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    Predefinito Pietro Nenni: "I valori democratici del socialismo"




    di Pietro Nenni



    “Avanti!”, 7 dicembre 1958


    Siamo in debito di una risposta all’articolo di Togliatti su “Rinascita”: “Le decisioni del XX Congresso e il Partito Socialista Italiano”. Il tema è così strettamente connesso al dibattito in atto nel Partito che verrebbe quasi voglia di pubblicare la risposta nella rubrica pre-congressuale. Non si tratta del resto di una interferenza illecita, come se ne producono tante da parte comunista. I problemi di un partito operaio interessano tutto il movimento operaio, interessano tutto il paese. Naturale che provochino una serie di interventi esterni dei quali andremo esaminando, via via, la portata e il contenuto.
    L’articolo del quale ci occupiamo ha il vantaggio di attaccare in pieno la politica che ha preso nome dal Congresso di Venezia. Per questo il compagno Togliatti rinuncia all’argomento di comodo di quanti fissano a Pralognan la svolta della politica del P.S.I. Il punto di partenza, a suo giudizio, è nella valutazione che noi demmo, che tutto, o quasi, il Partito dette, del XX Congresso di Mosca e dei successivi avvenimenti di Polonia e di Ungheria. In quella valutazione si anniderebbe il germe della “deviazione socialdemocratica” che ci viene arbitrariamente attribuita. In verità, per intendere il senso della politica socialista di Venezia, occorre risalire ancora più indietro, occorre risalire al giudizio critico sui postumi del frontismo; occorre risalire all’impegno, che si diparte dal 1951, per una politica di distensione, di apertura a sinistra, di alternativa democratica tra aspetti diversi coerenti e conseguenti della politica di rottura dello schieramento conservatore.
    Il XX Congresso ed i fatti polacchi ed ungheresi furono una conferma dell’indirizzo che il Partito andava configurando, non ne furono le cause. Essi influirono anche sul tentativo di risolvere il problema dell’unificazione socialista, tentativo condotto senza la benché minima concessione alla socialdemocratizzazione del partito, e per eliminare un equivoco ed un elemento di disturbo che ha giovato e giova soltanto alla borghesia.
    Quello che oggi i comunisti chiedono è il ritorno puro e semplice alla precedente prassi dell’alleanza politica dei due partiti, è il ripudio del nostro giudizio sia sul XX Congresso sia sui fatti ungheresi e polacchi.
    “Rinascita”, valendosi degli articoli del Segretario del Partito su “Mondo Operaio” (Luci ed ombre del XX Congresso di Mosca, ecc.) e della relazione al Congresso di Venezia, ha cercato di individualizzare il bersaglio, laddove il tiro viene diretto contro il Partito nel suo insieme. Sarebbe infatti stato preferibile riferirsi agli atti collegiali ed ufficiali del Partito. Sono molti e non possono essere tutti citati. Basterà riferirsi ad alcuni di essi. Ecco, per esempio, come il 6 luglio 1956 la Direzione del Partito si esprimeva all’unanimità sul XX Congresso e sul processo cosiddetto della destalinizzazione: “La revisione dell’esperienza sovietica aperta al XX Congresso e con il dibattito sul rapporto Krusciov dimostra che i valori della libertà sono indissolubili dal socialismo e che essi, pur se contenuti per necessità delle cose o errori degli uomini, alla fine prorompono come forze essenziali. La revisione non si può esaurire nella condanna delle degenerazioni del potere avvenute sotto la direzione staliniana, non può arrestarsi al ritorno alla direzione collegiale, non può appagarsi delle riabilitazioni o di metodi più tolleranti. Essa deve investire l’organizzazione politica del potere, trasfondere i principii di libertà nelle istituzioni, nei metodi di governo, nel costume, dare ampie garanzie democratiche ai cittadini nei loro rapporti con lo Stato”.
    A distanza di due anni e mezzo, ed alla luce (ed alle ombre) delle esperienza successive, ci sembra che non ci sia nulla da mutare. Gli “errori di Stalin”, come dice “Rinascita”, o quelli di Rakosi, o di altri dirigenti comunisti, non bastano a spiegare le degenerazioni burocratiche e poliziesche del potere rivoluzionario. Furono conseguenze, non causa. Né il rimedio può essere soltanto nelle importanti riforme della struttura economica citate dal nostro critico. Il rimedio è nella vita democratica delle masse da stabilire in tutte le sue espressioni, in tutte le sue forme.
    Non meno valido ci sembra il giudizio collettivo e pressoché unanime del nostro Partito sui fatti di Polonia e di Ungheria. Quei fatti venivano considerati dalla Direzione del Partito, in una risoluzione del 1° dicembre 1956, come la “conseguenza di una degenerazione del potere popolare in forme burocratiche e poliziesche e di una impostazione della politica economica in termini forzati rispetto alla realtà produttiva e sociale del Paese, e che hanno isolato il vecchio gruppo comunista, lo hanno staccato dalla classe operaia e dalle masse popolari, hanno impedito la libera circolazione delle idee e il ricambio dei quadri direttivi”.
    “In tali condizioni – aggiungeva la risoluzione della Direzione del Partito – la pubblica denuncia di errori e delitti non venne seguita tempestivamente, né dalla giustizia richiesta dalla coscienza popolare, né dall’indispensabile revisione dei metodi e del sistema di direzione politica. Lo stesso irresponsabile appello all’intervento delle armi sovietiche fu la conseguenza estrema del metodo di chi ha perduto il legame e la fiducia nel popolo e nei lavoratori e si affida soltanto alla forza”.
    La Direzione definiva l’intervento armato sovietico “incompatibile col diritto dei popoli alla indipendenza”. Quindi diceva: “Quanto è avvenuto in Polonia e in forma drammatica e sanguinosa in Ungheria, comporta un insegnamento per tutto il movimento operaio e socialista in tutti i paesi del mondo. I fatti hanno posto in tragica evidenza che vi è una linea di demarcazione oltre la quale le conquiste realizzate dal movimento operaio non possono essere mantenute e sviluppate senza l’instaurazione di metodi di direzione e di strutture politiche che garantiscano la piena affermazione dei valori democratici del socialismo. L’insegnamento che scaturisce dagli avvenimenti polacchi ed ungheresi è che occorre affermare senza riserve il carattere democratico autonomo e creativo del socialismo, rifiutando ogni principio autoritario sia nella organizzazione dello Stato, sia nella direzione delle lotte operaie e popolari”.
    Anche su questo giudizio, a distanza di due anni, non crediamo ci sia nulla da mutare. Se mai gli avvenimenti successivi ne hanno sottolineato la validità.
    È del tutto ingiusto dire, come fa “Rinascita”, che nella nostra valutazione la democratizzazione viene ridotta “a una banalità puramente giuridica”. È vero il contrario. Ciò che interessa i socialisti è la sostanza della democrazia, è la sostanza della libertà. Perciò i sermoni borghesi sulla democrazia e sulla libertà ci fanno sbadigliare, costruiti come sono su una concezione formale e giuridica della democrazia. Del pari ci rifiutiamo di ridurre la concezione della democrazia e della libertà a formule esclusivamente economiche. Il socialismo è proprietà sociale, è socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio. Ma è anche liberazione dell’uomo da tutti i rapporti sociali politici culturali che lo umiliano e lo opprimono.
    La garanzia per l’avvenire che, in tale senso, il Congresso di Venezia ha inteso dare, non fu una ingenuità, non fu neppure un inganno. È esatto quanto scrive “Rinascita” e che cioè noi ignoriamo cosa sarà l’avvenire. Sappiamo tuttavia cosa vorremmo che fosse, sappiamo quale Stato vogliamo costruire, quale società. Sappiamo qual è la via, quali i metodi e i mezzi che noi consideriamo i più idonei alla costruzione del socialismo.
    Sappiamo, per adoperare le parole stesse del Congresso di Venezia, che “il socialismo non è soltanto un certo modo di produzione, la statizzazione o la socializzazione dei mezzi di produzione, ma è democrazia operaia e contadina delle aziende, in un sistema di garanzie costituzionali individuali e collettive che renda impossibile la violazione della legalità di fronte alla sempre possibile degenerazione burocratica e poliziesca dello Stato. La libertà di opinione, di stampa, di organizzazione, di sciopero non sono borghesi o proletarie, sono conquiste di valore universale da difendere sempre e in ogni caso”.
    Formulazioni di tale natura non potevano non influire sui rapporti tra socialisti e comunisti nella lotta per il potere, mentre non incidono sulla condotta unitaria delle lotte quotidiane dei lavoratori per le loro rivendicazioni di classe e di categoria. Ma se avessimo dato un diverso giudizio, se avessimo usato un diverso linguaggio, è chiaro che avremmo rinunciato ad essere socialisti, avremmo rinunciato ad affermare e difendere nel movimento operaio e popolare, nella lotta per il potere, nella edificazione del socialismo, quei valori di libertà e di democrazia che sono l’essenza stessa del socialismo.


    https://www.facebook.com/notes/pietr...20423224740858
    Ultima modifica di Frescobaldi; 13-09-14 alle 14:56
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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