienti antisociali "nocivi al lavoro e al capitale e incompatibili con gli interessi superiori della produzione nazionale"; la produzione organizzata in corporazioni che, in quanto entità rappresentative del lavoro nazionale, sono collocate sotto la tutela e la protezione dello stato e ne sono quindi organi ed esercitano funzioni delegate dal potere pubblico, ecc. Un consiglio dell'economia nazionale, composto dalla rappresentanza paritetica dei varî rami della produzione nazionale, designata dalle associazioni sindacali, e diviso in cinque sezioni corrispondenti alle grandi branche dell'economia ha funzioni consultive, propulsive, normative e assistenziali in ordine all'organizzazione delle forze produttive nazionali e collabora al potere legislativo demandato dalla costituzione al Parlamento nazionale.
    Fra gli altri paesi in cui i principî corporativi trovano applicazione, generalmente però parziale, sono da ricordare: la Lettonia, dove fin dal 1935 sono state poste le basi per un'organizzazione statale a sistema corporativo che segna una profonda trasformazione di tutti i rami economici più importanti e della rappresentanza di tali rami nelle organizzazioni statali e comunali; la Grecia, per certe riforme nel campo sociale basate sul principio della solidarietà delle classi, e anche la Cecoslovacchia, per quanto riguarda il principio dell'obbligatorietà dei contratti collettivi, ivi recentemente sancito.
    Per quanto è dato rilevare finora dal programma del partito che sta a base del movimento rivoluzionario, l'orientamento dello stato nazionale spagnolo è corporativo. Lo statuto della Falange spagnola propugna infatti un regime economico superatore degl'interessi degl'individui, dei gruppi, delle classi per la moltiplicazione dei beni al servizio del potere dello stato, per la giustizia sociale e la libertà cristiana della persona (art.1); concepisce la Spagna come un gigantesco sindacato di produttori, e propugna un'organizzazione corporativa attuata mediante un sistema di sindacati verticali per rami di produzione al servizio dell'integrità economica nazionale, specie di sindacati misti, che escluderebbero quindi la necessità di organi di collegamento. Ciò fa prevedere un regime politico somigliante all'italiano per quanto si riferisce al ristabilimento del principio gerarchico, all'esaltazione dell'amor di patria, alla pratica della giustizia sociale, alla cura del benessere delle classi produttive, ma che nello stesso tempo avrà caratteristiche sue proprie. Questi principî hanno trovato espressione, di recente, nel Fuero del trabajo (Carta del lavoro), approvato dal Consiglio nazionale della Falange spagnola sotto la presidenza del capo dello stato. Il Fuero del trabajo afferma infatti, fra l'altro, la concezione unitaria e totalitaria dello stato nazionale spagnolo, e la sua natura sindacalista reagente contro il capitalismo liberale e il materialismo marxista. Sottolinea, inoltre, la volontà di mettere la ricchezza al servizio del popolo, subordinando l'economia alla politica, e afferma il proposito che la produzione spagnola, attraverso la collaborazione e la solidarietà delle categorie, sia un'unità che serva di sostegno alla potenza della patria. Il lavoro è considerato dovere sociale, e il sindacato verticale una corporazione di diritto pubblico costituita dall'incorporazione in un unico organismo di tutti gli elementi che dedicano le loro attività al compimento del processo economico entro un determinato settore o ramo della produzione organizzata gerarchicamente sotto la protezione dello stato.
    Poiché è dato di rilevare che anche in altri stati si manifestano con sempre maggiore successo tendenze corporative si ha ragione di ritenere che siamo dinnanzi a un moto di corporativizzazione delle costituzioni moderne.
    Bibliografia: V. l'estratto della rivista Sindacato e corporazione, (vol. LX, n. 5, novembre 1933, edito a cura del Ministero delle corporazioni), che sotto il titolo di Istituzione delle corporazioni, contiene le relazioni, le discussioni, i voti e il discorso del capo del governo al Consiglio nazionale delle corporazioni, e la relazione del Ministero delle corporazioni al disegno di legge sulla "Costituzione e funzionamento delle corporazioni" presentato al Senato del regno l'8 gennaio 1934; la relazione e i discorsi che ne seguirono dal 10 al 13 gennaio e in particolar modo il discorso del capo del governo del 13 gennaio; la relazione Rocco sul medesimo disegno di legge presentata alla Camera dei deputati il 16 gennaio 1934. Si potranno inoltre utilmente consultare le bibliografie apposte al volume di G. Bottai, Il Consiglio nazionale delle coporazioni, Milano 1933, e alle opere edite a cura della Scuola di scienza corporative della R. Università di Pisa (La crisi del capitalismo e L'economia programmatica, Firenze 1933).


    Religione per noi significa la dottrina (...) dell'allevamento che renda possibili le anime superiori a spese di quelle inferiori.
    Religion bedeutet uns die Lehre von (...) der Züchtung und Ermöglichung der höheren Seelen auf Unkosten der niederen.

  4. #4
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    Predefinito Re: Discorso per lo Stato Corporativo - 14 novembre 1933

    XV ANNUALE DELLA FONDAZIONE
    DEI FASCI DI COMBATTIMENTO



    Discorso pronunciato dal Duce alla Seconda Assemblea Quinquennale del Regime - Roma, 18 marzo 1934-XII E. F.





    Camerati !

    Questa di oggi è la seconda assemblea quinquennale del Regime.
    La terza la terremo nel 1939, non qui, ma davanti alla Casa Littoria, la quarta nel 1944, la quinta nel 1949 e così di seguito, prescindendo oramai dal fatto della consultazione elettorale, episodio che appartiene al passato. L'assemblea quinquennale, assume, quindi, un carattere tipico, cioè quello di un rapporto dopo una tappa dell'avanzata. Oggi siamo arrivati a una tappa e e! volgiamo per un solo istante a guardare il cammino percorso. Ciò che il Regime ha fatto in questi primi dodici anni della sua vita, è consegnato alla storia. Fu evocato, illustrato, documentato nell'ottobre del 1932, al cospetto degli italiani e degli stranieri i quali finalmente, attraverso la Mostra della Rivoluzione Fascista, cominciarono a capire che quella fascista, è una Rivoluzione la quale ha richiesto sacrifici di sangue, tali che impegnano tutti noi, nella maniera più categorica, a difendere - costi che costi, e contro chiunque - il legato ideale dei nostri Caduti. Essi non sono, né debbono diventare un ricordo convenzionale, e perciò distratto, ma presenti nel nostro spirito devono costituirne il monito e l'assillo.
    Dal 1929 ad oggi il Fascismo da fenomeno italiano è diventato fenomeno universale. Ma nel fenomeno bisogna distinguere l'aspetto negativo da quello positivo. L'aspetto negativo è la liquidazione di tutte le posizioni dottrinali del passato, l'abbattimento di quelli che sono stati i nemici anche del Fascismo; l'aspetto positivo è quello della ricostruzione: solo coloro che accettano l'aspetto positivo del Fascismo ci interessano, cioè coloro che dopo avere demolito, sanno fabbricare.
    Quanto all'aspetto negativo del fenomeno, non v'è dubbio che basta guardarsi attorno, per convincersi che I principii del secolo scorso sono morti. Hanno dato quello che potevano dare. Ammettiamo sena'altro che hanno avuto un periodo di fecondità e di grandezza. Ma è passato. Coloro che
    vogliono fermare la storia, congelarne il moto o risalire la corrente, sono stati travolti. Le forze politiche del secolo scorso - democrazia, socialismo, liberalismo, massoneria - sono esaurite. La prova manifesta è che esse non dicono più nulla alle nuove generazioni. Le torbide coalizioni degli Interessi, nei quali si incrociano spesso quelli dell'economia e quelli della politica e i tentativi disperati, ma velleitari di coloro che ci vivevano sopra, non potranno impedire l'ineluttabile. Si va verso nuove forme di civiltà, tanto nella politica come nell'economia. Lo Stato riprende i suoi diritti, e il suo prestigio, come interprete unico e supremo delle necessità della società nazionale. Il popolo è il corpo dello Stato e lo Stato è Io spirito del popolo. Nel concetto fascista il popolo è Stato e lo Stato è popolo.
    Gli strumenti coi quali questa Identità si realizza nello Stato sono il Partito e la Corporazione. Il Partito è oggi lo strumento formidabile, e al tempo stesso estremamente capillare, che immette il popolo nella vita politica generale dello Stato; la Corporazione è l'istituto con cui rientra nello Stato anche il mondo, sin qui estraneo, e disordinato, dell'economia. La consultazione di domenica 25, che coincide coll’anniversario della costituzione dei Fasci di Combattimento, potrebbe dirsi superflua per quello che concerne l'adesione del popolo al nostro sistema. Ci sono dei plebisciti recenti, dal significato chiarissimo. Che cosa sia la Corporazione nel sistema fascista, ho detto in due discorsi; ma fra poco le Corporazioni cominceranno a vivere, il che è sempre più importante delle parole. Nello Stato corporativo il lavoro non è più l'oggetto dell'economia, ma il soggetto, poiché è il lavoro che forma ed accumula il capitale. Le Corporazioni vivranno perché la legge, punto di partenza, non di arrivo, e più ancora, una necessità storica e vitale, le ha create, e perché il Partito manterrà attorno a loro l'atmosfera necessaria e gli uomini penseranno e agiranno da rivoluzionar!. Il Fascismo ristabilisce nel mondo contemporaneo gli equilibri necessari ivi compreso quello fra uomo e macchina: questa può soggiogare l'Individuo, ma sarà piegata dallo Stato li quale la ricondurrà al servizio dell'uomo e della collettività come strumento di liberazione, non come accumulatrice di miserie.
    Più la Rivoluzione si sviluppa e ascende e più si manifesta necessaria l'esistenza del Partito,, al quale d'ora innanzi affluiranno soltanto i giovani : quei giovani che, inquadrati e preparati nelle organizzazioni, noi dobbiamo immettere senza ritardi nella vita attiva e responsabile del Regime.
    Se gettiamo uno sguardo nell'immediato futuro, possiamo affermare che verso il 1940 molte opere attualmente in corso saranno compiute. Compiuta sarà gran parte della bonifica Integrale., specie nell'agro pontino, gli acquedotti saranno finiti e sistemata quasi tutta la rete stradale ordinaria ; ultimato il riassetto edilizio delle Università italiane, il che basterà ai loro bisogni per qualche secolo; i piani regolatori di molte città avranno avuto svolgimento e compimento, tra cui quello di Roma. Dopo la Roma dei Cesari, dopo quella dei Papi, c'è oggi una Roma, quella Fascista, la quale colla simultaneità dell'antico e del moderno, si impone all'ammirazione del mondo.
    Questo era necessario anche se fosse costato somme notevoli, poiché la Capitale in ogni Stato bene ordinato e specialmente in regime fascista e specialmente quando questa capitale si chiama Roma, non è una città, ma una istituzione politica, una categoria morale. Siamo, tuttavia, molto lontani dai miliardi che gli Stati degni di questo nome hanno dedicato allo sviluppo delle loro capili, qui si tratta dì milioni. Gli italiani che passano pensosi e orgogliosi tra piazza Venezia e il Colosseo, devono finalmente sapere che la Via del Mare è costata 28 milioni, la Via dell'Impero 71,: l'Isolamento del Campidoglio 8, la Via dei Trionfi 5; totale 112 milioni per liberare, attraverso il lavoro di migliaia di operai, un panorama che non ha, che non avrà mai, uguali sulla terra. Se dalla poesia del ricordi millenarì, dei monumenti gloriosi si vuoi passare alla prosa, si può aggiungere che la Nazione intera ha già ricuperato almeno venti volte la somma spesa, poiché milioni di stra*nieri sono venuti e verranno, per mirare questo prodigio, ideato, voluto, realizzato dal Regime Fascista.
    Fino ad oggi per il prevalere delle tendenze urbanistiche ci siamo occupati delle abitazioni agglomerate. Continueremo a farlo perché certi quartieri delle maggiori e minori città d'Italia sono un insulto all'Igiene e alla morale, ma è tempo di occuparsi anche delle case dei contadini, se si vuole conservarli ai campi. Da una indagine compiuta, su mio ordine, dall'Istituto Centrale di Statistica, risulta che le case rurali isolate sono 3 milioni e 390 mila circa. Di esse ben 142.298 sono inabitabili, e cioè da demolire, 475 mila sono abitabili, ma con grandi riparazioni, 930 mila con piccole riparazioni; le altre 1.840 mila sono abitabili senza riparazioni. In questo settore c'è da lavorare per almeno trent'anni. La proprietà non è, nella sua maggior parte, in grado di assumersi questa spesa. Si impone l'intervento dello Stato con un contributo da stabilire per ogni categoria di case da demolire o da riparare. Tutto ciò rientra nei lavori pubblici e relativo impiego di mano d'opera. La parola d'ordine è questa : entro alcuni decenni, tutti i rurali italiana devono avere una casa vasta e sana, dove le generazioni contadine possano vivere e durare nel secoli, come base sicura e immutabile della razza. Solo così si combatte il nefasto urbanesimo, solo così sì possono ricondurre ai villaggi e ai campì gli illusi e i delusi, che hanno assottigliato le vecchie famiglie per inseguire i miraggi cittadini del salario in contanti e del facile divertimento.
    Non è questa la sede e il momento per un esame dettagliato delle nostre relazioni Internazionali. Il giro d'orizzonte si limiterà agli Stati coi quali confiniamo e a taluni problemi di ordine generale. Con la Svizzera i rapporti sono dei più cordiali. Un trattato di amicizia che fu firmato nel 1924 scade nel settembre di quest'anno; siamo disposti a rinnovarlo per lo stesso periodo di tempo. Finita la guerra, abbiamo fatto una politica di amicizia coll'Austria diretta a difenderne la integrità e l'indipendenza. Siamo stati soli per lungo tempo. Quando le cose presero un andamento drammatico anche gli altri si svegliarono. Continueremo in tale linea di condotta. L'Austria sa che per difendere la sua indipendenza di Stato sovrano, può contare su noi e sa che faremo ogni sforzo per sollevare le condizioni del suo popolo. Con la Jugoslavia le relazioni sono normali, cioè diplomaticamente corrette. E' possibile di migliorarle, anche perché sul terreno dei rapporti economici i due paesi sono complementari. Il problema delle relazioni italo-jugoslave va affrontato solo quando si siano determinate le condizioni necessarie e sufficienti per risolverlo. Le relazioni con la Francia sono migliorate dal punto di vista generale; ma la realtà impone di aggiungere che nessuno dei problemi grandi e piccoli, che stanno sul tappeto fra Italia e Francia da quindici anni, è avviato a soluzione. Tuttavia un riavvicinamento si è operato in linea morale e su talune molto importanti questioni di ordine europeo e queste è un elemento favorevole che può condurre, come desideriamo, ad ulteriori sviluppi.
    Nei giorni scorsi sono stati ospiti del Governo italiano il Presidente del Consiglio di Ungheria e il Cancelliere della Repubblica Austriaca. Ciò che abbiamo fatto, appare, dai protocolli. E' inutile di forzarne la interpretazione. Fra Italia, Austria e Ungheria esistono dei rapporti di amicizia che, dopo la guerra, hanno avuto maggiore giustificazione e fondamento. L'Ungheria isolata e spogliata anche delle terre assolutamente magiare, ha trovato nell'Italia una comprensione solidale, che non è di ieri e che ha avuto espressioni chiare in molte manifestazioni della nostra politica estera. L'Ungheria chiede « giustizia » e il mantenimento di promesse che le furono solennemente fatte all'epoca dei trattati: l'Italia ha appoggiato ed appoggia tale postulato.
    Il popolo ungherese è un forte popolo che merita ed avrà un migliore destino. I protocolli firmati in questi giorni a Roma, che stabiliscono i termini di una più stretta collaborazione fra Italia, Austria e Ungheria, non escludono ulteriori ampliamenti e più vaste collaborazioni con altri Stati. Si tratta di uscire dalla zona delle frasi, per entrare finalmente e decisamente in quella dei fatti.
    I problemi di ordine generale concernono anzitutto la Società delle Nazioni. II principio di una riforma è stato quasi universalmente accettato. È chiaro che la riforma deve essere affrontata dopo la conclusione della Conferenza del Disarmo, poiché se la conferenza fallisce, non c'è più bisogno di riformare la Lega delle Nazioni, sarà sufficiente di registrarne il decesso. Che la Conferenza del Di*sarmo fallisca, almeno per quanto riguarda i suoi grandi obiettivi originar!, è ormai pacifico - e, anzi, questa è l'unica cosa pacifica - nel senso che gli Stati armati non disarmeranno e i non armati avranno un riarmamento più o meno difensivo. Il « memorandum » italiano ha squarciato i veli che nascondevano il problema nella sua cruda realtà. Se gli Stati armati non disarmano, essi non eseguono la parte quinta del Trattato di Versailles e non possono logicamente opporsi alla applicazione pratica di quella parità di diritti che fu riconosciuta nel dicembre del 1932 alla Germania. Non ci sono alternative. Pretendere di tenere eternamente disarmato un popolo come il tedesco è una pura illusione, forse già superata dai fatti. A meno che non si coltivi l'obiettivo di impedire con la forza l'eventuale successivo riarmo della Germania. Ma questo gioco ha una posta suprema: la guerra, cioè la vita di milioni di uomini e il destino d'Europa. Noi abbiamo avanzato la tesi che, senza tergiversare all'infinito, si deve concedere alla Germania il riarmo ch'essa richiede, negli effettivi e nel materiale difensivo, firmando una convenzione sulla base del « memorandum » italiano onde ristabilire fra le maggiori e minori Potenze d'Europa, quell'atmosfera di comprensione, senza della quale l'Europa si avvia al crepuscolo.
    Un altro uomo di Stato che ha messo il suo Paese di fronte alla realtà, è il Conte di Broqueville, Presidente del Consiglio dei Ministri Belga. Discorso sintomatico il suo, ma coraggioso e malgrado il clamore delle polemiche interessate, utile ai fini della convivenza europea.
    Questo rapido esame della politica estera va unito, ed io lo unisco immediatamente e logicamente col problema militare italiano. Utilizzando i residui attivi di Bilancio, conseguenza degli stanziamenti straordinari del 1928, il Governo Fascista, per supreme ragioni di ordine finanziario, ha falcidiato notevolmente i bilanci militari nei due esercizi decorsi e in quello venturo. Ma non andremo oltre. Come non mai, e specialmente oggi, dinanzi alla paralisi della cosiddetta Conferenza dell'irraggiungibile Disarmo, l'imperativo categorico per una nazione che voglia vivere e sopratutto per l'Italia che deve svolgere tranquillamente all'interno l'opera ricostruttiva della Rivoluzione, è questo: bisogna essere forti. È necessario essere militarmente forti. Non per attaccare, ma per essere in grado di fronteggiare qualsiasi situazione.
    Le guerre napoleoniche, quelle del Risorgimento, e sopratutto l'ultima, hanno mostrato al mondo le qualità militari ed eroiche del popolo italiano. Tutta la nostra vita di Regime deve svolgersi attorno a questo asse: la potenza militare della Nazione che da al popolo il senso della sicurezza e l'abito a una sempre più ferrea e consapevole disciplina. La pace sarà assicurata dalla nostra sincera volontà di collaborazione con gli altri popoli, ma anche dalle nostre frontiere munite, dai nostri spiriti pronti al sacrificio, dai nostri mezzi adeguati agli scopi. Premessa e condizione di questa potenza, è l'unità morale e organica di tutte le Forze Armate e la loro fusione piena, integrale, definitiva nella vita della Rivoluzione.
    L'Italia ha il privilegio di essere la Nazione più nettamente individuata dal punto di vista geografico. La più compattamente omogenea dal punto di vista etnico, linguistico, morale. L'unità religiosa è una delle grandi forze di un popolo. Comprometterla o anche soltanto incrinarla è commettere un delitto di lesa-nazione. Dal punto di vista geografico l'Italia più che una penisola è una isola: queste cifre lo dimostrano. Le frontiere marittime della Francia sono 2850 chilometri, della Spagna 3144, della Germania 1733, dell'Italia ben 8500 chilometri. Questa insularità non è eliminata dal confine terrestre: si potrebbe dire rafforzata, perché i 1920 chilometri di frontiera terrestre sono costituiti da una catena di montagne, la più alta d'Europa, attraversata da 14 ferrovie e 27 strade statali e 8 non statali. Tutto il resto è invalicabile. Tutta l'Italia è sul mare. Trenta capoluoghi di provincia sono sul mare. Roma stessa è sul mare. La geografia è il dato immutabile che condiziona i destini ai popoli. Le Alpi sono baluardo che, come diceva Napoleone, dividono e proteggono l'Italia, ma al tempo stesso permettono i contatti fra Nord e Sud e gli scambi, agevolati dalla stessa configurazione dell'Italia che dai picchi inaccessibili delle Alpi, si protende sino alle sponde e al cuore dell'Africa. L'italiano non può essere quindi che un popolo di agricoltori e di marinai. Mare ed Alpi sono la naturale difesa dell'Italia. Anche nei secoli della divisione e del servaggio non fu mai facile attraversare le Alpi, ma attraversate che fossero, bastava una intesa o una « lega » anche temporanea fra le città italiane per ributtare gli stranieri oltre quei confini che la natura e la storia assegnarono alla Patria.
    La potenza militare dello Stato, l'avvenire e la sicurezza della nazione sono legati al problema demografico, assillante in tutti i paesi di razza bianca e anche nel nostro. Bisogna riaffermare ancora una volta e nella maniera più perentoria e non sarà l'ultima, che condizione insostituibile del primato è il numero. Senza di questo tutto decade e crolla e muore. La giornata della madre e del fanciullo, la tassa sul celibato e la sua condanna morale, salvo i casi nei quali è giustificato, lo sfollamento delle città, la bonifica rurale, l'Opera della maternità e infanzia, le colonie marine e montane, l'educazione fisica, le organizzazioni giovanili, le leggi sull'igiene, tutto concorre alla difesa della razza. Il fiorentino Machiavelli diceva: « Quelli che disegnano che una città faccia grande imperio, si debbono con ogni industria ingegnare di farla piena di abitatori, perché senza questa abbondanza di uomini, mai si riuscirà di far grande una città ».
    Il milanese Pietro Verri, due secoli dopo, a sua volta ammoniva: « La popolazione è uno dei fattori della ricchezza nazionale, essa costituisce la forza fisica e reale dello Stato, essendo il numero degli abitanti la sola misura della potenza dì uno Stato ».
    L'idea che l'aumento di popolazione determini uno stato di miseria, è così idiota che non merita nemmeno l'onore di una confutazione. Bisognerebbe dimostrare che la ricchezza non nasce dal moltiplicarsi della vita, ma dal moltiplicarsi della morte. Economisti di fama additano nella denatalità una delle cause della crisi: infatti chi dice denatalità dice sottoconsumo o niente consumo. I paesi a più forte denatalità sono quelli dove la crisi si è cronicizzata. Anche qui la viltà morale, poiché di ciò si tratta, è nelle classi cosiddette superiori che pure non hanno preoccupazioni di ordine materiale, non nel popolo. Io mi rifiuto di credere che il popolo italiano del tempo fascista, posto a scegliere fra il vivere e il morire scelga quest'ultima via e che fra la giovinezza che rinnova le sue ondate primaverili e la vecchiaia che declina verso gli inverni oscuri, scelga quest'ultima e offra fra qualche decennio Io spettacolo infinitamente angoscioso, anche nella semplice previsione, di una Italia invecchiata, di una Italia senza gli italiani, in altri termini la fine della nazione.
    È questa l'epoca dei « piani » di quattro, di cinque, dì dieci, di quarant'anni. Questi piani rispondono ad un bisogno degli spiriti, percossi dalla crisi e dal precipitare dei vecchi idoli. II «piano» è un tentativo di domare le forze e di ipotecare il futuro. Il « piano » è il tentativo di eliminare l'arbitrario e l'imprevedibile dallo sviluppo delle situazioni. Potrei anch'io dettagliarvi un piano sino al 1945. Preferisco invece additarvi gli obiettivi storici verso i quali devono puntare, in questo secolo, la nostra e le generazioni che verranno. Parliamo tranquillamente di un piano che va sino al vicino millennio: il duemila. Si tratta di sessantanni appena. Gli obiettivi storici dell'Italia hanno due nomi: Asia ed Africa. Sud ed Oriente sono i punti cardinali che devono suscitare l'interesse e la volontà degli italiani. Al Nord c'è poco o nulla da fare, ad Ovest nemmeno: né in Europa né oltre Oceano: questi nostri obiettivi hanno la loro giustificazione nella geografia e nella storia. Di tutte le grandi potenze occidentali di Europa, la più vicina all'Africa e all'Asia è l'Italia. Poche ore di navigazione marittima, pochissime di navigazione aerea, bastano per congiungere l'Italia coli'Africa e coll'Asia. Nessuno fraintenda la portala di questo compito secolare che io assegno a questa e alle generazioni italiane di domani. Non si tratta di conquiste territoriali, e questo sia inteso da tutti e vicini e lontani, ma di una espansione naturale, che deve condurre alla collaborazione fra l'Italia e le genti dell'Africa, fra l'Italia e le nazioni dell'Oriente immediato e mediato.
    Si tratta di una azione che deve valorizzare le risorse ancora innumeri dei due continenti, sopra tutto per quello che concerne l'Africa e immetterli più profondamente nel circolo della civiltà mondiale. L'Italia può fare questo: il suo posto nel Mediterraneo, mare che sta riprendendo la sua funzione storica di collegamento fra l'Oriente e l'Occidente, le da questo diritto e le impone questo dovere. Non intendiamo rivendicare monopoli o privilegi, ma chiediamo e vogliamo ottenere else gli arrivati, i soddisfatti, i conservatori, non s'industrino a bloccare da ogni parte l'espansione spirituale, politica, economica dell'Italia fascista!
    Il popolo fascista d'Italia al quale io indico queste grandi secolari direttive di marcia è, oggi, tutto attorno al Fascismo e 1o dimostrerà domenica col suo plebiscito. L'antifascismo è finito, i suoi conati sono individuali e sempre pia sporadici. I traditori, i vociferatori, gli imbelli saranno eliminati senza pietà. Ma un pericolo tuttavia può minacciare il Regime: questo pericolo può essere rappresentato da quello che comunemente viene chiamato « spirito borghese », spirito cioè di soddisfazione e di adattamento, tendenza allo scetticismo, al compromesso, alla vita comoda, al carrierismo. Il fascista imborghesito è colui che crede che ormai non c'è più nulla da fare, che l'entusiasmo disturba, che le parate sono troppe, che è ora di assettarsi, che basta un figlio solo e che il piede di casa è la sovrana delle esigenze. Non escludo l'esistenza dì temperamenti borghesi, nego che possano essere fascisti. Il credo del fascista è l'eroismo, quello del borghese è l'egoismo. Contro questo pericolo non v'è che un rimedio: il principio della Rivoluzione continua. Tale principio va affidato ai giovani di anni e di cuore. Esso allontana i poltroni dell'intelletto, tiene sempre desto l'interesse del popolo: non immobilità la storia, ma ne sviluppa le forze. La Rivoluzione nel nostro pensiero è una creazione che alterna la grigia fatica della costruzione quotidiana ai momenti folgoranti del sacrificio e della gloria. Sottoposto a questo travaglio che segue la guerra, è già possibile vedere, e sempre più si vedrà, il cambiamento fisico e morale del popolo italiano. Ecco iniziata la quarta grande epoca storica del popolo italiano, quella che verrà dagli storici futuri chiamata Epoca delle Camicie Nere. La quale vedrà i fascisti integrali, cioè nati, cresciuti e vissuti interamente nel nostro clima: dotati di quelle virtù che conferiscono ai popoli il privilegio del primato nel mondo.

    Camerati!

    Cinque anni or sono io concludevo il mio discorso con queste parole: « Quando ci ritroveremo a Roma fra cinque anni, il rendiconto futuro dell'azione del Regime sarà ancora più ricco di eventi di quello odierno ». I cinque anni sono trascorsi i ci siamo ritrovati in questa Assemblea e le previsioni di allora hanno trovato conferma pienissima. Così accadrà nel 1930 e successivi. Passano gli anni, ma la nostra fede è intatta come nelle vigilie di combattimento. Solo ci tormenta l'ansia di accelerare al massimo i tempi, poiché la mole del lavoro aumenta e le giornate ci sembrano troppo brevi. Perché il lavoro dia sì rendimento massimo è necessaria la assoluta intransigenza ideale, la fedeltà assoluta ai principii, la distinzione sempre più netta tra sacro e profano e la vigilanza assidua contro tutto quanto possa anche lontanamente nuocere al prestigio morale del Regime. Tale prestigio è affidato come preziosissimo patrimonio a voi tutti che rappresentate le gerarchie del Regime. Anche in questo settore particolarmente delicato come negli altri, voi mi avete offerto e mi offrirete una collaborazione della quale vi de atto e per la quale vi sono grato.
    Partendo da questi criteri è facile identificare Immediatamente ciò che è fascista da ciò che di fascista ha soltanto il nome. Basta una parola o una nostalgia o una proposta, per metterci in sospetto. E poiché non si può continuare a versare eternamente il vino nuovo negli otri vecchi, poiché il parlamentarismo non cadde mai più in basso di quanto non lo sia ora e dove non è abolito, agonizza, è chiaro, è logico, è fatale che la Corporazione funzionante, saperi in quanto sistema di rappresentanza, questa istituzione che ci viene dall'altro secolo, prodotto di un determinato movimento di idee, esaurita oramai nel suo ciclo storico. La Rivoluzione ha dinanzi a sé molti compiti delicati e importanti. E il clima è sempre duro. I ritardatemi, gli tacerti, i nostalgici li abbandoneremo al margine della strada. Il popolo italiano vuole avanzare sotto il segno del Littorio che significa unità, volontà, disciplina. Questa volontà del popolo italiano avrà domenica prossima un'altra occasione per manifestarsi. I fascisti dai maggiori ai minori, devono sentire l'umiltà e l'orgoglio di « servire » questo Stato, di assicurare benessere e potenza a questo popolo.
    Religione per noi significa la dottrina (...) dell'allevamento che renda possibili le anime superiori a spese di quelle inferiori.
    Religion bedeutet uns die Lehre von (...) der Züchtung und Ermöglichung der höheren Seelen auf Unkosten der niederen.

  5. #5
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    Predefinito Re: Discorso per lo Stato Corporativo - 14 novembre 1933

    L'idea corporativa ("L'Universale", anno IV, n. 4, 25 aprile 1934 - XII E. F.)

    È incredibile come l'idea corporativa rimpicciolisca nelle teste piccine, che ne fanno un buon vademecum dei rapporti economici e niente più; che credono, anzi, potersi risolvere sul terreno della pura economia i rapporti tra gli uomini. Vecchi errori di vecchie scuole risorgono con sbalorditiva maschera di novità. A quando gli Helvétius, i Bentham e, perché no, i Marx del corporativismo fascista? Ora è il momento di far capire a questi intellettuali che, se si potesse ridurre ogni cosa all'economico (se le stesse relazioni economiche non contenessero una controparte non valutabile in cifre né esprimibile in formule e contratti) il mondo sarebbe già tutto bolscevico, né avrebbe più bisogno dell'opera loro. Mosca rappresenta per l'appunto il tentativo di "economicizzare" totalmente la vita e la storia: tentativo costato molto sangue e infinito dolore, e perciò più rispettabile delle libresche fantasie di qualche leviatano. Mosca rossa è inimitabile come crisi della storia e oscuramento dello spirito: inimitabile in tutto il suo sistema, che va dal consiglio di fabbrica al romanzo collettivo. Mosca rossa può farci riflettere e farsi odiare, i suoi plagiari mediterranei possono tutt'al più farci sorridere e farsi compatire. Il mondo non è bolscevizzato, e la Russia medesima ha dovuto lentamente evolversi in altra direzione, perché la vita, e sia pure la vita intesa nel senso più collettivo possibile, non poteva e non ouò identificarsi con l'economia; perché accanto e dentro l'economico restano (qui ci attende la micidiale ironia dei passeri associati d'in su la vetta del grattacielo) i valori spirituali. Valori che esistono al pari della più particolare questione di tariffe e di paglie; e ostentare disprezzo per questa o per quelli è segno ugualmente inquietante di poco fiato, poco nerbo, poco seme demografico; brutto realismo, infatti, quello che non arriva a abbracciare tutta la realtà. Valori che riguardano me, te, tutti, la collettività e l'individuo; valori senza de' quali non è concepibile la politica e neppure l'economia; valori che nelle Corporazioni fasciste avranno sanzioni e sviluppo, come con estrema chiarezza disse Mussolini.

    Berto Ricci
    Ultima modifica di Pestis nigra; 23-08-14 alle 10:49
    Religione per noi significa la dottrina (...) dell'allevamento che renda possibili le anime superiori a spese di quelle inferiori.
    Religion bedeutet uns die Lehre von (...) der Züchtung und Ermöglichung der höheren Seelen auf Unkosten der niederen.

  6. #6
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    Predefinito Re: Discorso per lo Stato Corporativo - 14 novembre 1933

    Internazionale fascista ("L'Universale", anno V, n. 3, 10 febbraio 1935 - XIII E. F.)

    [...]
    Ma si sa o non si sa, si vuol o non si vuole sapere quello che significano le parole Stato corporativo? Si vuol o non si vuole sapere ch'esse implicano, così come una bagatella, l'intero governo della produzione e l'intera revisione della distribuzione: cioè presumibilmente la fine della borghesia patrimoniale e della ricchezza improduttiva in genere, la sintesi tecnica-capitale-lavoro (sintesi: ossia qualcosa di molto più della "conciliazione"), la mobilitazione economica senza più diserzioni possibili, la trasformazione radicale dei concetti di proprietà e d'intrapresa, la Mussoliniana partecipazione sempre più intima dei lavoratori al processo produttivo, la Mussoliniana giustizia sociale, che sta all'assistenza, all'inquadramento sindacale, al riassorbimento dei disoccupati, alla risoluzione delle vertenze, ecc., come la conclusione sta alle premesse.
    [...]

    Berto Ricci
    Ultima modifica di Pestis nigra; 24-08-14 alle 15:00
    Religione per noi significa la dottrina (...) dell'allevamento che renda possibili le anime superiori a spese di quelle inferiori.
    Religion bedeutet uns die Lehre von (...) der Züchtung und Ermöglichung der höheren Seelen auf Unkosten der niederen.

 

 

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