Vorrei porre alla vostra cortese attenzione questo scritto di Alain De Benoist, facente parte del “Manifesto della Nuova Destra”. Ora: è chiaro che CeC non ha molto in comune con De Benoist, nonostante il costruttivo confronto tra il francese e Preve, tuttavia mi piacerebbe sapere come considerate tale concezione del lavoro e le proposte per cambiare la situazione all'interno del sistema capitalistico.
Il lavoro (dal latino tripalium, strumento di tortura) non ha mai occupato un posto centrale nelle società
arcaiche o tradizionali, comprese quelle che non hanno mai conosciuto la schiavitù. Poiché risponde
alle costrizioni della necessità, il lavoro non realizza la nostra libertà, al contrario dell’opera, in cui
ciascuno esprime la propria realizzazione. È stata la modernità, nella sua logica produttivistica di
mobilitazione totale delle risorse, a fare del lavoro nel contempo un valore in sé, il principale modo di
socializzazione, una forma illusoria dell’emancipazione e dell’autonomia degli individui ("la libertà
attraverso il lavoro"). Funzionale, razionale e monetarizzato, questo lavoro "eteronomo", che gli
individui compiono il più delle volte per sottomissione piuttosto che per vocazione, ha senso solo in
vista dello scambio mercantile, e si inserisce sempre all’interno di un calcolo contabile. La produzione
serve ad alimentare un consumo che l’ideologia del bisogno offre di fatto a mo’ di compensazione del
tempo perduto per produrre. I compiti di prossimità di un tempo sono così stati progressivamente
monetarizzati, spingendo gli uomini a lavorare per gli altri al fine di pagare chi lavora per loro. Il senso
della gratuità e della reciprocità si è andato un po’ alla volta perdendo in un mondo in cui niente ha più
valore ma tutto ha un prezzo (ovvero in cui ciò che non può essere quantificato in termini di denaro è
considerato trascurabile o inesistente). Nella società salariale, tutti perdono perciò troppo spesso il loro
tempo nel tentare di guadagnarsi da vivere.
Il fatto nuovo è che, grazie alle nuove tecnologie, produciamo sempre più beni e servizi con sempre
meno uomini. Questi aumenti di produttività fanno della disoccupazione e della precarietà dei
fenomeni ormai strutturali e non più congiunturali. Essi favoriscono peraltro la logica del capitale, che
si serve della disoccupazione e della delocalizzazione per ridurre il potere negoziale dei salariati. Ne
risulta che l’uomo non è più soltanto sfruttato, ma reso sempre più inutile: l’esclusione rimpiazza
l’alienazione in un mondo globalmente sempre più ricco ma in cui si conta un numero in continua
crescita di poveri (fine della teoria classica dello "svuotamento"). L’impossibile ritorno alla piena
occupazione implica dunque la necessità di rompere con la logica del produttivismo e di considerare
sin d’ora l’uscita progressiva dall’era dei salari come modo centrale di inserimento nella vita sociale.
La diminuzione del tempo di lavoro è un dato secolare che rende obsoleto l’imperativo biblico
("lavorerai con il sudore della tua fronte"). La riduzione negoziata e la suddivisione del tempo di lavoro
devono essere incoraggiate, con possibilità di accomodamenti flessibili (annualizzazione, congedi
sabbatici, soggiorni di formazione, ecc.) per tutti i compiti "eteronomi": lavorare meno per lavorare
meglio e per liberare il tempo di vita. In una società nella quale l’offerta mercantile si estende sempre
più, mentre aumenta il numero di coloro il cui potere di acquisto ristagna o diminuisce, è del resto
imperativo dissociare progressivamente il lavoro dal reddito, studiando la possibilità di instaurare
un’allocazione generale di esistenza o reddio reddito minimo di cittadinanza, versato senza contropartita
a tutti i cittadini dalla nascita sino alla morte.