Editoriale/La Cina ed il G77 respingono le sanzioni al Venezuela. Perchè gli Stati Uniti non trionferanno
Editoriale/La Cina ed il G77 respingono le sanzioni al Venezuela. Perchè gli Stati Uniti non trionferanno
Di Filippo Bovo il 30 dicembre 2014 Primo Piano
Quel che è successo alcuni giorni fa, precisamente lo scorso 23 dicembre, con la Cina ed il Gruppo del G77 che hanno respinto le sanzioni al Venezuela proposte dagli Stati Uniti, costituisce una notizia di primo piano, l’ennesimo colpo di maglio alla visione unipolare del mondo a guida statunitense. Una volta qualcosa del genere sarebbe stato semplicemente inaudito: giammai una decisione degli Stati Uniti sarebbe stata respinta dai paesi latinoamericani, ridotti a mera claque di Washington, ed ancor meno dalle altre nazioni in via di sviluppo nel mondo. Ricordo ancora quando, nel 1999, a Belgrado l’ambasciata cinese venne bombardata dalla NATO: Pechino, in quell’occasione, organizzò una manifestazione di protesta intitolata “La Cina può dire di no”. Da allora il mondo è drasticamente cambiato. Oggi una decisione della Cina, coadiuvata dagli alleati del G77, rappresenta una barriera contro la quale la caparbietà della Casa Bianca va ad infrangersi in modo tanto fragoroso quanto disastroso.
Tuttavia ci sono una serie d’atteggiamenti che devono ancora essere capiti, o quantomeno analizzati. I nostri media, per esempio, non hanno riservato alla notizia particolari spazi, anzi: non ne hanno proprio parlato. Non solo per via del loro provincialismo, che li porta a sottovalutare qualsiasi fatto avvenuto al di fuori del loro continente giudicandolo nel migliore dei casi come una bagattella di poco conto, ma anche a causa di un provato filoatlantismo che li induce ad autocensurarsi ogni qual volta si debba diffondere una notizia che danneggi gli interessi di Washington. Non c’è nemmeno bisogno che giungano ordini dall’alto: ci pensano direttamente loro a riconoscere la notizia come perniciosa per l’immagine degli Stati Uniti e a cestinarla. Dalla Repubblica a RaiNews24, passando per tutto quel che c’è nel mezzo, senza dimenticare il Tg3, La7 o il Corsera, l’allineamento è totale.
E così il pubblico italiano non ha potuto sapere che l’autorità degli Stati Uniti nel mondo, ormai, è solo immaginaria e molto parziale. Non possono neanche più imporre le sanzioni ad un piccolo, per quanto importante paese, come il Venezuela, mentre si vedono costretti a ritornare sui loro passi anche per quanto riguarda l’embargo a Cuba. Cercano di far credere, i nostri media, che le sanzioni alla Russia siano state un successo e che Mosca sia davvero stata isolata, quando in realtà è vero l’esatto contrario: Putin ha stretto accordi praticamente con tutto il resto dei BRICS ed i loro alleati, a cominciare proprio dagli Stati latinoamericani dell’ALBA e della CELAC che hanno rimpiazzato l’Europa nell’export di derrate e d’altri prodotti finiti. A rimanere isolati in un contesto internazionale sempre più polarizzato intorno alla Russia e ai paesi non allineati sono proprio gli Stati Uniti con la loro claque europea. E’ il G7 che s’è evirato da solo, al pari di quel marito che per fare un dispetto alla moglie si privò di certi accessori.
In ogni caso resta da chiarire come mai, mentre hanno aperto a Cuba, gli Stati Uniti abbiano deciso d’imprimere un ulteriore giro di vite nei confronti del Venezuela. Le interpretazioni sono molteplici e nessuna esclude l’altra. Sappiamo che nel caso di Cuba l’embargo non ha più molto senso: grazie ad una serie di coraggiose riforme, ormai, L’Avana sta diventando un’economia socialista di mercato al pari della Cina e del Vietnam, con la quale è vantaggioso rapportarsi e commerciare. Se gli Stati Uniti intrattengono crescenti rapporti economici, commerciali e finanziari con Hanoi, con la quale negli Anni Sessanta e Settanta hanno combattuto una dura guerra culminata in un’ancor più dura sconfitta, non si vede il motivo per cui non dovrebbero fare altrettanto anche con L’Avana. A tacere poi dei recenti accordi fra Cuba e la Russia, che segnano un netto riavvicinamento della prima alla seconda, con l’abolizione del debito cubano da parte di Mosca e la decisione di costruire nuove basi russe nella stessa isola in cui ancora oggi si staglia l’avamposto nordamericano di Guantanamo. Insomma, tutta una serie di buoni motivi per cercare di riprendersi, da parte statunitense, una quota di Cuba prima che diventi completamente appannaggio di Mosca e Pechino, come di fatto già è.
Nel caso del Venezuela, invece, il discorso è molto diverso. Diversamente da Cuba, che per la Patria Grande rappresenta soprattutto un esempio politico e morale oltre ad una preziosa fornitrice di medici e d’insegnanti, ovvero un paradigma di quello che dovrebbe essere un perfetto Stato sociale in ambito latinoamericano, il Venezuela è soprattutto il motore dell’unità centro e sudamericana. E’ una potenza petrolifera che negli anni di Chavez, grazie al grande carisma di quest’ultimo, ha saputo imprimere anche un grande impulso al processo d’aggregazione e d’unificazione latinoamericana. Si tratta di qualcosa che decisamente a Washington non possono tollerare, perché questo s’è tradotto nell’affermazione, nei vari paesi dell’America Meridionale ed Istimica, di governi progressisti che hanno immediatamente proceduto a recuperare la sovranità perduta. Così quello che un tempo era considerato come il cortile di casa degli Stati Uniti è gradualmente ritornato ad essere un continente a sé stante, con una propria autonomia politica ed economica, fatto salvo per alcune eccezioni come la Colombia, il Messico o pochi altri: paesi in cui, comunque, l’opposizione di sinistra è molto forte e potenzialmente in grado di vincere ponendo fine al rapporto ancellare che questi paesi scontano nei confronti del potente vicino nordamericano.
E qui si spiega anche la guerra del petrolio che gli Stati Uniti portano avanti, grazie all’impegno dei loro alleati sauditi, i quali pompano greggio a più non posso per abbassarne il prezzo sul mercato, col fine d’indebolire i guadagni di paesi come la Russia, l’Ecuador, l’Iran e… il Venezuela. Il fine è quello di farne saltare i governi, mettendoli in serie difficoltà economiche, finanziarie e pertanto anche sociali. Non sappiamo ancora se la strategia funzionerà: questi paesi, ad ogni modo, sono stati in grado di sopravvivere anche in tempi in cui le loro economie erano molto più malandate ed il prezzo del petrolio al barile era decisamente molto più basso. Certo, allora non c’era un esigente ceto medio come oggi: una conquista di questi ultimi anni, che può condizionare i nuovi equilibri politici. Si tratta di un fattore di cui tutti questi paesi dovranno tenere debitamente conto.
Ora, la guerra del petrolio, associata alle sanzioni, nei desiderata di Washington sarebbe stata una vera e propria “soluzione finale” nei confronti del governo e della rivoluzione bolivariani, tale da provocare a Caracas un agognato “regime change”. Ma qui Washington s’è scontrata con la dura realtà dei fatti: non è più lei l’unica padrona del mondo. Ci sono la Cina ed il resto dei BRICS, ed il resto del mondo sta assumendo sempre di più una fisionomia multipolare. Così il Venezuela, al pari degli altri paesi antimperialisti, può contare su sponde alternative, su delle ancore di salvezza che possono garantire la sopravvivenza della sua rivoluzione.
Con buona pace degli Stati Uniti, ormai sempre più in preda ad una crisi di nervi. Il tramonto dell’amministrazione Obama sarà buio, fosco. Possiamo attenderci altri ed ulteriori sussulti e colpi di coda. Quel che conta è che il sogno del Libertador, di Bolivar, non verrà infranto. E nemmeno quello di Chavez.
Filippo Bovo