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    Predefinito Il Sommo Poeta del Misticismo Universale: Jalal al-Din Rumi



    Al Suo cospetto, due "io" non trovano posto. Tu dici "io" e Lui dice "Io"; allora, o muori tu dinanzi a Lui, oppure è Lui che morirà di fronte a te, perché ogni dualità scompaia.

    Tuttavia, che Lui muoia non è possibile in alcun modo, né sul piano oggettivo né in quello teorico. Poiché Egli è il Vivente, che non muore mai.

    La Sua grazia è di tale pienezza che, se Gli fosse possibile, morirebbe per te perché venga abolita la dualità. Ora, essendo la Sua morte impossibile, muori tu, affinché Egli in te si disveli e sia annientata la dualità

    (Jalal al Din Rumi, "Fihi-ma-Fihi").

    Foto: Dervish, photographer: Dmitri Ivanovich Yermakov, around 1870s; Dervish, photographer: Antoin Sevruguin, around 1901.
    Ultima modifica di GNU-GPL; 02-01-15 alle 15:37

  2. #2
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    Predefinito Re: Il Sommo Poeta del Misticismo Universale: Jalal al-Din Rumi

    Jalal al-Din Rumi - Il Sommo Poeta del Misticismo Universale



    Mawlana Jalal al-Din Rumi, conosciuto in Persia come Jalal ad-Din Muhammad Balkhi e in Occidente semplicemente come Rumi, nacque nel 1207 a Balkh, nell'odierno Afghanistan settentrionale, al confine orientale dell'impero persiano. Discendente da una famiglia di teologi e mistici islamici, cominciò molto presto i suoi studi teologici, sotto la tutela del padre, al-Dîn Walad, uomo di grande cultura ed eminente insegnate di religione.
    Quando era ancora un ragazzo, la sua famiglia si trasferì a Baghdad, per sfuggire all'invasione delle armate di Gengis Khan, e successivamente in Asia Minore, prima di stabilirsi definitivamente a Konya, nelle pianure centrali dell'attuale Turchia, dove Rumi trascorse la maggior parte della sua vita.

    Durante l'adolescenza, studiò Scienze Coraniche, Arabo e Persiano ed in seguito trascorse quattro anni ad Aleppo e Damasco come allievo dei più illustri filosofi e teologi della sua epoca. All'età di venticinque anni, Burhan al-Din al-Tirmidhi, ex allievo di suo padre, lo iniziò al Sufismo e lo guidò lungo il percorso spirituale della ricerca mistica. Alla morte del padre, nel 1231, divenne capo della Madrasa, la scuola di teologia e di diritto islamico.

    Nel 1244, conobbe Shams al-Din Tabrizi, una delle figure più enigmatiche e controverse della mistica Sufi. Il loro incontro è considerato un evento cruciale, che rivoluzionò la vita di Rumi e segnò profondamente quella di milioni di altri. Secondo la versione di Sipah Salar, un intimo amico di Rumi, pare che Shams fosse il figlio dell'Imam Ala al-Din, che aveva fatto voto di povertà ed era divenuto un derviscio errante. Prima di incontrare Rumi, si spostava da un luogo all'altro e si guadagnava da vivere intrecciando canestri.

    Una leggenda persiana narra che il primo incontro con Shams fu per Rumi un'esperienza sconvolgente, che di colpo gli fece comprendere di essersi imbattuto in un uomo dotato di poteri straordinari. Secondo il racconto, mentre Rumi stava leggendo un libro, Shams gli passò accanto e gli domandò cosa stesse facendo. Rumi, ritenendolo un forestiero privo di istruzione, gli rispose: 'Qualcosa che tu non puoi capire'. In quel preciso momento, il libro prese fuoco e quando Rumi chiese spiegazioni, la risposta di Shams fu: 'Qualcosa che tu non puoi capire'.

    Comunque siano andate le cose e chiunque Shams possa essere stato, non c'è alcun dubbio che egli non fu semplicemente un maestro spirituale per Rumi. Rumi nutriva una profonda venerazione nei confronti di quell'uomo straordinario, che considerava la sua 'luce interiore' e il 'Divino sole dello spirito' (Shams in arabo significa sole) e che gli aveva spalancato le porte della realizzazione spirituale e dell'amore, nella forma più pura che un essere umano possa immaginare. Grazie all'alchimia del loro rapporto, Rumi divenne un poeta ispirato, raggiungendo i picchi più sublimi della metafisica e della consapevolezza universale, e poté donare al mondo quei due splendidi capolavori che lo hanno reso il più grande poeta mistico in lingua persiana. Il sodalizio tra Shams e Rumi durò all'incirca quattro anni.

    In quel periodo, Shams venne ripetutamente allontanato dai discepoli gelosi, tra i quali anche Ala al-Din, uno dei figli di Rumi, finché un giorno, improvvisamente, scomparve. Sultan Valad, il devoto primogenito di Rumi, lo rintracciò a Damasco e lo ricondusse a Konya, tuttavia, non molto tempo dopo, Shams sparì di nuovo, definitivamente, forse ucciso dai discepoli, che non approvavano l'influenza che esercitava sul loro maestro. Rumi lasciò la madrasa alla ricerca dell'amato maestro, ma alla fine fu costretto a darsi pace e a tornare a casa, confortato solo dal pensiero che Shams era ormai parte del suo stesso essere. Anche se profondamente afflitto per la perdita della sua guida spirituale e inesauribile fonte d'ispirazione, sapeva che tutto ciò che amiamo appartiene a Dio e che solo lasciando andare ogni tipo di attaccamento è possibile trascendere i propri limiti e raggiungere la completa illuminazione.

    Col tempo, il dolore si affievolì e l'essenza di ciò che Shams aveva rappresentato per Rumi si riversò in oltre 40.000 versi, tra ghazals (poema lirico con un numero fisso di versi ed una rima ripetuta ) e altri componimenti poetici, nei vari stili della tradizione islamica ed orientale. Si tratta principalmente di odi all'Amore Divino in tutte le sue sfumature - l'estasi, la nostalgia, la separazione, la speranza, la paura, il rimorso, la gioia - e di racconti morali. L'opera risultante, originariamente conosciuta come Diwan-i Shams al-Haqa'iq o Diwan-i Kabir (Il Canzoniere di Shams) rappresenta l'espressione poetica del suo 'essere con Dio' ed è considerata uno dei capolavori di Rumi e dell'intera letteratura persiana. Per Rumi il concetto era più importante della forma e nel Diwan si servì di immagini comuni, come il calice e il vino, la perla e il mare, il sole e la luna e così via, per trasmettere una profonda saggezza spirituale, peraltro infrangendo quasi tutte le regole della classica metrica persiana.

    Tuttavia, trattandosi di visioni liriche che sgorgano dallo Spirito, la loro bellezza è tale che il lettore non può fare a meno di ammirarne la magnificenza e persino quei versi che i classici manuali di poesia definirebbero sgradevoli hanno il potere di trasportare l'anima oltre i confini della ristrettezza terrena, per farle assaporare la gioia estatica dell'unione con l'infinito. Nei vent'anni che seguirono, Rumi si dedicò all'insegnamento e all'educazione spirituale dei suoi discepoli. Durante gli ultimi dodici anni della sua vita, compose un'unica opera poetica, in sei volumi, che dettò al suo scrivano, Husam al-Din Chalabi. L'immenso Mathnawi, il cui nome completo è 'Mathnawî-yé Ma`nawî - che letteralmente significa 'rima baciata dal profondo significato spirituale'- è considerato il più grande capolavoro mistico che sia mai stato scritto da un essere umano e i Sufi amano definirlo il 'Corano Persiano'.

    Si tratta di un compendio di storie Sufi, precetti etici ed insegnamenti mistici, profondamente permeati di concetti e riferimenti coranici, in cui Rumi mette in luce i molteplici aspetti dell'esistenza umana, da quelli più mondani a quelli più sublimi. Nel 1273, Rumi si ammalò e morì. Le sue spoglie furono seppellite a Konya, accanto a quelle del padre.

    Migliaia di visitatori di ogni fede religiosa fanno visita al suo mausoleo, ogni anno, per rendere omaggio al sommo poeta del Misticismo Universale. Dopo la sua morte, il figlio Sultan Valad e i suoi seguaci fondarono l'Ordine dei Mevlevi, conosciuti anche come l'Ordine dei Dervisci Rotanti, divenuti famosi per le danze Sufi e le sessioni di Sema (cerimonia di devozione e meditazione attiva). La danza dei Dervisci Rotanti, creata da Rumi in memoria di Shams e tuttora parte della tradizione Sufi, rappresenta la perenne ricerca della Verità. Attraverso la musica, il movimento rotatorio della danza, che simboleggia l'orbita dei pianeti attorno al sole, e il 'ricordo di Dio' (dhikr), i dervisci, detti anche semazen, pervengono ad una sorta di estasi mistica. Rumi era un fervente sostenitore dell'utilizzo della poesia, della musica e della danza come mezzo per avvicinarsi a Dio e chi nutre una passione per qualche forme d'arte sa per esperienza che la creatività rappresenta un percorso diretto verso la gioia.

    Il Sufismo viene spesso definito 'La Via dell'Amore' o 'La Via della Passione', poiché l'amore rappresenta il fulcro della ricerca mistica Sufi, che non si limita alla comprensione intellettuale del Divino ma aspira alla conoscenza interiore, diretta e particolare di Dio. Nella poesia mistica di Rumi, questo desiderio struggente di incontrare l'Amato viene espresso utilizzando un linguaggio romantico e sensuale, che celebra l'unità nella diversità e il Divino che si manifesta in varie forme. Rumi ha saputo descrivere la pienezza e la molteplicità della natura umana, mostrando come ogni possibile esperienza possa diventare un percorso di conoscenza e di trasformazione interiore ed una porta aperta sull'Invisibile. È per questo che le sue parole riescono ancora a conquistarci il cuore, trascendendo le limitazioni del linguaggio e i confini del tempo.

    Forse il messaggio più importante che Rumi ci ha lasciato è che lo scopo dell'esistenza umana può essere realizzato solo trascendendo i desideri del mondo materiale e i conflitti dell'ego, senza reprimerli ma comprendendone la natura e imparando ad agire in modo che l'ego diventi il nostro servitore e non il nostro padrone. Il superamento di questa condizione di asservimento e falsa separazione porta alla consapevolezza che il Sé è un riflesso del Divino. E' più facile mostrarsi determinati una volta compreso che i nostri problemi sono solo un mezzo per insegnarci qualcosa e per ricordarci che questo mondo, pieno di sofferenza e di mediocrità, non è la nostra vera casa. Sul piano della verità ultima, tutto tranne Dio è illusorio. Tuttavia, la nostra normale percezione del Sé ci impedisce di avere una visione più ampia della realtà e del nostro io più profondo.

    Esperienze intense come l'amore, la separazione, il desiderio, la tristezza, il dolore e persino la sofferenza più atroce possono rappresentare un'apertura, un invito a scoprire chi e che cosa siamo veramente e un mezzo per avvicinarci al Divino. Quando viviamo esperienze profonde e smettiamo di identificarci con l'ego e i condizionamenti sociali, diveniamo consapevoli dell'esistenza di un'Unità Divina che accomuna tutti gli esseri viventi, al di là delle apparenti differenze di razza, religione e cultura. Pertanto, è di vitale importanza divenire spiritualmente attivi per scoprire il nostro vero Sé, nascosto dietro strati di finzioni e inganni della mente.

    Tuttavia, l'anima umana, per sua stessa natura, è un luogo di dubbi e perplessità e l'unico modo per liberarsene è attraverso l'amore. Quando siamo veramente innamorati, l'ego non ha più il controllo e qualcun altro diventa molto più importante di noi stessi. L'amore ci costringe ad andare oltre il nostro piccolo ego e a quel punto, ogni dubbio svanisce. Avvicinarsi a Dio non significa 'trovare' qualcosa o andare da qualche parte, ma 'perdersi', arrendersi all'amore, dimenticando noi stessi per amore dell'Amato, poiché solo riconoscendo la vacuità della nostra condizione esistenziale l'amore Divino potrà colmarci. L'amore, dice Rumi, è una profonda necessità dell'anima umana, perché Dio è amore e la fonte stessa dell'amore e Dio è tutto ciò di cui l'anima ha veramente bisogno.

    Il mio primo incontro con Rumi avvenne per caso, mentre stavo cercando sul web informazioni sul 'Sufismo'. La parola ' Rumi ' comparve in molte delle ricerche, così lessi alcuni dei suoi versi e ne rimasi profondamente affascinata. Ero incantata dalla naturalezza con cui esprimeva in poche parole i concetti più sublimi, rivelando un'immensa spiritualità ed una saggezza senza tempo. Iniziai a leggere le sue opere e la grandezza di Rumi mi si rivelò in tutta la sua bellezza, quel genere di bellezza che ti blocca, che ti costringe a fermarti, che ti spinge a cercare una connessione con il tuo Sé più profondo e con l'Infinito di cui tutti facciamo parte. Per Rumi, l'esistenza stessa della bellezza costituisce la prova indiscussa dell'esistenza di Dio.

    Allo stesso modo, la bellezza della poesia di Rumi è di per sé la prova evidente dell'esistenza del mondo dello spirito e un modo meraviglioso per risvegliare in noi la consapevolezza di quel supremo splendore di cui ogni bellezza terrena non è che un pallido riflesso.

    Jalal al-Din Rumi - Il Sommo Poeta del Misticismo Universale
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  3. #3
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    Predefinito Re: Il Sommo Poeta del Misticismo Universale: Jalal al-Din Rumi


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    Predefinito Re: Il Sommo Poeta del Misticismo Universale: Jalal al-Din Rumi



    La danza dei dervisci rotanti

    Il Semà dei sufi (dervisci) Mevlevi
    Articolo apparso sul n. 2 della rivista Sufismo, trimestrale di cultura e spiritualità, edita dalla Confraternita Sufi Jerrahi Halveti in Italia. - 2007

    Il Samâc (in turco, Semà), detto anche "la danza dell'estasi", è il tipico dhikr della Mevleviyya, la Confraternita sufi fondata a Konya (Turchia) da Jalâl âlDîn Rûmî nel XIII° secolo.

    Nel suo insieme, tutto il semà rituale ha plurime valenze. Anzitutto: i Mevlevi danzano a Konya un Semà rituale completo la seconda settimana di dicembre per celebrare la morte di Jalâl âlDîn Rûmî. Altamente emblematica, altamente spirituale, questa danza è l'espressione stessa della realtà divina e della realtà fenomenica, in un mondo in cui tutto, per sussistere, deve ruotare come gli atomi, come i pianeti, come il pensiero. Il Semà simbolizza l'ascesa spirituale - viaggio mistico dall'essere a Dio - in cui l'essere si dissolve ritornando poi sulla terra («prima di compiere il viaggio credevo che le montagne fossero montagne e i mari fossero mari; durante il viaggio scoprii che le montagne non sono montagne e i mari non sono mari; ed ora che sono giunto so che le montagne sono montagne, e i mari sono mari» disse il grande maestro sufi del IX secolo Dhu âl Nûn âlMisrî).

    Partecipano al rito da un lato un gruppo di musici e cantanti (mëtrëp), dall'altro il Maestro (shaykh della Mevlevihane, in funzione di qutub, "polo"), il capo dei danzatori (semazen basë) e i danzatori, che nel rito completo del 17 dicembre a Konya sono diciotto. Tutti hanno un abito bianco sopra il quale portano un mantello nero. Nessun altro colore è ammesso, e tutti sono, rigorosamente, maschi.
    La cerimonia è divisa in varie fasi. Il rito inizia con un nait (o naat, Naat âlSherìf, inno di lode al Profeta), o con la recitazione del wird che comprende i dieci passi più importanti del Corano (Âshr âlSherîf). Questa eulogia è in pari tempo una lode a tutti i Profeti e a Dio che li ha creati. Segue una introduzione (taksim) con improvvisazione di flauto (ney). Un suono di tamburi - seconda fase - simbolizza la creazione del mondo (Corano, 36ª81-82); e poi - terza fase - la dolce melodia di un ney, col suo suono sensibile e delicato rappresenta il soffio divino da cui tutte le creature traggono vita.

    Terminato questo concerto, comincia il semà vero e proprio con un inno mevlevi. Mentre il coro accompagnato dall'orchestra inizia a cantarlo, entrano in fila il Maestro, il capo dei danzatori, e i danzatori, coperti - come già detto - da un mantello nero, simbolo dell'ignoranza e della materia, sotto il quale indossano un abito bianco che rappresenta, come lenzuolo mortuario, la luce e il distacco dall'Ego. Il Maestro ha un caratteristico copricapo nero avvolto dal turbante nero (o verde se ha compiuto il pellegrinaggio alla Mecca), simbolo del suo grado, e prende posto su una pelle di montone tinta di rosso; i dervisci hanno un alto cappello di feltro marrone, che simboleggia la loro pietra tombale. A passi lenti, i dervisci percorrono in senso antiorario (così come si svolge la circumambulazione della Ka`ba) tutto il perimetro per tre volte.

    E' il devr-i Veledî: il circolo del Sultano Veled, e rappresenta il cîlm âlYaqîn, cayn âlYakîn e haqq âlYaqîn («conoscendo la Certezza, vedendo la Certezza, sapendo la Certezza»). Poi si fermano su un lato lungo e ha luogo, con un lieve inchino, lo scambio reciproco di saluti. Ciò simboleggia il saluto che tutte le anime nascoste nelle forme e nei corpi si scambiano in segno di mutua fratellanza. Se a questo momento i danzatori si siedono, prima di rialzarsi battono all'unisono le palme delle mani sul pavimento. Alla fine i danzatori depongono il mantello nero e, in piedi (simbolo dell'alef, prima lettera dell'alfabeto arabo) rimangono un attimo con le braccia incrociate e le mani sulle spalle (nell'atteggiamento che aveva l'angelo Gabriele quando si rivolgeva al Profeta Muhammad prima di ogni discesa del Corano, e simbolo dell'Unità divina).

    Ha inizio allora la fase più suggestiva, divisa in quattro parti, dette "saluti" (salâm). A uno a uno i danzatori si dirigono verso il maestro, gli baciano la mano, vengono da lui baciati sul bordo del copricapo di feltro, cominciano a roteare su se stessi e - dopo aver allargato le braccia - sempre roteando su se stessi iniziano a girare attorno alla sala (devri veledi), la mano destra volta al cielo per ricevere i doni di Dio, la mano sinistra volta alla terra per dispensare a tutti i presenti i doni ricevuti da Dio. Così girano tutti da destra a sinistra, in un'ampia vorticosa immagine dell'Essere, mentre il capo dei danzatori passa lentamente fra loro.
    Questa cerimonia è ripetuta integralmente quattro volte, ossia per quattro "saluti", interrotti ciascuno da un arresto della musica. Sul finire dell'ultimo "saluto", il Maestro stesso, "polo celeste" (qutb), compie a piccoli e lenti passi un breve percorso davanti a sé, girando su se stesso e tenendo tirato con la mano destra il bavero del mantello.

    Il primo "saluto" simboleggia la nascita dell'essere umano alla verità, cui giunge grazie al ragionamento in una formale presa di coscienza che lo rende consapevole dell'esistenza di Dio. Il secondo saluto simbolizza il raggiungimento d'una consapevolezza superiore, in cui l'essere umano sente la Potenza di Dio attraverso lo splendore della Sua creazione. Nel terzo saluto l'essere umano giunge a Dio eliminandosi in Lui (fanâ), ed è l'estasi ed il superamento d'ogni transitorietà fenomenica. Il quarto "saluto" simboleggia il ritorno sulla terra dallo stato di estasi, e l'accettazione della materia dopo l'ebbrezza della luce divina. Il viaggio mistico è così finito e il sufi, «morto prima di morire», illustrando i versetti 27-30 della 89ª sura del Corano, ha testimoniato materia e spirito, essenza reale e transitorietà fenomenica.

    La fase finale (Segan taksimler ve ilâhiler) è agita dai musici e dai cantori che recitano versetti del Corano, in particolare 2ª115. E' composta da son pe?rev, yürük-semaî, as?r, dalla Fatiha e da un'ultima preghiera (Mevlevi Gülbank) cantata per tutti i profeti e per tutte le anime dei credenti, e che si conclude con le parole dello Shaykh: «Hu diyelim (Noi Lo vediamo).» Infine tutti esclamano Hu (Egli; e cioè Dio, in assoluto), chiudendo il rito con questa affermazione che trascende il vocabolo "Dio" quasi a significare il superamento d'ogni descrizione possibile della divinità da parte dell'essere umano.

    Il sufi, a qualsiasi Confraternita appartenga, compie un cammino evolutivo declinato in sette tappe; ognuna rappresentata da un profeta. Per l'elaborazione d'ogni tappa abbiamo sette simboli, la cui penetrazione aiuta il cammino. Essi sono: suono, luce, numero, lettera, parola, simbolo, ritmo e armonia. Nel semà, in cui si uniscono musica, canto, poesia, pensiero, movimento, luce e colore, troviamo così espressi e presenti tutti e sette questi simboli, in una completezza che trasupera il solo pensiero-azione della preghiera musulmana, e rende così altamente suggestivo e globale questo particolare dhikr dei sufi mevlevi.
    Concludiamo con quanto Rûmî stesso scrisse del Semà, nel suo Dìvàn-e Shams-e Tabrizî:

    «Il semà è la pace per l'anima dei vivi,
    e chi conosce ciò raggiunge la pace dell'anima.
    Colui che desidera il proprio risveglio,
    è quello che già dorme in un giardino.
    Ma per chi dorme dentro a una prigione
    il risveglio è soltanto un dispiacere.
    Assisti al semà là dove si celebra un matrimonio,
    non quando c'è un funerale, o in un luogo di dolore.
    Chi non conosce la propria essenza,
    colui ai cui occhi è nascosta questa bellezza lunare,
    che se ne fa della danza e del tamburo?
    Il semà è fatto per l'unione con l'Amato;
    e per quelli che hanno il viso rivolto alla qibla
    ecco, il semà rappresenta questo mondo e quell'altro.
    E più ancora: il cerchio dei danzatori di semà
    che dolcemente volteggiano ha nel suo centro la Ka`ba.
    Se desideri la miniera della dolcezza, ecco, essa è là,
    e se ti accontenti d'una briciola di zucchero, ecco:
    questo dono è gratuito.»

    La Redazione di "Sufismo"
    rivistasufismo.it

    La danza dei dervisci rotanti - Il Semà dei sufi Mevlevi
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  5. #5
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    Predefinito Re: Il Sommo Poeta del Misticismo Universale: Jalal al-Din Rumi

    Ricordo un episodio curioso che mi è capitato a Konya alla visita del mausoleo di Rumi, eravamo in viaggio di nozze e la guida si raccomandò di tenere nella visita un comportamento consono ed un abbigliamento altrettanto, le donne si misero i pantaloni lunghi ed un velo ed entrammo. Dopo un po' notai che i fedeli sufi mi guardavano male e additandomi tra di loro non parevano proprio ben intenzionati dei miei confronti. Il fesso, parlo del sottoscritto, dopo aver raccomandato alla moglie un abbigliamento consono, era entrato nel mausoleo IN PANTALONCINI CORTI!

    Mi salvai in angolo facendomi prestare da una signora il suo scialle e avvolgendomelo intorno alla vita.
    Se guardi troppo a lungo nell'abisso, poi l'abisso vorrà guardare dentro di te. (F. Nietzsche)

  6. #6
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    Predefinito Re: Il Sommo Poeta del Misticismo Universale: Jalal al-Din Rumi


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    Predefinito Re: Il Sommo Poeta del Misticismo Universale: Jalal al-Din Rumi

    Mi permetto di segnalare la trascrizione italiana dell'interessante e profondo intervento che l'allora Ambasciatore della Repubblica Islamica dell'Iran in Vaticano, l'Hojjatulislam M.H. Abdekhodai, tenne nella Facoltà di Filosofia dell’Università Complutense di Madrid il 19 gennaio 1999, in occasione di un congresso proprio sulla figura di Jalaluddin Balkhi (più noto in Occidente come Rumi), e di Mohyiuddin Ibn ‘Arabi: https://islamshia.org/la-gnosi-islamica-hujjatulislam-abdekhodai/

 

 

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