La forbice macroeconomica che da tempo squarcia l’eurozona non sembra affatto destinata a richiudersi. Stando agli ultimi dati della Commissione europea, gli andamenti dei redditi e dei livelli di occupazione nei diversi paesi membri dell’eurozona non mostrano tangibili segni di avvicinamento dopo la lunga divergenza che si è registrata negli anni passati. Alla fine del 2014 il numero degli occupati in Germania dovrebbe segnare un incremento di due milioni e duecentomila unità rispetto al 2007. Di contro, nello stesso arco di tempo Spagna, Italia, Grecia, Portogallo, Irlanda e Francia si ritroveranno con una perdita complessiva di quasi sei milioni e duecentomila posti di lavoro1. La divaricazione dei redditi e dell’occupazione contribuisce poi a creare faglie più profonde, di carattere strutturale, che riguardano i livelli di solvibilità dei capitali industriali e bancari dei diversi paesi dell’area euro. L’ultimo rapporto di Credit Reform segnala che tra il 2008 e il 2013 le insolvenze annue delle imprese sono aumentate del 22 percento in Francia, del 77 percento in Irlanda, del 120 percento in Italia, del 185 percento in Portogallo e del 2542 percento in Spagna, laddove in Germania nello stesso periodo sono diminuite dell’11 percento. Si tratta di un divario eccezionale, che inevitabilmente si ripercuote sui bilanci degli istituti bancari. Non è un caso che i recenti “stress test” coordinati dalla Banca centrale europea abbiano evidenziato uno scarto superiore alle attese tra gli indici di robustezza patrimoniale delle banche dei diversi paesi dell’eurozona, in particolare tra istituti tedeschi e italiani.
Il risultato dipende da diversi fattori, ma in buona misura riflette semplicemente la voragine macroeconomica che si è aperta in questi anni tra i membri dell’eurozona, in particolare tra i due paesi in questione: dal 2007 al 2014 oltre quattordici punti di differenza nella crescita reale dei Pil tedesco e italiano. Sono scarti che non hanno precedenti in epoca di pace, e che preannunciano nuove crisi bancarie.
I dati più recenti sembrano dunque confermare lo scenario tratteggiato poco più di un anno fa dal Monito degli economisti pubblicato sul Financial Times il 23 settembre 2013 (www.theeconomistswarning. com)3. Il documento evidenzia «una serie di contraddizioni nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione monetaria europea». Sotto accusa sono le scelte delle autorità europee e nazionali «che, contrariamente agli annunci, hanno contribuito all’inasprimento della recessione e all’ampliamento dei divari tra i paesi membri dell’Unione». Il problema principale, secondo i firmatari del Monito, risiede nel fatto che «le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere l’avanzo commerciale hanno contribuito per anni, assieme ad altri fattori, all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi della zona euro»4. Pensare oggi che i soli paesi debitori possano accollarsi l’onere del riequilibrio a colpi di austerity, ulteriori riduzioni delle tutele del lavoro e flessibilità salariale verso il basso, significa pretendere da questi una restrizione dei bilanci pubblici e una caduta dei salari e dei prezzi «di tale portata da determinare un crollo ancora più accentuato dei redditi e una violenta deflazione da debiti, con il rischio concreto di nuove crisi bancarie e di una desertificazione produttiva di intere regioni europee». Il documento si chiude dunque con una previsione netta: proseguendo con le attuali politiche economiche «il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo». Di conseguenza, presto o tardi, «ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro».
Centralizzazione e crisi bancarie
Il Monito degli economisti è stato sottoscritto da alcuni tra i principali esponenti della comunità accademica internazionale, appartenenti a scuole di pensiero molto diverse tra loro: Dani Rodrik, James Galbraith, Wendy Carlin, Alan Kirman, Heinz Kurz, Tony Thirlwall, Mauro Gallegati, Dimitri Papadimitriou e molti altri. Il fatto che sul documento siano confluiti rappresentanti di filoni di ricerca così eterogenei costituisce evidentemente un punto di forza, un potenziale indizio circa la bontà delle sue previsioni. Tale prerogativa, d’altro canto, non impedisce di leggere il testo in base a uno specifico paradigma di ricerca.
Il riferimento immediato, peraltro citato nel testo, è ovviamente il Keynes oppositore del Trattato di Versailles e critico delle politiche deflazioniste. Sotto questa prospettiva il Monito riflette la tesi secondo cui la deflazione in ultima istanza deprime i redditi e rende quindi più difficile il rimborso dei debiti. Più in profondità, tuttavia, il Monito può essere interpretato rinviando anche all’analisi marxista, e in particolare ad alcuni studi recenti dedicati a quella tendenza che Marx e Hilferding definivano «centralizzazione dei capitali»5. Per Marx, come è noto, la centralizzazione consiste nel fatto che, sebbene la produzione capitalistica veda le imprese contrapposte l’una all’altra come produttrici di merci reciprocamente indipendenti e la competizione capitalistica si presenti di norma come «ripulsione reciproca di molti capitali individuali», è possibile rilevare un’opposta tendenza alla «concentrazione di capitali già formati» e dunque al superamento della loro autonomia individuale, che si realizza mediante l’«espropriazione del capitalista ad opera del capitalista, della trasformazione di molti capitali minori in pochi capitali più grossi»: vale a dire, mediante uscite dal mercato dei capitali più deboli, liquidazioni, acquisizioni, fusioni, e così via. La tendenza alla centralizzazione, oltretutto, può ricevere spinte ulteriori dall’azione delle autorità di politica economica. È stato osservato, in particolare, che il banchiere centrale può contribuire a fissare «condizioni di solvibilità» particolarmente restrittive per i capitali in lotta tra loro, e per questa via può aggravare la posizione dei capitali più deboli e accelerare il processo di centralizzazione6. Ebbene, non è difficile rilevare che l’intera architettura dell’Unione monetaria europea risulta preposta a favorire questa tendenza. Già prima della crisi si registravano importanti fenomeni di accorpamento dei capitali, specialmente in campo bancario. Si trattava tuttavia di dinamiche in larga misura confinate entro i perimetri dei singoli paesi. Dopo la crisi, invece, si assiste a un salto di qualità del processo di centralizzazione. La divaricazione delle insolvenze, i relativi processi di desertificazione produttiva e le connesse, crescenti difficoltà delle banche nelle periferie dell’Unione, preannunciano una nuova crisi bancaria e una nuova fase di liquidazioni e acquisizioni, questa volta non più interne ai confini nazionali ma realizzate su scala europea. Il passaggio di fase, del resto, è intrinseco agli indirizzi politici correnti. Dall’azione del banchiere centrale che, contrariamente alla vulgata, contribuisce a fissare condizioni di solvibilità tutt’altro che accomodanti per le periferie europee; alla politica fiscale nazionale, che si fa più restrittiva proprio nei paesi in maggiore sofferenza; fino alla decisiva unione bancaria, che esclude forme di assicurazione europea sui depositi, dispone di risorse limitatissime per fronteggiare nuove crisi bancarie e si costituisce esplicitamente con lo scopo di liquidare gli istituti più deboli: insomma, ogni elemento della governance europea sembra voler preludere a una escalation del processo di centralizzazione capitalistica. Vale a dire, a una resa dei conti definitiva tra i capitali più fragili dislocati soprattutto nel Sud Europa e i capitali più forti situati prevalentemente in Germania. Potremmo definirla, in sostanza, una forma particolarmente violenta di “mezzogiornificazione europea”: ossia, una riproduzione su scala continentale del dualismo che ha storicamente condizionato i rapporti tra Settentrione e Meridione d’Italia.
Messo in questi termini sembra un processo inesorabile, una sorta di «grande meccanismo della Storia», come lo definirebbe un celebre interprete di Shakespeare7. Ma non è così. Contro le semplificazioni di alcuni suoi epigoni, bisognerebbe ricordare che per Marx la «legge di tendenza» alla centralizzazione è ostacolata da continue «controtendenze», e quindi non può mai esser considerata un processo rigidamente lineare. La centralizzazione capitalistica oggettivamente avanza ma il suo progresso storico è tormentato, è fatto di accelerazioni, contraccolpi, temporanee marce indietro, e soprattutto di continue creazioni e distruzioni degli assetti istituzionali votati a favorirla. La consapevolezza di questa dinamica irregolare è tanto più necessaria quando si esamina la crisi dell’eurozona. È infatti possibile mostrare che, nello scenario deflazionistico che l’assetto politicoistituzionale dell’Unione favorisce, le liquidazioni di capitale da parte dei paesi debitori non risolvono lo squilibrio con i paesi creditori ma anzi possono addirittura aggravarlo. Infatti, quanto più intensa sia la deflazione, tanto meno la vendita di capitale all’estero potrà contribuire al soddisfacimento delle condizioni di solvibilità8. L’implicazione è chiara: l’Unione monetaria europea, favorendo la centralizzazione dei capitali, di fatto non riduce ma può persino accrescere gli squilibri tra paesi creditori e paesi debitori, e in tal modo contribuisce a scavare la sua stessa fossa. Alle tradizionali problematiche keynesiane sugli effetti perversi della deflazione, dunque, l’analisi della centralizzazione capitalistica offre ulteriore supporto alla previsione del monito degli economisti sui destini dell’eurozona.
Lo studio della crisi dell’area euro dal punto di vista dei processi di centralizzazione dei capitali costituisce in parte una novità per la ricerca economica. È bene chiarire, tuttavia, che i problemi di tenuta dell’eurozona che abbiamo fin qui tratteggiato sono oggi in larga parte riconosciuti dalla stragrande maggioranza degli economisti. Nel campo della teoria pura Paul Krugman li ha recentemente riproposti sotto il nome di “paradosso della flessibilità”9. Sul versante della politica economica, pur tra numerose contraddizioni, persino il Fondo Monetario Internazionale ha dovuto ammettere che quei problemi sono tutt’altro che risolti e in tal senso ha espressamente evocato il rischio di un «breakup» dell’eurozona10 . Potremmo dire, in un certo senso, che la tesi del monito degli economisti secondo cui l’eurozona sta procedendo lungo un sentiero insostenibile costituisce ormai la posizione prevalente, almeno tra gli studiosi. Non è un caso, del resto, che i critici di questa tesi solitamente evitino di attaccare le sue basi logiche. Di norma essi preferiscono obiettare sostenendo che è ancora possibile realizzare un significativo cambiamento negli indirizzi di politica economica europea, un nuovo corso che finalmente inverta le tendenze divergenti in atto e in un modo o nell’altro riporti in equilibrio i rapporti di credito e debito interni all’eurozona. Almeno fino a qualche tempo fa questa posizione non pareva del tutto idealistica: qualche ragione materiale per avanzarla effettivamente c’era. Tuttavia, man mano che glianni passano e la crisi si inasprisce, questo tipo di argomentazione si fa più flebile, perde la sua forza persuasiva. Bisogna riconoscere, infatti, che all’interno delle istituzioni europee è risultato finora impossibile anche solo approssimarsi a un consenso diffuso nei confronti di qualsiasi ipotesi di riforma, dalle più ambiziose come lo “standard retributivo europeo”11 a quelle più blande come un allentamento almeno temporaneo dei vincoli di bilancio nazionali. La stessa politica monetaria della Bce si è rivelata finora molto più conservatrice di quanto ci si attendesse guardando alle recenti esperienze di altri paesi. I dissidi politici in seno all’establishment europeo, tra l’altro, negli ultimi tempi si sono ulteriormente accentuati. Il motivo in fin dei conti è semplice: perché mai la Germania e gli altri paesi che stanno traendo vantaggi relativi dalle attuali dinamiche dovrebbero contribuire a modificarle? In altre parole, le divergenze negli andamenti macroeconomici accentuano anche le divergenze politiche e riducono ulteriormente le chances per una svolta negli indirizzi di politica economica. Certo, vi è chi tuttora prevede che prima o poi la crisi dei paesi periferici dell’Unione colpisca anche le esportazioni su cui la Germania prospera, e induca quindi le autorità tedesche a rivedere le proprie posizioni. Ma l’idea che quel paese abbandoni la propria storica strategia mercantilista appare oggi più che mai sganciata dai fatti. In realtà, i portatori degli interessi prevalenti in Germania appaiono affezionati all’Unione monetaria europea solo se e nella misura in cui la moneta unica agevoli il surplus tedesco e il connesso, feroce processo di centralizzazione capitalistica. Il giorno in cui non risulti più funzionale allo scopo sarà l’euro a dover soccombere, non il mercantilismo germanico.
Gattopardi e nazionalisti
Se dunque così stanno le cose, lasciano un po’ il tempo che trovano i numerosi appelli a contrastare il corso logico degli eventi su basi sostanzialmente idealistiche. Piuttosto, si pone un problema urgente, di ordine materiale: del tutto indipendentemente da opinioni, auspici e speranze, occorre valutare le possibili implicazioni di una implosione dell’attuale assetto dell’eurozona. A questo riguardo, come abbiamo accennato, la tesi del Monito degli economisti è che presto o tardi bisognerà compiere «una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro».
Volendo interpretare anche questo passaggio in un’ottica marxista, Althusser può essere d’aiuto: si può infatti sostenere che la crisi di un regime monetario costituisce un esempio di crocevia, di “congiuntura” del processo storico che può esser governata in modi molto diversi tra loro, ognuno dei quali potrà avere diverse ripercussioni sulle diverse classi sociali in gioco. In quest’ottica, allora, diventa necessario domandarsi: quali sono gli attori sociali maggiormente in grado di sfruttare la “congiuntura” che si profila all’orizzonte? Quali soggetti appaiono oggi pronti ad affrontare una precipitazione della crisi dell’eurozona al fine di piegarla a proprio vantaggio? Ebbene, anche sotto questo aspetto il Monito offre qualche spunto di riflessione. Il testo, infatti, accenna con grande preoccupazione all’ammassarsi di consensi intorno a due ipotesi politiche: da un lato le «apologie del cambio flessibile quale panacea di ogni male» e dall’altro gli «inquietanti sussulti di propagandismo ultranazionalista e xenofobo».
La prima ipotesi politica, si badi bene, non va confusa con l’ovvia constatazione che il cambio fisso irrevocabile imposto dall’euro entra ormai in contraddizione con lo sviluppo dei costi e dei prezzi nei diversi paesi dell’Unione. Tale ipotesi va molto oltre: essa è infatti sostenuta da coloro i quali suggeriscono di risolvere gli squilibri tra creditori e debitori europei unicamente attraverso il passaggio a un regime di cambi flessibili governati dal gioco delle forze del mercato. Dal punto di vista dottrinale si tratta di una ricetta tipicamente liberista, che trova in Milton Friedman il suo tradizionale riferimento12. Essa può rientrare in quella che talvolta abbiamo definito una soluzione “gattopardesca” alla crisi dell’euro. Vale a dire, la soluzione di chi sarebbe disposto a cambiare tutto, al limite persino la moneta unica, pur di non cambiare in fondo nulla, ossia pur di non mettere in discussione le politiche di austerity, di liberalizzazione dei mercati, di flessibilità del lavoro e di deflazione salariale che stanno favorendo i processi di centralizzazione dei capitali e di “mezzogiornificazione” europea. Questa soluzione trova consensi presso la City di Londra, qualche estimatore anche a Francoforte e in Italia è sostenuta da alcuni fautori delle privatizzazioni e delle dismissioni di capitale all’estero. A tale riguardo vale la pena di notare che, in assenza di opportune contromisure, il mero abbandono di un regime di cambi fissi e la eventuale, conseguente svalutazione ridurrebbero il prezzo in moneta estera degli asset nazionali e potrebbero favorire i cosiddetti “fire sales”, vale a dire svendite di capitale a favore di acquirenti stranieri in misura ben superiore a quelle che già si registrano oggi. La letteratura scientifica e l’esperienza storica, anche italiana, segnalano che quello dei “fire sales” costituisce un rischio concreto13. Anche per questo motivo la soluzione “gattopardesca” sembra la più adatta a tutelare gli interessi dei capitali più grandi e più forti d’Europa.
La seconda ipotesi politica stigmatizzata dal monito degli economisti è quella che il Fronte Nazionale in Francia ha ribattezzato con il termine «patriottismo economico». È l’idea di chi vuol mettere in discussione non soltanto la moneta unica ma anche il mercato unico europeo, nonché il sistema dei diritti individuali incardinato nelle regole comunitarie. Beninteso, il fatto che la critica della moneta unica sia qui accompagnata da una critica del mercato unico europeo costituisce un fatto logico, in sé difficilmente contestabile. Ma per tutto il resto questa ricetta evoca ombre per nulla rassicuranti: essa infatti consiste in una miscela di protezionismo, xenofobia e restringimento delle libertà civili incardinata in una ideologia del ritorno ai cosiddetti valori tradizionali, ben rappresentati dal vecchio trittico “Dio, patria e famiglia”. È innegabile che tale visione stia raccogliendo sempre più consensi tra i lavoratori colpiti dalla crisi e dalla disoccupazione, e sempre più insofferenti verso la concorrenza degli immigrati. Ma soprattutto, questa ipotesi trova la sua base sociale di riferimento nella miriade di piccoli capitalisti afflitti dalla recessione, dal debito e dal rischio crescente di insolvenza. Di fatto, essa incarna la pretesa di elevare un argine contro la centralizzazione: di fronte alla spinta centralizzatrice dei capitali e alla sua tendenza a valicare ogni confine statuale, il dissotterramento di una qualche idea economica di «nazione» costituisce la prevedibile «reazione» strategica dei gruppi capitalistici relativamente più deboli e in difficoltà. Potremmo in definitiva considerarla una ipotesi politica “reazionaria”, di tipo nazionalista, con tratti potenzialmente neofascisti.
Il tempo dell’autocritica
Non è difficile riconoscere che, di fronte alla previsione di una futura crisi dell’eurozona, gli sviluppi politici conseguenti potrebbero facilmente riflettere le due ipotesi estreme appena elencate, o persino una combinazione dialettica tra di esse. Dinanzi a simili prospettive, suscita grande inquietudine l’assordante silenzio dei socialisti, dei comunisti, e più in generale degli eredi più o meno degni e diretti della tradizione novecentesca del movimento dei lavoratori. Per quanto incredibile possa sembrare, questi soggetti sembrano tuttora ostinarsi a escludere anche solo la possibilità di una implosione dell’eurozona tra i possibili futuri stati del mondo. Dal tracollo del “grande altro” sovietico, alla crisi del movimento sindacale, all’ascesa di quella ideologia ingenua che abbiamo talvolta definito “liberoscambismo di sinistra”, altrove abbiamo cercato di indagare sulle varie e complesse determinanti di questa eccezionale opera di rimozione e del tremendo ritardo politico che essa sta producendo14. In questa sede tuttavia ci pare opportuno sollevare una questione impellente: esiste la possibilità di colmare o almeno ridurre questo ritardo? Difficile a dirsi. Di certo, se una possibilità in tal senso esiste, questa dipenderà dalla disposizione di chi oggi pretende di incarnare l’eredità storica del movimento operaio a definire un sentiero, una rotta adeguata all’attraversamento dell’impervio crocevia che si intravede all’orizzonte.
Se questo è l’obiettivo da perseguire, il nodo più urgente che bisognerebbe sciogliere riguarda i possibili effetti salariali e distributivi che deriverebbero da un’uscita dall’euro. In alcuni studi recenti abbiamo mostrato che gli abbandoni dei regimi di cambio fisso e delle unioni monetarie che siano stati accompagnati da svalutazioni della moneta, risultano mediamente correlati a una diminuzione dei salari reali e della quota salari. Questo significa che alla deflazione salariale che già è in atto dentro l’eurozona potrebbe far seguito un declino ulteriore delle retribuzioni una volta usciti da essa. Questa prospettiva tuttavia non è inesorabile: al di là dei valori medi, l’evidenza storica riporta anche casi in cui le uscite dai regimi di cambio sono state gestite con opportune politiche di salvaguardia del lavoro che hanno tutelato le retribuzioni e in alcuni casi le hanno pure accresciute. Ed è interessante notare che in tali casi l’andamento della produzione è stato mediamente migliore di quello che si è registrato nelle circostanze in cui, dopo l’uscita, i salari sono declinati15. L’implicazione che si può trarre da tali evidenze è ovvia: chiunque intenda indicare una rotta favorevole ai lavoratori dovrebbe immediatamente chiarire che il crocevia dell’uscita dall’euro va affrontato con opportuni interventi a tutela del potere d’acquisto delle retribuzioni e delle quote salari. Chi su questo terreno si muove ambiguamente, addirittura negando l’evidenza pur di minimizzare il problema, ricade inevitabilmente in una logica “gattopardesca”.
Quello dei salari, ovviamente, è solo il primo problema da affrontare, non certo l’unico. Molti sono i tasselli che dovrebbero concorrere a definire una modalità di gestione dell’uscita dall’euro che possa ritenersi favorevole alle istanze del lavoro. Uno di essi, ad esempio, dovrebbe riguardare l’esigenza di cautelarsi contro la possibilità, evocata in precedenza, che una svalutazione del cambio favorisca le svendite di capitale a favore di acquirenti esteri. Questo problema assume rilevanza soprattutto in campo bancario, ma costringe in realtà a cimentarsi con una questione di carattere più generale: di fronte a un tracollo della moneta unica, quale dovrebbe essere la posizione degli eredi della tradizione socialista e comunista nei confronti della libertà degli scambi sancita dal mercato unico europeo? La domanda è cruciale. Basti notare che essa implica, tra le altre cose, una scelta di posizionamento tra la tendenza alla centralizzazione dei capitali da un lato e le rispettive controtendenze che mirano a ostacolarla dall’altro. Ed implica anche, allargando il campo di analisi, una scelta tra una riformulazione di quel concetto di modernità che ha attraversato il marxismo fin dalle sue origini e un sostanziale abbandono di esso. L’opinione di chi scrive è che c’è un solo modo per risolvere questo dilemma in termini moderni e progressivi. Come abbiamo già detto, la crisi della moneta unica implica inevitabilmente una crisi del mercato unico europeo; solo una visione falsificante, di tipo “gattopardesco”, potrebbe negarlo. Questa innegabile evidenza logica, tuttavia, non dovrebbe essere sfruttata per assecondare forme di «patriottismo economico» votate alla tutela dei piccoli capitali, potenzialmente reazionarie e in fin dei conti antimoderne. Al contrario, bisognerebbe verificare se la crisi dell’Unione europea possa costituire un’opportunità per creare consenso e partecipazione di massa intorno a una diversa ipotesi politica, che potremmo in estrema sintesi racchiudere in due punti: 1) da un lato, attribuire nuovamente ai poteri pubblici un ruolo guida nei processi di centralizzazione del capitale nazionale; 2) dall’altro, condizionare gli scambi necessari alla centralizzazione su scala internazionale al rispetto di un nuovo “standard del lavoro”, che recuperi e rilanci la logica antideflattiva dello “standard retributivo europeo”. Stiamo parlando, in buona sostanza, di una proposta di governo della crisi che consentirebbe di affrontare i processi di desertificazione produttiva attribuendo alle strutture dello Stato un ruolo attivo nella ristrutturazione capitalistica: a partire dal settore bancario, dove le irrazionalità sistemiche dell’obsoleto regime di accumulazione trainato dalla finanza privata potrebbero esser superate promuovendo una moderna, non ossificata logica di piano. E stiamo parlando di un criterio di riorganizzazione delle relazioni internazionali regolato da uno “standard”, che non necessariamente freni la centralizzazione capitalistica ma la imbrigli in uno schema coordinato, antideflattivo, in ultima istanza favorevole al lavoro. Potremmo definirlo un progetto di governo democratico e sociale del processo di centralizzazione capitalistica, una soluzione moderna che consentirebbe di ridisegnare i rapporti economici continentali alla luce di un nuovo protagonismo del lavoro e di una “nuova questione meridionale” su scala europea.
Ovviamente una svolta politica di tale portata non potrebbe mai derivare da singole elaborazioni. Solo un’intelligenza collettiva potrebbe delinearne gli snodi e verificare la sua praticabilità o meno nella congiuntura storica che ci è data. Il dramma, come evidenzia il monito degli economisti, è che quella congiuntura è già in atto. Un allenato pessimismo della ragione induce a sospettare che tra gli eredi più o meno degni e diretti delle tradizioni socialista e comunista possa non esservi il tempo per un’autocritica, figurarsi per la costruzione di un pensiero collettivo in grado di elaborare un tale cambio di paradigma. La tragedia shakespeariana tuttavia insegna: i vuoti politici sono destinati a esser colmati, in un modo o nell’altro. Se nella dialettica politica non entreranno rapidamente forze in grado di proporre una modalità democratica e sociale di governo della crisi, a sciogliere i nodi dell’euro giungeranno forze ostili alle istanze del lavoro, del progresso e dell’emancipazione civile.

Note:

1) Salvo diversa specificazione, i dati riportati in questo articolo sono tratti da European Commission,AMECO Annual macroeconomic database of the European Commission’s DG ECFIN, 2014, Page not found - European Commission dicators/ameco/index_en.htm.

2) Credit Reform, Unternehmensinsolvenzen in Europa, Jahr 2013/14.

3) The EconomistsWarning: European governments repeat mistakes of the Treaty of Versailles, in Financial Times, 23 September 2013, www.theeconomistswar ning.com.

4) Basti qui ricordare che l’enorme surplus verso l’estero della Germania è stato conseguito anche grazie a una politica di competizione relativa sui salari: dalla nascita dell’euro la crescita dei salari tedeschi, monetari e reali, è stata rispettivamente di sedici punti percentuali e di cinque punti percentuali inferiore a quella media dell’eurozona.

5) Karl Marx (1994), Il Capitale, Editori Riuniti, 1994, Libro I, cap. 23. Rudolf Hilferding, Il capitale finanziario, Milano, Mimesis, 2011 (ed. orig.: 1910).

6) Emiliano Brancaccio e Luigi Cavallaro, Leggere “Il capitale finanziario”, introduzione a Rudolf Hilferding, Il capitale finanziario, cit. Emiliano Brancaccio e Giuseppe Fontana, Solvency rule versus Taylor rule. An alternative interpretation of the relation between monetary policy and the economic crisis, in Cambridge Journal of Economics, 2013, 37, 1.

7) Ian Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano, Feltrinelli, 2002 [ed. orig.: 1961].

8) Emiliano Brancaccio and Giuseppe Fontana, Solvency rule and capital centralization in a monetary union, Mimeo, 2014.

9) Gauti Eggertsson and Paul Krugman, Debt, Deleveraging, and the Liquidity Trap: A FisherMinskyKoo Approach, in Quarterly Journal of Economics, 2012, 127 (3).

10) International Monetary Fund (2012), Growth Resuming, Dangers Remain, in World Economic Outlook, April.

11) Emiliano Brancaccio, Current account imbalances, the Eurozone crisis and a proposal for a “European wage standard”, in International Journal of Political Economy, 2012, vol. 41, 1. Lo “standard retributivo europeo” è una proposta di coordinamento europeo della contrattazione salariale finalizzata a contrastare le strategie deflazioniste attuate dalla Germania e in generale dai paesi che siano caratterizzati da una tendenza ad accumulare surplus verso l’estero. La proposta di “standard retributivo europeo” venne inserita nel Contributo del Partito democratico al Programma Nazionale di Riforme 2012. La delegazione italiana della FEPS propose di inserire lo “standard retributivo” nel documento della Foundation for European Progressive Studies, Renaissance for Europe. A common progressive vision, 2013. La proposta tuttavia incontrò l’opposizione dei delegati tedeschi.

12) Milton Friedman, The Case for Flexible Exchange Rates, in Essays in Positive Economics, University of Chicago Press, 1953.

13) Si veda ad esempio Paul Krugman, FireSale FDI, in Sebastian Edwards (ed.), Capital Flows and the Emerging Economies: Theory, Evidence and Controversies, University of Chicago Press, 2000. Coloro i quali minimizzano il problema in base al fatto che in Italia le svendite di capitale nazionale si stanno già verificando a causa della crisi e della deflazione interna all’eurozona, curiosamente sembrano non avvedersi di una distinzione elementare: quella tra investimenti diretti esteri lordi e netti. Essi si concentrano sui primi ma in realtà è sui secondi che in letteratura si valuta l’esistenza o meno di un nesso tra svalutazione e “fire sales”. A tale riguardo va notato che, dall’inizio della crisi, in Italia gli investimenti diretti esteri in uscita sono stati sempre superiori agli investimenti diretti esteri in entrata.

14) Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, Milano, il Saggiatore, 2012.

15) Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini, Currency regime crises, real wages, functional income distribution and production, di prossima pubblicazione su European Journal of Economics and Economic Policy: Intervention. Si veda pure Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini, Sugli effetti salariali e distributivi delle crisi dei regimi di cambio, in Rivista di Politica Economica, lugliosettembre 2014. Per una versione divulgativa si rinvia a Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini, Uscire o no dall’euro: gli effetti sui salari, in economiaepolitica.it, 19 maggio 2014.

*Tratto da Critica Marxista n. 5/2014 al link: Emiliano Brancaccio » Dibattito su Critica Marxista: euro, un destino segnato?