User Tag List

Pagina 1 di 2 12 UltimaUltima
Risultati da 1 a 10 di 19

Discussione: Il popolo Dogon

  1. #1
    Moderatore
    Data Registrazione
    30 Mar 2009
    Località
    Messina
    Messaggi
    18,411
     Likes dati
    1,422
     Like avuti
    1,210
    Mentioned
    2 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Il popolo Dogon

    Stelle dal cielo, trottole di fuoco

    Popolo enigmatico, ancorato a un atavico animismo - Una straordinaria varietà di maschere -
    Salda difesa delle proprie tradizioni, con una «filosofia» di pacata saggezza


    di Marco Vasta (CAI Brescia)

    «All'inizio dei tempi le donne Dogon staccavano le stelle dal cielo per darle ai loro bambini. Essi le bucavano con un fuso e facevano girare queste trottole di fuoco, per mostrarsi fra loro come funzionava il mondo». Cosi raccontava un Ogon, un vecchio capo, a Marcel Griaule, antropologo che per primo si è spinto fra questo popolo enigmatico. Ed è allo spuntare delle prime stelle che giungiamo a Banana, dopo due ore di marcia sull'altopiano. Una pericolosa discesa in una stretta forra che fende la muraglia ed eccoci ai piedi della «falaise» di Bandiagara, enorme parete di arenaria, lunga più di duecento chilometri, che attraversa il territorio Dogon.

    L'immensa pianura del Séno, divisa fra Mali e Niger, si estende a perdita d'occhio quando all'alba il brusio del villaggio, adagiato su groppe rocciose, ci invoglia a inoltrarci fra le case.

    Il gigantesco scenario di pietra gialla incombe sulle case di fango e gli speroni rocciosi sembrano precipitare sulle capanne. L'attenzione è subito attratta dalle numerose e strette grotte che punteggiano la parete, alcune chiuse da muretti di fango. Sono le case dei mitici Tellem, «piccoli uomini rossi», forse pigmei, scacciati, circa settecento anni fa, dall'arrivo del Dogon; che ora vi depositano i loro morti, issando il feretro lungo le cenge con robuste corde di fibre.

    Popolo misterioso e inavvicinabile, considerati stregoni e antropofagi, i Dogon sono rimasti animisti, rispettando l'Islam e combattendolo, come ricordano i numerosi feticci fallici incontrati nella «brousse», la boscaglia di arbusti che attraversiamo per giorni costeggiando la falaise da un villaggio all’altro. Ogni aspetto delle vita sociale, domestica ed economica di questo popolo è da sempre unito ai miti della loro complessa cosmogonia; la parola, ogni parola, ha un significato diverso che muta in differenti contesti, il suono diventa presenza fisica dell'entità nominata. Ma non solamente i nomi e i numeri hanno importanza nella concezione del mondo sviluppata dei Dogon. Ogni oggetto si trasforma da strumento in rappresentazione concreta di concetti astratti; le falangi delle mano non sono solo numeri ma disegnano i rapporti di parentela, un cesto rovesciato rappresenta, con la sua piramide conica tronca, la forma del mondo. La stessa distribuzione spaziale delle case rotonde fa capo a questa simbologia, per noi difficile e talvolta incomprensibile.

    I vari quartieri di un villaggio rispecchiano l'organizzazione in famiglie e i clan totemici; ma a uno studio più attento ci si accorge che anche la topografia del villaggio ha proprie caratteristiche dovendo richiamare concettualmente l'immagine di un uomo supino per terra. La casa del consiglio rappresenta la testa ed è a Nord, sulla piazza principale; a Est e Ovest le case per le donne mestruate, rotonde come l'utero, rappresentano le mani; a Sud gli altari comuni sono i piedi e le grandi case di famiglia segnano il petto e il ventre. Ogni quartiere deve rispecchiare questo stesso simbolismo ed ecco altre piazze principali e altre «toguna».


    Villaggio Dogon
    Immagine tratta dal sito http://whgbetc.com/

    La «toguna», o «grande riparo», è l'edificio del consiglio degli anziani; il «luogo della parola» è una spessa tettoia di arbusti elevata su base quadrangolare, con pilastri di legno o pietre adorni di figure stilizzate. I corridoi interni devono essere bassi, nessuno s'alzerà di scatto in preda all'ira; devono essere scomodi per giungere presto a rapide decisioni. Lo dice un vecchio capo, l'unico in questo villaggio di Mali che conosca un po' di francese, che consultiamo senza dover ricorrere alla guida assegnateci dalla polizia per attraversare la zona.

    Il nostro giovane interprete, convertito all'Islam, irride a noi e al nostro colloquio «Tutte frottole per gli studiosi» è il laconico commento. Suo compito e sua preoccupazione maggiore è guidarci lungo i sentieri consentiti agli stranieri e prevenire ogni nostra inavvertita offesa ai costumi del nostri ospiti. Vietate le fotografie delle persone, pena il sacrificio di un montone; pericoloso toccare le pietre sparse nei campi perché potrebbero essere feticci «tabù». Vietato avvicinarsi alle tombe: troppi «antropologi» le hanno saccheggiate con furtive incursioni notturne.

    I villaggi che attraversiamo si ripetono per struttura; le viuzze strette fra le case quadrate di fango, spesso diroccate dal tempo; qua e là si ergono le torri cilindriche a due piani, dove sono educati insieme i ragazzini di entrambi i sessi. Stupisce la libertà delle donne Dogon, a confronto con le vicine donne mussulmane. Libero il corteggiamento, ammesso il rapporto prematrimoniale, concesso un periodo di prova in cui i coniugi vivono nelle case d'origine. Il matrimonio diventa obbligatorio solo dopo la nascita del secondo figlio.

    Ma se l'antropologo impazzisce dalla gioia nello studiare i costumi di questo popolo, ben più immediato è l'entusiasmo suscitato dal partecipare ai momenti collettivi quali i funerali o le danze. Quando la »società delle maschere» si esibisce, la vita del villaggio si concentra su questo momento di ritmo e di colore. Un posto di grandissimo rilievo è infatti tenuto, nella simbologia dei Dogon, dalle maschere, che contano una ricchissima varietà di tipi. In genere sono rappresentazioni di animali (la lepre, l'antilope...), oppure raffigurano i personaggi tradizionali della stessa società Dogon (l capo religioso, le ragazze dei villaggi, il vecchio...), oppure mostrano le fattezze delle bellissime donne Peul o Bozo, i vicini di sicura origine etnica differente, essendo i Dogon del Niger; sono famosi per la loro bellezza e i giovani Peul si vantano dei loro lineamenti androgini.

    Fra le maschere che più attraggono l'interesse vi è quella che rappresenta la casa più bella del villaggio (anche avendo vari significati); è un'asse traforata con i colori classici rosso, bianco e nero, alta fino a cinque metri. Infine la maschera «Kanaga», con la croce di Mali, le braccia volte al cielo e alla terra per unificarle qui al centro del mondo. Le maschere policrome sono completate da un costume a frange, tinte di rosso, e da monili di conchiglie e vimini intrecciati. Ognuna richiede un diverso passo di danza; quello della maschera kanaga è particolarmente ritmico e selvaggio, ergendosi ora verso il cielo, ora strusciando nella sabbia.

    Le maschere sono usate dei membri delle numerose «società» di quartiere in occasione di feste, funerali, riti propiziatori o dietro congruo compenso da parte dei visitatori. Sono gli stessi danzatori a scolpirle usando un legno tenero e leggero. Sono quindi fragili e spesso riparate o ridipinte e, alla fine, gettate nelle caverne dei Tellem o vendute ai mercanti d'arte che le contrabbandano in Europa dove raggiungono quotazioni molto alte.

    Nell'afa del meriggio l'Ogon non accenna a interrompere il suo racconto mentre, attorno a noi, sulla piazzetta della toguna i vecchi del villaggio sfilacciano la corteccia di un baobab, si inumidiscono le labbra e la attorcigliano costruendo robuste corde. Giunge alla fine la domanda che ogni viaggiatore pone, quasi a liberarsi dal senso di colpa: che ne sarà del tuo popolo? « Il primo Monno ha creato l'ordine dell'universo - risponde l'Ogon fissandoci negli occhi a uno a uno - anche i Dogon scompariranno poiché questo è stabilito».

    Dal sito www.marcovasta.net
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 12-06-10 alle 01:43
    "Tante aurore devono ancora splendere" (Ṛgveda)

  2. #2
    Forumista
    Data Registrazione
    02 Feb 2010
    Messaggi
    990
     Likes dati
    128
     Like avuti
    120
    Mentioned
    11 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: Il popolo Dogon

    I Dogon e Sirio B

    I Dogon sono una popolazione che vive vicino Mandiagara, 300 Km a sud di Timbuctu, nel Mali. Due antropologi, Marcel Griaule e Germaine Dieterlen, li hanno studiati dal 1931 al 1952, e hanno descritto una cerimonia associata con la stella Sirio, che si tiene ogni 60 anni. Griaule e Dieterlen sostengono che i Dogon hanno diverse conoscenze sul sistema di Sirio che non è possibile ottenere se non con mezzi "moderni". In particolare conoscono l'esistenza di una stella compagna (Sirio B, indicata dalla freccia accanto alla luminosissima Sirio A), che ruota attorno a Sirio con un periodo di 50 anni, e che è composta di materia incredibilmente pesante. Sirio B è visible solo con un telescopio di discrete dimensioni, e la sua massa è stata determinata con tutto l'armamentario teorico dell'astronomia dell'inizio del secolo. Griaule e Dieterlen non fanno nessuna ipotesi su come i Dogon siano venuti a conoscere questi fatti. La storia ha avuto però un "boom" con un libro di Robert Temple, in cui questi ha ipotizzato che i Dogon conoscessero questi fatti da almeno 500 anni, e che li avessero appresi da esseri anfibi provenienti da Sirio. Altri "studiosi" ipotizzano che le conoscenze derivassero dagli egizi, e che questi ultimi avessero telescopi in grado di vedere Sirio B. Tutte queste ipotesi sono basate su elementi a dir poco inconsistenti. Nessuno di questi "studiosi" ha fatto ulteriori ricerche, ma hanno semplicemente lavorato di fantasia sugli studi di Griaule e Dieterlen. Ad es. la datazione di 500 anni dipende dal fatto che i Dogon costruiscono una maschera cerimoniale ad ogni cerimonia. In un sito sono state trovate 6 maschere, più due cumuli di polvere che potrebbero essere altre 2 maschere. In ogni caso, pur ammettendo che questo porti indietro a 480 anni fa, dimostrerebbe solo che il rito è molto antico. L'esitenza di telescopi egizi è stata invece dedotta dal ritrovamento di una sfera di vetro ben lavorata, che dimostrerebbe che gli egizi potevano lavorare il vetro, quindi potevano fare delle lenti, quindi potevano fare dei telescopi, quindi potevano fare dei grossi telescopi. Un ulteriore revival di questa storia, sempre senza che nessuno raccogliesse ulteriori elementi sul campo, è sorto quando sostenitori dell'afrocentrismo hanno ipotizzato che le popolazioni africane potessero vedere stelle molto deboli ad occhio nudo, per misteriose proprietà della melanina. Il lavoro di Griaule e Dieterlen è stato criticato per molti aspetti. I due hanno sempre lavorato con interpreti, e tutta la storia di Sirio deriva da interviste ad una singola persona. Non hanno tenuto conto del fatto che i Dogon tendono ad evitare ogni forma di contrasto, e quindi a non contraddire una persona stimata e rispettata (come erano loro) se questa fa ipotesi un po' strampalate. Griaule e Dieterlen affermano che i Dogon conoscono pure una terza compagna di Sirio, che non è conosciuta. L'interpretazione della stella compagna come una stella doppia è scarsamente documentabile anche dal lavoro dei due antropologi. Ma la cosa che fa crollare miseramente la teoria è che i Dogon non sono inaccessibili. Sono una delle etnie più studiate del centrafrica, e nessuno ha mai trovato traccia delle conoscenze anomale. Al di fuori praticamente dell'informatore di Griaule e Dieterlen, nessuno ha mai sentito parlare di stelle compagne, o di periodi di 50 anni, o di materia ultrapesante. Questo non è spiegabile con conoscenze segrete, perché i Dogon non hanno un corpo mitico segreto. La conoscenza è diffusa, senza una casta che custodisce i segreti religiosi. Walter Van Beek, che ha passato 11 anni tra i Dogon, ha trovato che pochissimi Dogon utilizzano i nomi Sigu Tolo e Po Tolo (Sirio A e Sirio B secondo Griaule). L'importanza di Sirio è minima nella loro cultura. Nessuno, neppure gli informatori di Griaule, hanno idea che Sirio sia una stella doppia. Jacky Boujou, che di anni coi Dogon ne ha passato 10, concorda in pieno. E sottolinea che le teorie di Griaule possono essere interpretazioni distorte di quest'ultimo, confermate per spirito di armonia dal suo interlocutore. Sagan ha ipotizzato che le conoscenze anomale potessero essere il frutto di racconti di visitatori occidentali, poi entrate nella cultura Dogon. Anche se l'ipotesi non è improbabile, i Dogon hanno miti "bianchi" diventati in meno di una generazione parte della loro cultura, alla luce di quanto visto sopra direi che l'ipotesi non è necessaria.

    Per saperne di piu:

    * Boujou J.: Comment. Current Antrophology n.12 p. 159 (1991).
    * Bullard, T.E. "Ancient Astronauts", in The Encyclopedia of the Paranormal, ed. G. Stein (Amherst, N.Y.: Prometheus Books, 1996), pp. 30-31.
    * Comoretto G.: Il mistero dei Dogon e Sirio B .
    * Carrol R.T.: Skeptic's Dictionary: "The Dogon and Sirius".
    * Griaule, M., Dieterlen G.: "Conversations With Ogotemmeli: An Introduction to Dogon Religious Ideas" (1948, reprint Oxford University Press 1997).
    * Griaule M., Dieterlen G.: "Un sisteme soudanais de Sirius", Journal de la Societe des Africanistes, n. 20 p. 273-294 (1950).
    * Oberg J., "The Sirius Mystery".
    * Ortiz de Montellano B.R.: "The Dogon People Revisited", Skeptic Inquirer, n. 20(6), p. 39. Il testo dell'articolo è disponibile in rete .
    * Peter J., e Thorpe N.: "Ancient Mysteries"(Ballantine Books, 1999).
    * Randi, J. (Ed. Avverbi, 1999), pp. 92-95.
    * Sagan, C.: "Broca's Brain" (New York: Random House, 1979) ch. 6.
    * Temple R.G. "The Sirius Mystery", (London, Sidwick and Jackson, 1976, fuori stampa).
    * Temple R.G.: "The Sirius Mystery: New Scientific Evidence for Alien Contact 5,000 Years Ago" (Destiny Books, 1998).
    * Van Beek W.E.A.: 1991 "Dogon restudies. A field evaluation of the work of Marcel Griaule", Ancient and Modern, I. Van Settima ed., 7-26. New Brunswick: Transaction Books, (1991).


    fonte: Cicap Dogon e Sirio B

  3. #3
    Sognatrice
    Data Registrazione
    05 Mar 2002
    Località
    Piacenza
    Messaggi
    11,135
     Likes dati
    191
     Like avuti
    775
    Mentioned
    20 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: Il popolo Dogon

    Citazione Originariamente Scritto da Tomás de Torquemada Visualizza Messaggio

    La «toguna», o «grande riparo», è l'edificio del consiglio degli anziani; il «luogo della parola» è una spessa tettoia di arbusti elevata su base quadrangolare, con pilastri di legno o pietre adorni di figure stilizzate.
    Presso i Dogon, la tradizione è affidata agli uomini, che sono soliti ritrovarsi nella toguna. Toguna significa "grande rifugio", ma anche "casa della parola": traduzione, quest'ultima, che meglio rispecchia il significato e l'uso che della struttura si fa nel villaggio. E' il luogo in cui gli uomini riposano, fumano, parlano, discutono le varie questioni e in cui le donne non hanno accesso.

    La pianta del villaggio Dogon rappresenta schematicamente il corpo umano e la toguna si trova a formare la testa di questa ideale figura, il cui cuore coincide con le abitazioni vere e proprie. Gran parte della vita sociale si svolge attorno a questa casa: la giustizia, i calendari agricoli, gli interventi d'emergenza e i provvedimenti di carattere amministrativo sono decisi qui. E qui si riunisce il consiglio del villaggio, formato da otto anziani (otto come gli antenati).

    L'edificio consiste di una spessa tettoia di canne, elevata su base quadrangolare e sorretta da pilastri scolpiti con scene di vita quotidiana e con rappresentazioni cosmogoniche. Spesso vi sono raffigurate coppie con i sessi ben evidenziati, a testimoniare l'importanza della fertilità e della procreazione. Il numero dei pilastri varia a secondo della dedicazione dell'edificio: se la toguna è dedicata agli antenati, i pilastri sono otto, se invece è dedicata alla fertilità sono sette, poiché questo è il numero che simboleggia la famiglia.

    Lo spazio all'interno della toguna è volutamente scomodo, in modo che il Consiglio giunga a rapide decisioni. Ed è anche volutamente basso cosicché, semmai qualcuno dovesse scaldarsi troppo nella discussione e scattare in piedi con troppa veemenza, una bella capocciata lo richiamerebbe immediatamente... all'ordine.



    La Toguna
    Ultima modifica di Silvia; 12-06-10 alle 14:46

  4. #4
    Sognatrice
    Data Registrazione
    05 Mar 2002
    Località
    Piacenza
    Messaggi
    11,135
     Likes dati
    191
     Like avuti
    775
    Mentioned
    20 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito

    Era comparso dal Mare Eritreo. Diceva di chiamarsi Oannes ed era un animale dotato di raziocinio; tutto il suo corpo era come quello di un pesce; aveva sotto la testa di pesce un'altra testa, e dei piedi umani, aggiunti alla coda di pesce. Anche la sua voce ed il linguaggio erano umani e articolati. E ancora oggi si venera la sua immagine…

    Così lo storico babilonese Berosso descriveva, nel 275 a.C., una misteriosa creatura apparsa improvvisamente in Mesopotamia, uscita dalle acque per "istruire e instradare" il barbaro genere umano. "Questo essere - raccontava Berosso - non si nutriva mai, ma parlava con l'uomo tutto il giorno; insegnava le lettere, le scienze, le arti. Aveva insegnato a costruire le case e a fondare i templi, a compilare le leggi, a distinguere i semi della terra e a raccogliere i frutti. Aveva spiegato i principi della geometria e, in breve, aveva insegnato tutto quello che serviva a rendere più "umana" la gente. Quando tramontava il sole, l'essere si tuffava in mare e attendeva tutta la notte nelle profondità marine, in quanto anfibio. Dopo di lui apparvero altri animali simili ad Oannes". Uno di questi era il Nommo, il dio anfibio dei Dogon.



    LA COMPLESSA COSMOGONIA DOGON




    I Dogon sono diventati famosi in tutto il mondo, loro malgrado: affascinati dai racconti dell'etnologo francese Marcel Griaule ( "Dio d'acqua", 1948), viaggiatori e semplici appassionati hanno conosciuto la loro organizzazione sociale e religiosa, lo stile di vita, l'articolata cosmogonia. Animisti convinti, i Dogon considerano l'universo come una cosa unica in cui convivono in armonia cose, animali e uomini. E dove l'uomo non è il padrone assoluto ma solo un elemento che, come gli altri, partecipa al mondo.

    Marcel Griaule studiò la mitologia e la religione Dogon per sedici anni prima che gli stregoni della tribù ricompensassero la sua dedizione. Fu il vecchio saggio Ogotemmêli ad assumersi il compito di rivelare gli aspetti esoterici della religione dogon a Griaule. Impiegò trentatré giorni per esaurire il suo compito: il risultato fu la rivelazione di una cosmogonia complessa e per nulla primitiva.

    "L'acqua, seme divino, penetrò nel grembo della terra e la generazione seguì il ciclo regolare: due esseri presero forma. Dio li ha creati come dall'acqua. Erano di colore verde in forma di persona e di serpente. Tutto il loro corpo era verde e liscio, scivoloso come la superficie dell’acqua. La coppia possedeva l'essenza di dio, perché era fatta del suo seme che è, a un tempo, il sostegno, la forma e la materia della forza vitale del mondo, sorgente di movimento e di perseveranza nell'essere. E questa forza è l'acqua, quella dei mari, dei confini, dei torrenti, dei temporali, del sorso che si beve al mestolo. "

    La nascita dell'universo, secondo la cosmologia Dogon, è opera di Amma, il dio supremo che ha creato il Sole, la Luna, le stelle e infine la Terra. Per il Sole e la Luna Amma si servì di palle d'argilla avvolte in spirali (in otto volute) d'oro e d'argento. Non appena ebbe creato la Terra, Amma si congiunse a lei, ma l'unione fu resa imperfetta dalla presenza del clitoride (residuo di mascolinità nella femmina). Da questa unione nacque un figlio altrettanto imperfetto, Yurugu, simbolo del disordine, che successivamente si accoppiò con la madre, portando nel mondo il sangue mestruale e l'incesto. Da questa catena di eventi peccaminosi i Dogon fanno discendere la pratica purificatrice della circoncisione, sia maschile che femminile, che tende ad eliminare la presenza di elementi (anche se ridotti a livello pressoché simbolico) del sesso opposto.

    Per ristabilire l'armonia, Amma generò poi i due gemelli Nommo, creature acquatiche, ermafrodite, contraddistinte dalla Virtù, che con l'acqua portarono nel mondo la seconda parola di Dio. Quindi Amma passò al terzo atto della creazione. Questa volta formò con l'argilla otto Nommo, quattro doppi esseri: gli antenati immortali che nella notte dei tempi scesero sulla Terra, dove oggi vivono, per istruire gli uomini. Amarubu, uno dei capostipiti, inseguendo un facocero trovò una sorgente nascosta. Nangabanu, un altro antenato, mentre inseguiva un coccodrillo scoprì una grande palude, dove venne fondata Bandiagara, il solo grande insediamento nella terra dei Dogon, oggi la loro capitale. Da allora il facocero e il coccodrillo sono animali sacri e vengono adorati dai Dogon.

    Ogotemmêli spiegò a Griaule che la concezione dell'universo si basa su due principi fondamentali: la vibrazione della materia e il moto perpetuo del cosmo. È il fonio, un cereale dai grani piccolissimi, a simboleggiare il germe della vita, animato da una forza interna che spezza il sottile strato in cui è avvolto, per farlo entrare a far parte dell'universo. Le linee a zig zag che si possono osservare sulle case Dogon rappresentano il moto perpetuo dell'universo, una spirale eterna.

    Le idee cosmogoniche hanno impregnato a tal punto la vita dei Dogon che ogni manifestazione della loro opera e del loro ingegno riflette il modello primario da cui tutti discendono. Osservando dall'alto un villaggio, si può notare come esso sia sempre orientato da nord verso sud e come la sua pianta rappresenti simbolicamente il corpo umano. La testa - come già detto - è la Toguna, accanto alla quale sorge la fucina dove lavorano i fabbri, misteriosi manipolatori di ferro che intrattengono un legame stretto con le divinità celesti. Il petto dell'uomo è costituito dalle case delle famiglie con i loro granai. La mano destra è la casa delle donne, dove si rinchiudono durante il periodo mestruale, quando sono impure e non fertili.

    Più in basso, la pietra usata come frantoio rappresenta gli organi genitali femminili, mentre l'altare del villaggio, dalla caratteristica forma fallica, simboleggia l'organo maschile. Il simbolismo Dogon raggiunge ogni più piccolo e all'apparenza insignificante oggetto: il paniere intrecciato, con la base quadrata e l'apertura tonda, se capovolto rappresenta l'universo perché il cielo è quadrato e la terra rotonda. I principali elementi che costituiscono i granai simboleggiano gli otto organi della forza vitale di Nommo. I solchi nei campi sono tracciati a serie di otto e sempre in direzione est-ovest. Anche i pilastri della Toguna sono ricchi di simboli: l'antilope, apportatrice di vita, la volpe, il coccodrillo e il seno femminile perché: "Dopo Dio c'è il seno" dicono i Dogon, sintetizzando l'essenza della vita umana.

    Tutto questo ha contribuito ad aumentare il fascino dei Dogon che, in quell'arida terra che si stende sotto la falaise (scarpata) di Bandiagara, hanno saputo creare una visione dell'universo particolare e complessa: un simbolismo estremamente efficace che coinvolge tutti gli individui nei loro gesti quotidiani.

    Quando Ogotemmêli spiegò a Griaule che un cesto capovolto rappresentava il sistema del mondo, aggiunse che in principio sul quadrato superiore, delle dimensioni di un cubito, si trovavano tutti gli animali e le piante della terra. Griaule domandò sorpreso come potevano stare su di un gradino di un cubito tutti gli animali e le piante. "Tutto questo viene detto a parole - rispose Ogotemmeli - ma ogni cosa sui gradini è un simbolo, antilopi simboliche, avvoltoi simbolici, iene simboliche... Un numero qualsivoglia di simboli può trovare posto su di un gradino di un cubito".




    Affascinante architettura dogon sulla falaise di Bandiagara
    Ultima modifica di Silvia; 17-06-10 alle 21:33

  5. #5
    Sognatrice
    Data Registrazione
    05 Mar 2002
    Località
    Piacenza
    Messaggi
    11,135
     Likes dati
    191
     Like avuti
    775
    Mentioned
    20 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito

    Pietro Veronese

    IL POPOLO NASCOSTO






    Molti bei libri sono stati scritti per spiegare perché, nella storia dell’umanità, alcune civiltà hanno avuto più successo delle altre nel liberare l’uomo dal bisogno, nell’assicurarne il benessere e allontanarne la morte. Nessuno però, che io conosca, spiega perché un popolo ha più cultura di un altro. Perché si spinge più in là nel creare parole per indicare le cose; nello spiegare a se stesso l’origine del mondo e della vita; nel rappresentare un Dio complesso e grandioso; nell’osservare l’universo, le leggi occulte che lo governano, le misteriose corrispondenze che esso sembra rivelare a chi l’osserva con profondità; nell’imporre all’uomo complessi rituali che meglio lo aiutino a capire il proprio posto nel creato. Se un simile libro esistesse, di certo dovrebbe indagare il segreto dei Dogon, etnia africana che abita uno dei luoghi più impressionanti e incantati del continente ed è — o forse dovremmo dire “è stata”, considerata la rapidità con cui tutto oggi si trasforma e si perde — depositaria di una cultura straordinaria.

    I Dogon sono oggi circa 250 mila persone. Molti secoli fa, intorno al volgere del trascorso millennio, essi si stabilirono ai piedi della grande falesia di Bandiagara, all’interno dei confini del moderno Mali. Già la scelta di questo luogo, che peraltro essi trovarono già abitato, è straordinaria.
    La storia degli uomini nell’immenso bacino del Niger è da sempre abbracciata, cullata, scandita, segnata dalle cicliche piene del fiume, che attraversa il Mali da sud a nord disegnando la vastissima ansa dopo la quale torna a volgere verso il Golfo di Guinea. L’acqua, col suo lentissimo battito, col suo andare e venire due volte ogni anno, dispensa la vita e ha plasmato la società umana a sua immagine. I bozo pescano, i bambara coltivano, i peul allevano, i songhai commerciano. Ciascun gruppo inchinandosi al volere del fiume, lasciando che il suo fluire determini il tempo del gettare e levare le reti, della semina e del raccolto, del pascolo e della transumanza, della navigazione verso il mare oppure, a seguire la corrente, verso il deserto.
    Ma i Dogon si posero a margine di tutto questo. Forse vedendo nella difesa, piuttosto che nei frutti della natura, il principale fattore di sopravvivenza — o forse nell’estetica, prima che nell’economia — presero dimora in un luogo che colpisce per la sua bellezza e per la sua inospitalità. Rimasero al bordo della vasta comunità saheliana, lontani dalle fertili pianure e dalla grande, liquida via di comunicazione, in un rifugio roccioso isolato, pressoché inaccessibile.


    Quando si arriva a Bandiagara da occidente, cioè dalla piana del fiume, la presenza della sua grande falesia è insospettabile. Il terreno si eleva a poco a poco, facendosi roccioso e caldo sotto i raggi del sole. Il paese dei Dogon si presenta piuttosto come un altopiano. E poi, d’un tratto, è come se la terra sprofondasse e lo sguardo, che fino a un attimo prima seguiva verso l’alto la pendenza del terreno, tracolla in un lontano infinito, un verde punteggiato d’acacie che si perde in un orizzonte vastissimo. Il mondo scompare sotto i piedi e quel precipizio, quella voragine del mondo, è la falesia di Bandiagara.

    La strada si fa adesso ripidissima e si incunea, si avvolge tra gole e ammassi pietrosi. In breve scende alla base della falesia e i villaggi dei Dogon appaiono come una shangri-la di campi di miglio e di orti nascosti tra le curve dell’incombente parete rocciosa. Stanno acquattati al riparo delle sue pieghe, come addossati ad essa, in una posizione estrema, senza ulteriore via di fuga. Ma così non è, perché quel baluardo naturale è solcato da mille fessure, canyon, passaggi segreti che danno accesso al mondo nascosto dei Dogon. Essi vivono in prossimità delle viscere della terra, in un habitat che sembra mettere in comunicazione il mondo degli inferi con quello dei viventi e continuamente trapassa dalla luce abbagliante del sole all’umida oscurità del sottosuolo.

    Quando i Dogon si insediarono qui ne scacciarono — o forse trovarono la falesia già abbandonata — un popolo cavernicolo, che aveva avuto costume di seppellire i propri defunti in anfratti rocciosi sospesi a circa metà altezza della strapiombante parete. Quelle necropoli a mezz’aria vennero integrate nella visione del mondo che hanno i Dogon, la quale è rovesciata rispetto alla nostra. Per loro il mondo dei morti non è sotterraneo, bensì interposto tra i vivi e i grandi spazi celesti.


    Per circa mille anni i Dogon abitarono la falesia di Bandiagara indisturbati dal resto del mondo. Furono tra gli ultimi popoli africani ad essere “scoperti” dall’uomo bianco e forse questo è un segno della loro lungimiranza nello scegliere per dimora quel luogo remoto. Tra i primi europei ad arrivare alla falesia furono i membri della spedizione Dakar-Gibuti, la quale si proponeva di attraversare quella che era all’epoca l’Africa occidentale francese partendo dalla costa atlantica e raggiungendo a est l’Oceano Indiano. Così l’antropologo Marcel Griaule, negli anni ‘30 del secolo scorso, conobbe i Dogon e dedicò a loro il resto della sua vita. Ne indagò usi, costumi, credenze, le straordinarie conoscenze astronomiche, la complessa cosmogonia, la religione monoteistica che ha al suo vertice un Dio antropomorfo il quale dà forma all’intero creato. Scoprì il simbolismo universale che accompagna ed ispira tutto il loro stare al mondo, dai gesti all’architettura, al continuo parallelismo tra uomo e natura. Studiò tutto questo e solo alla fine, dopo molti e molti anni interrotti solo dal secondo conflitto mondiale, fu ammesso alla confidenza di Ogotemmeli, l’anziano cacciatore cieco che aveva deciso di svelargli i segreti dei Dogon. Ne nacque il celebre libro Dio d’acqua, capolavoro delle scienze umane, pubblicato nel 1948 e sempre ristampato.


    Oggi i Dogon sono meta turistica. La loro povertà imbarazza, lo sporco dei giacigli che offrono al viandante fa un poco spavento, ma la loro identità, minacciata da ogni lato,ancora resiste. I loro villaggi ai piedi della falesia restanovivi. La maestosa bellezza dei luoghi che essi abitano è intatta. Sono diventati un mito per i cacciatori di Ufo, i quali non sanno spiegarsi la loro sapienza astrologica (i Dogon conoscono da sempre una stella, Sirio B, che solo in epoca moderna i telescopi sono riusciti a vedere) se non ipotizzando l’atterraggio tra di loro di un’astronave in secoli remoti. Poveri Dogon.

    Noi crediamo oggi di sapere tutto di loro, ma il mistero della loro cultura rimane insoluto. Perché i Dogon si sono tramandati di generazione in generazione, di bocca in bocca (essi non conoscono la scrittura) un sapere così sofisticato e complesso? Ma siamo poi così sicuri che i tellem, i precedenti abitanti della falesia, fossero più rozzi e primitivi? E che non ci siano per l’Africa ancor oggi cosmogonie non meno raffinate, simbolismi non meno profondi, lingue non meno ricche, che stanno semplicemente andando per sempre perdute prima di aver avuto la fortuna di imbattersi nel rispetto di un Marcel Griaule? O magari non è stata fortuna, ma un attimo preparato da secoli, fin dal giorno in cui la saggezza degli antenati li portò ai piedi della falesia, di quel luogo unico al mondo, scegliendolo come il posto migliore nel quale porsi in attesa dell’arrivo dell’altro.
    Forse il mistero dei Dogon è soltanto questo, un insondabile, molto umano mistero: aver saputo ispirare lo sguardo con il quale li abbiamo infine guardati.

    Pietro Veronese - da La Domenica di Repubblica (17 luglio 2005)
    Ultima modifica di Silvia; 26-12-10 alle 16:58

  6. #6
    Sognatrice
    Data Registrazione
    05 Mar 2002
    Località
    Piacenza
    Messaggi
    11,135
     Likes dati
    191
     Like avuti
    775
    Mentioned
    20 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: Il popolo Dogon

    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 21-12-12 alle 01:06

  7. #7
    Forumista
    Data Registrazione
    02 Feb 2010
    Messaggi
    990
     Likes dati
    128
     Like avuti
    120
    Mentioned
    11 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: Il popolo Dogon



    La croce, il cranio, la maschera.

    La dottrina della fondazione e dell’orientamento dogon e i suoi paralleli con altre tradizioni





    (la Crocifissione di Durer, ai piedi del Cristo il teschio di Adamo)



    Uno dei massimi studiosi del pensiero dogon, Marcel Griaule nell’introduzione alla sua più celebre pubblicazione, Dio d’acqua, ebbe esplicitamente ad affermare che “la stessa cristologia avrebbe interesse a studiate i Dogon”.(Griaule: 1978,4)

    La narrazione mitica che ha per oggetto la realtà del mondo indigeno è molto complessa e articolata e l’avvenimento sul quale è opportuno concentrare l’attenzione è legato a un particolare momento del dispiegamento del racconto della creazione, alludiamo specificamente a quella sezione del racconto mitologico in cui si narra dell’elargizione della terza parola agli uomini da parte del Dio creatore Amma.

    Brevemente si dirà, per avere un’idea del decorso cronologico degli eventi mitici di questa tradizione africana, che il Dio Amma, creatore dell’universo, per rimediare ai guasti prodotti da uno dei suoi figli della prima generazione (creature dall’aspetto semianfibio denominati Nommo), si decise a creare direttamente una coppia primordiale di uomini, e da questa coppia nacquero otto capostipiti dell’etnia: quattro maschi e quattro femmine che, per auto-generazione, produssero l’ulteriore discendenza degli uomini.

    Il frammento del mito che riguarda l’argomento, e che ha dato origine a una serie di incontri tra Griaule e il suo sapiente informatore, narrati nel libro “Dio d’acqua”, riguarda il racconto dell’elargizione della “Terza parola” agli uomini, l’ultima definitiva iniziazione alla comprensione dell’Universo, che il demiurgo concesse agli esseri da lui direttamente creati. In questa versione mitica compresa nel testo del 1947 (poi ripensata in maniera più “complessa” nella successiva stesura del mito incorporata nel libro “Le renard pale”) le otto creature primordiali di Amma, i geni Nommo, dopo varie vicende, furono inviati da Amma, per mezzo di una prodigiosa arca celeste, sulla Terra, al fine di produrre gli atti di fondazione necessari alla nuova condizione degli uomini.
    All’epoca la Terra, ancorché già abitata dagli uomini, appariva spoglia e desolata, in essa vivevano pochi esseri del mondo vegetale e animale, si tratta di quella categoria di viventi appartenenti alla prima generazione. La creazione doveva ancora esplodere sulla Terra e la maggior parte delle creature si trovava ancora “in cielo”, allo stato di “idea” nella mente del demiurgo: essi troveranno concretezza al compimento della discesa dell’arca celeste dove le idee, ovverosia i simboli degli esseri, trasportati dall’arca si colmeranno di “sostanza”.
    Al posarsi dell’arca sulla terra nel mito dogon avvengono due fatti concomitanti e davvero epocali nella dinamica del pensiero indigeno: da una parte il più vecchio degli uomini, chiamato Lebé, muore e viene sepolto in un campo che dovrà essere seminato da lì a poco con i semi celesti prelevati dall’arca, il suo “sepolcro” è una fossa orientata da nord a sud ed egli viene deposto supino con la testa a Nord, nella posizione della terra e nel suo ombelico medesimo cioè nel suo centro; dall’altra, una delle creature celesti primordiali, il Nommo, in discesa sull’arca e Settimo in ordine di uscita dalla porta del celeste veicolo, viene ucciso (per diversi motivi, narrati in varie versioni del mito) ed il suo corpo offerto agli uomini affinché se ne possano nutrire, mentre la testa viene sepolta sotto il sedile del fabbro primordiale.





    Costui, a seguito di tali eventi, inizia a battere il martello sull’incudine e tale suono ritmico produce un insolito movimento nel sottosuolo. La testa decapitata del Nommo divorato si rianima e si dota di un nuovo corpo, serpentiforme dalla vita in giù, e in queste nuove sembianze, danzando all’interno della terra, il Nommo rigenerato si avvicina al cadavere del Lebé, il primo “morto- non morto” per ingerirlo.
    Il Lebè (l’ottavo) rappresenta per i Dogon il più vecchio degli uomini e per questo lo si può considerare un vero e proprio “Adamo” sudanese. Questo Lebè-Adamo, viene quindi ingoiato, ma, per la virtù propria di molti serpenti mitici, che possiedono la capacità di rigenerasi e rigenerare, avviene che il corpo dell’uomo, nell’utero del Nommo-serpente, fu restituito in un rigurgito liquido con le membra trasmutate in pietre colorate. Il torrente liquido estromesso dalla bocca del Nommo-serpente fa scaturire cinque fiumi che si orientano dallo spazio della tomba, ponendola al centro del nuovo assetto del mondo. A loro volta le pietre colorate si dispongono al suolo assumendo la sagoma di un profilo umano. Soffermiamoci fugacemente su questo quintuplice effluvio, di cui ci si è occupati altrove (Bonifacio 2005, 117). Nella pubblicazione citata si rilevava come il “cinque”, posto in un sistema di nove caselle proveniente da un mito di sistemazione della Terra di origine cinese, occupi il centro dello schema (il che richiama evocativamente la quintessenza) e tale collocazione si presenta conseguentemente come il fulcro di quell’assetto del mondo che il Settimo desidera offrire agli uomini e di cui le pietre viventi (le dougué) che formano lo schema, costituiscono la trasformazione (forse sarebbe meglio dire la trasmutazione), di un uomo che ha subito una passione e quindi una morte e una resurrezione.

    Tale elemento distintivo si presenta foriero di quegli interessanti spunti comparativi accennati nell’introduzione. Nel mito estremo orientale, appena accennato, il cinque occupa un punto centrale nella disposizione delle nove provincie dell’impero, regno che, così diviso, realizzava specularmente l’immagine dell’universo sulla terra dove all’omphalos si trovava il “numero centrale della Terra”, quello ordinatorio dell’intero sistema.

    A questo punto è troppo affermare che la crocifissione esprime un simbolismo numerico similare manifestato attraverso le cinque piaghe del Cristo, in cui il numero cinque è centrale ed è assegnato alla ferita del cuore, luogo fisico che esprime appunto il centro dell’essere e nella fattispecie della crocifissione, il centro stesso del mondo; il cuore, del resto, è l’elemento che rappresenta il mezzo della comunicazione con la trascendenza (l’intelletto del cuore). Ancora, e senza forzature, ci poniamo la seguente domanda: qualora riquadrassino lo schema della crocifissione non avremmo, complessivamente, anche qui uno schema geometrico formato da nove caselle?

    Non si tratta naturalmente solo di numeri, lo schema dogon, reca alcuni elementi comuni con la passione di Cristo e quindi se pur questi “grumi mitemici” sono composti con regole “grammaticali” diverse, essi sono idonei a comporre strutture simili, anche se naturalmente non identiche. Così il tema delle due nature del Salvatore, oggetto di molteplici riflessioni ai primordi del cristianesimo e di varie scissioni tra chiese, trova qui un suo puntuale parallelo. Nel mito indigeno, infatti, si narra come l’essere umano il Lèbé- Adamo e l’essere divino il Settimo (Salvatore) si fondono insieme nel momento dell’ingestione del Lebé e nella trasformazione nell’utero. Incidentalmente si vuole aggiungere che, molto sottilmente, i Dogon pensano che la vicenda fin qui narrata non sia avvenuta una volta per tutte, che cada cioè nella “storia”, intesa come consumazione entropica del tempo, essa diversamente ha delle caratteristiche esemplari e i Dogon interpretano l’evento come unione perenne delle due nature, umana e divina.

    Quindi anche se il racconto reca le sembianze di un accadimento, la natura propria del linguaggio mitico, inteso quale vicenda esemplare, porta i Dogon a concludere in ordine al carattere paradigmatico dell’evento. Le anime del Lebè e del Nommo, con l’atto di ingestione dei primordi, si sono fuse e ne formano una soltanto, di natura divina e umana contemporaneamente e per questo la preghiera dogon relativa all’argomento è la seguente: “Che Nommo e Lebé non cessino mai di essere la stessa cosa che restino la stessa cosa buona, che non si separino da questa qualità di essere la stessa cosa buona” (Griuale: 1978, 66).
    Tuttavia ulteriori elementi del mito meritano di essere valorizzati. Si è accostato un certo simbolismo numerico a base nove, proveniente da questa lontana cultura estremo-orientale, perché esiste un certo parallelismo tra il “quadrato magico” cinese, prima appena accennato e una sorta di “quadrato magico” dogon. Infatti, le pietre rigurgitate sulla terra disegnarono una sagoma umana, una sorta di schema tabellare, indicante a mezzo delle relazioni numeriche possibili, lo schema della futura società dogon. Si tratta di un vero “macratropo” litico le cui combinazioni numeriche, a base 9, fondata sulle otto articolazioni del corpo, disegneranno il modello fondamentale dello scambio matrimoniale, nucleo di un ordinato assetto del mondo.
    Questa organizzazione va però ben al di là di un mero “organismo sociale”, essa rappresenta piuttosto un’organizzazione spirituale del mondo indigeno, in cui le pietre costituiscono quello che può definirsi il reticolo del “corpo” mistico della intelaiatura delle relazioni dogon, non per nulla Ogotemmeli definisce le pietre come “i pegni d’affetto degli otto antenati, i ricettacoli della loro forza vitale che essi volevano rimettere in circolazione nella loro discendenza”.
    Diversamente dal mito diluviale di Decaulione e Pirra in cui le pietre, ossa della madre (anche le pietre nella tradizione dogon quelle pietre portate al collo dai sacerdoti del culto sono costantemente considerate le ossa del Lebé), determineranno la nascita di una nuova schiatta d’individui, qui l’architettura pietriforme scaturente dal diluvio (il rigurgito del Nommo serpente) determinerà la collocazione individuale dei singoli dogon, a seconda della posizione che ogni soggetto occupa all’interno di un determinato clan, lignaggio e famiglia.




    Ora, il sacrificio congiunto del Nommo e del Lebé contengono uno specifico messaggio cosmologico che comporta un rinnovamento del creato e un suo nuovo ordinamento, dal momento che: “Il Nommo settimo genio puro, ingoiando il vecchio aveva assimilato la natura umana impura e la seconda parola che aveva perso il suo valore. Nel vomito ritmato dai colpi dell’incudine, egli aveva espulso, insieme alle pietre d’unione, un’acqua che portava in sé la contaminazione” (Griaule: 1968,63).
    Questi sono gli elementi essenziali del mito dogon, relativi al periodo della terza parola, le cui molteplici sfaccettature non possono essere indagate in questa circostanza, e partendo da queste nozioni essenziali è opportuno rivolgerci direttamente al tema del possibile accostamento con il tema cristiano del sacrificio per proporne un possibile, ma verosimile, accostamento fra culture davvero molto lontane.

    Si è molto opportunamente sottolineato come il sacrificio di Cristo costituisca un atto supremo di carità, in un contesto in cui la parola “carità”, che ha subito un orrendo scivolamento semantico, venga equiparata all’”elemosina” (anch’essa parola degnissima comunque almeno nel senso proprio, per così dire “socialista“, che aveva nel mondo islamico).
    In termini rigorosi “carità” altro non significa che “dividere la propria carne”: ebbene tale definizione ben si attaglia a quanto descritto in questa circostanza dove il Nommo, creatura celeste e intermediaria tra il Dio supremo e gli uomini, si fa eucaristicamente mangiare dagli uomini. Anche questo atto costituisce un ulteriore elemento di congiunzione con il tema cristico come si ricava dalle parole con cui Ogotemmeli commenta il carattere “caritatevole” del gesto del Nommo: “Il Nommo settimo…si è sacrificato, soltanto lui poteva farlo. Il Settimo è il Signore della parola, signore del mondo…Il Settimo potrebbe dire: la cosa che io facevo, l’opera che io compivo, la parola che io parlavo è: ‘La mia testa è caduta a causa degli uomini per salvarli’” (Griaule: 1978, 65).

    Il senso della vicenda assumerà, nell’ottica dogon, un’importanza fondamentale perché in contemporanea al determinarsi dell’assetto della società indigena si compiranno anche delle operazioni fondamentali d’orientamento spaziale scaturenti esattamente dal centro ombelico.
    In futuro ogni nuovo centro dogon riceverà parte di questa terra sepolcrale originale, con essa i Dogon formeranno degli altari in forma conica, nuovi centri contraddistinti da nuovi omphalos e poi da qui, inaugurati nuovi nuclei abitativi, procederanno al dissodamento del suolo, nucleo della cultura autoctona fondato sull’agricoltura, strumento rituale primario di purificazione della terra e solo sussidiariamente scelta alimentare dell’etnìa.

    Questi elementi trovano degli interessanti paralleli con altre culture; nel mondo romano, di cui in prosieguo si vedranno altri accostamenti, possono essere colte delle significative similitudini contenute proprio nel racconto mitologico che riguarda il centro dell’Urbe: il Campidoglio. Leggiamo questo interessante passo tratto dall’articolo di Renato Del Ponte “Il Campidoglio e il suo simbolismo assiale”: “…tuttavia potrà essere interessante osservare che la stessa successiva contaminatio fra mito greco e romano, tra Saturno e Kronos, offre un’ulteriore preziosa testimonianza del valore ‘centrale’, omphalico, attribuita a Terminus, poiché esso sarà identificato con quella pietra che ’ pro Iove Saturnus dicitur devorasse’, in base a un singolare processo di fusione che ha luogo tra l’interpretatio romana del mito di Kronos e la tradizione autoctona dell’ostinata resistenza di Terminus sul Capitolium”(Arthos, La tradizione artica n.27-28)

    E’ in questo luogo che si trova la colonna del dio Terminus (la pietra restituita da Saturno, si tratta dell’unico sacello presente nel mons Saturnio non exaugurato dopo la consacrazione del tempio), stele confinaria che viene posta, nell’ottica romana, non alla periferia di un proprio territorio, come elemento di separazione tra due regni, ma piuttosto al centro stesso dello Stato, nel punto di irraggiamento che farà di Roma il “caput mundi” e questo a significare che il destino di Roma era concepito come finalizzato all’integrale romanizzazione del territorio senza alcun limite definito che non fosse l’orizzonte: in questa ottica il Campidoglio rappresenta, se così può dirsi, il “centro del centro”, un luogo del resto significativamente posto in relazione con lo stesso asse polare come dimostrato da una ricca simbologia ad esso relativa, simbologia per la verità un poco tarda rispetto a quella che riguarda il Palatino che sembra essere stato l’originale polo di Roma connesso con Ursa Minor (si veda sull’argomento “Riflessi primordiali alle origini di Roma: Il Palatino” di Renato del Ponte).

    Anche nella circostanza dalla ri-composizione di alcuni mitemi essenziali sembra scaturire un messaggio, comune a più tradizioni, e quindi nella circostanza troviamo il “dio” Saturno (anch’esso settimo nell’ordine geocentrico antico dei pianeti) che ingoia una pietra, in luogo di Giove, pietra che comunque determinerà l’esistenza o la permanenza di un centro, tanto che Renato del Ponte conclude il suo articolo sul Campidoglio con le seguenti parole, che potrebbero benissimo essere apposte alla descrizione della tomba del Lebé, Nommo “Come Delfi, anche il Campidoglio, nell’ambito della geografia sacra, rappresenta allora una delle culminazioni arcane più sante per la loro antica tradizione: segna simbolicamente il “centro del mondo”. Intorno a questo argomento verranno offerti altri accostamenti nelle pagine successive per completarne la valenza comparativa, soprattutto in relazione al carattere tombale evocato anche dalla citazione delfica compiuta dallo stesso Del Ponte, dal momento che questa località accoglie elementi mitologici accostabili a quanto finora narrato (uccisione del serpente e ombelico, non per nulla Delfi è posta sotto la tutela di Artemide-Ursa Minor-la costellazione polare).

    Questo atteggiamento nei confronti del luogo “tombale” costituisce un altro aspetto assai interessante intorno al tema che qui si sta trattando in rapporto alla materia evangelica. Richiamiamo, per l’occasione, un episodio narrato, esclusivamente dal Vangelo di Giovanni, e dai contenuti piuttosto enigmatici che riguarda il sepolcro di Cristo. Gesù, una volta risorto, venne scambiato dalla Maddalena per il giardiniere del luogo, dal momento che il nuovo sepolcro offerto da Giuseppe di Arimatea ai discepoli per contenere il corpo del Cristo appariva posto in un giardino, anziché in un cimitero.
    Questa collocazione “insolita” (prescindendo poi dalle virtù risanatrici del Graal di cui secondo certe tradizioni Giuseppe di Arimatea fu il depositario e che si riconnettono evocativamente a questo carattere “rigoglioso” del tema della sepoltura) richiama quella qualità propria della Terra della Resurrezione che si è già incontrata nel mito dogon. Questa terra è l’unica terra in grado di purificare il resto del mondo che è all’epoca di svolgimento della vicenda mitica è intriso di impurità.

    La terra della tomba quindi, anziché farsi strumento di corruzione per la presenza di un corpo putrescibile, diviene, proprio a causa del corpo santo che contiene (e che richiama una serie di tradizioni che concernono il profumo delle tombe dei santi), uno strumento di redenzione, il mezzo per procedere a una nuova edenizzazione del creato, dopo la caduta adamica.

    Di tale concezione si ha un preciso precedente nella stessa cultura egizia dove la tomba di Osiride (dio, che ha anch’egli subito una “passione”) viene considerato secondo l’interpretazione dell’egittologo Boris de Rachewiltz, come “serbatoio di energia fecondante” e per questo, nell’iconografia di Osiride presente nel tempio di File, il dio, disteso sul suo catafalco, appare circondato da simboli di vita ed il corpo è cosparso di spighe rigogliose.
    Questi temi sono ampiamente condivisi e, se così vogliamo dire, enfatizzati dalla cultura dogon, infatti il mito narra che il “campo delle origini” dogon fu diviso in ottanta volte, ottanta quadrati, della dimensione di un cubito di lato, spazi che furono, a propria volta, ripartiti fra le otto famiglie discendenti dagli antenati che avevano continuato il loro destino sulla terra.
    Partendo quindi dalla tomba, oggetto della potente trasmutazione dell’ottavo e del Settimo, inizierà la progressiva espansione nello spazio circostante che verrà così progressivamente cosmicizzato (nel caso cristiano “evangelizzato”). Il primo insediamento diverrà quindi la fonte viva e inesauribile di quella sacralità necessaria per procedere a ogni futuro allocamento fornendo, alle future generazioni dogon, il modello ripetitivo dell’assetto urbanistico ideale. Infatti, lungo la mediana nord-sud di questo quadrato delle origini, saranno costruite otto case d’abitazione e il materiale di queste costruzioni sarà costituito da quella stessa calcina trasportata dall’arca, per cui questa terra celeste mescolata alla terra impura formerà un impasto partecipare le nuove abitazioni della purezza del mondo celeste.

    Il tema del “centro del mondo” connesso alla “montagna-teschio”, di cui abbiamo tracciato qualche elemento comparativo nelle precedenti considerazioni, merita di essere ampliato con altri raffronti, al fine di validare ulteriormente la linea interpretativa scelta per questo intervento. Nel paragrafo precedente abbiamo soffermato l’attenzione sul tema delle pietre di fondamento di una “civiltà” deposte in un luogo ombelicale e si è constata la presenza di una serie di omologie tra varie vicende, raccolte in alcune tradizioni, che attestano la pertinenza di questi accostamenti. Ora si opererà un ulteriore raffronto tra il tema del Teschio, presente nel mito dogon, con alcune tradizioni nelle quali si rintracci la presenza di questo elemento
    Un luogo storiograficamente assai noto per avere ospitato una “montagna teschio” è il romano Colle capitolino (da caput olim, secondo la prevalente e quindi non unica etimologia di Varrone) nucleo essenziale della vicenda dell’urbe, luogo altresì enigmaticamente connesso ad un “primo tempo”, dal momento che i destini della stessa Roma arcaica appaiono conferiti, per antico tramandamento, da una “Roma” ancora precedente e, se così si vuole dire, sovratemporale e latente all’attualità storica.

    Riprendendo alcune considerazioni già anticipate nelle pagine precedenti a proposito della connotazione tombale del luogo, si vuole qui richiamare la testimonianza di Livio che ci narra l’episodio di Tarquinio Prisco il quale, quando fece scavare le fondamenta per il nuovo tempio di Giove sul colle saturnio, vi scoprì “caput humanum integra facie” e cioè una testa “umana con il volto intatto”. Tuttavia questa citazione è stata interpretata diversamente da alcuni ricercatori e la testimonianza di Livio potrebbe riferirsi al ritrovamento non tanto di una testa quanto di un tempio a forma di cranio, rinvenuto, appunto, intatto. Un’ulteriore annotazione sull’argomento si rende opportuna ed è tratta da una considerazione linguistica proposta dal ricercatore Siro Tacito il quale, nella sua introduzione al libretto di Camillo Ravioli denominato Prima Tellus, così scrive a proposito della parola facie: “Questo è uno dei numerosissimi casi in cui misuriamo la nostra difficoltà a intendere correttamente i classici, rinchiusi in una gabbia di significato definiti in epoca moderna ed accettati per convenzione ed abitudine. Il termine facies, che qui ricorre al caso ablativo, è emblematico. La sua provenienza dalla radice “bha” ampliata con il suffisso “k” a indicare l’atto del “risplendere”, “illuminare” ne rivela il significato profondo.” (Siro Tacito: Prima Tellus, pag 19 nota 3).

    Ebbene per cogliere il possibile significato fotico, anche in relazione all’architettura cosmica del Campidoglio e del Golgota, del quale si esprimerà qualche opinione nel prosieguo, è necessario recarsi in un’altra terra e precisamente a Gozo nell’arcipelago maltese, luogo sacrale eccelso al centro del Mar mediterraneo, dove alcuni dei templi più antichi mostrano una precisa forma di teschio. Tra questi ricordiamo il tempio di Hagar Qim che, tra le peculiari caratteristiche che lo riguardano, ne possiede una in particolare che potrebbe riconnettersi in generale il Tempio capitolino menzionato da Livio ma anche a quella caratteristica di “splendore” evocata nell’interpretazione di Siro Tacito. Il tempio maltese, come alcuni altri, posti nello stesso arcipelago, appare, infatti, orientato secondo le linee solstiziali della nascita e del tramonto del sole, oltre che sulle posizioni di levata e tramonto della Luna.

    Questa caratteristica architettonica, comune ad altri tumuli megalitici dalle connotazioni architettoniche “craniche”, rafforza il nostro discorso in merito all’orientamento come momento paradigmatico dell’agire rituale sulla terra e quindi fissazione di un centro, una comunanza d’intenti che rende accostabili, pur nella disparità geografica e nella lontananza storica, i simboli fondamentali di civiltà tanto lontane e apparentemente così diverse. Del resto a riprova di una precisa connessione esistente tra il simbolismo polare offerto dalla colonna del Dio Terminus e le relazioni solari (equisolstiziali) del luogo è opportuno ricordare che la riconsacrazione del Tempio capitolino di Giove, distrutto da un incendio, fu scelta come data di inaugurazione il giorno del solstizio d’estate del 70 d.C. un giorno verosimilmente connesso alla celebrazione della liturgia solare.

    A proposito di questa circolarità dei simboli osserva Siro Tacito, citando il lavoro del Ravioli sulle origini sacrali dell’Urbe, un’altra annotazione sull’argomento che ci consentirà di rientrare nell’universo dogon: “Per completare le considerazioni intorno all’Asse capitolino (denominato a cagione della sua inamovibilità ‘immobile saxum’), è doveroso accennare a un altro dato di autorità tradizionale, avvio in una direzione che ora non possiamo seguire fino in fondo: è possibile contrapporre, con una concordanza di luoghi e punti persino imbarazzante, la pianta del Colle capitolino con il rituale fegato etrusco di Piacenza; la stessa forma della Gigantèa richiama, oltre che un cranio, anche un fegato”. La precisa circostanza evocata dal ricercatore può essere ritrovata specificamente anche nelle culture sudanesi proprio relazionandola al mito di fondazione e ai riti che a esso si riferiscono. Il luogo da cui Ogotemmeli fa scaturire le sue osservazioni è proprio quell’altare su cui i Dogon compiono il loro sacrificio annuale Questo altare costituito appunto da un ombelico di pietra grigia contiene le zolle di quel terreno prelevato, a propria volta, dall’archetipo originale di questa tipologia di altari, posto nel primo luogo di fondazione della civiltà indigena.

    Per il compimento del rito annuale, che non è oggetto delle presenti considerazioni, è necessaria la partecipazione di un “impuro”, si tratta di una categoria di uomini, considerati né morti né vivi, che assumono un ruolo importante nel mondo dogon fornendo un’indispensabile mediazione con regni “pericolosi”, quali quello della morte.
    Il rito comprende il sacrificio di una capra (animale cornuto) sull’altare e al compimento di questa uccisione l’impuro, l’unico che tratta impunemente con i morti a beneficio del gruppo, mangia il fegato cotto dell’animale. Tutto il rito è accompagnato dal battito del fabbro sull’incudine, nella convinzione che questo suo percuotimento ritmico aiuti gli spostamenti della forza vitale del Lebé, di cui la terra dell’altare di fondazione è ancora impregnata. Nel suo commento al rito Ogotemmeli scrive: “Quando l’impuro mangia il fegato della bestia è come se mangiasse il cranio del Lebé che passa per l’animale sacrificato” (pag. 150).
    Ecco quindi che, anche in un ambito completamente remoto rispetto a quello che si è delineato nelle righe precedenti, il gioco dei riferimenti rimane riconoscibile e rimanda alla medesima sistemazione del cosmo in un reticolo di richiami davvero insospettabili e stabilendo la precisa correlazione simbolica tra fegato e cranio come si era evidenziato nella cultura etrusco-romana.

    fonte:
    La Croce e il Cranio (1^ parte) (di A.Bonifacio)

  8. #8
    Ritorno a Strapaese
    Data Registrazione
    21 May 2009
    Messaggi
    4,756
     Likes dati
    0
     Like avuti
    33
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito I Dogon, i nommo e il dio pesce Oannes

    Le straordinarie conoscenze astronomiche dei Dogon

    Le straordinarie conoscenze astronomiche dei Dogon

    Sirio, la stella più luminosa della Costellazione del Cane Maggiore, appare basso sull'orizzonte poco prima dell'alba, sotto la Costellazione di Orione in direzione Sud, nei mesi di Luglio ed Agosto: mesi che sono appunto chiamati della "canicola". La sua breve distanza dalla Terra, appena 8,6 anni luce, gli assegna il secondo posto dopo il Sole come astro più luminoso del cielo.

    Gli antichi Egiziani, non avendo conoscenze astronomiche tali da poter legare la luminosità alla distanza, gli conferirono una notevole importanza nella loro cosmologia, spiandone con trepidazione nella seconda metà di Luglio la sua levata eliaca, in pratica il momento in cui l'astro sorge poco prima del Sole. In quel periodo avvenivano, ed avvengono tuttora, le benefiche e preziose inondazioni del Nilo il cui limo, ricco di minerali e humus, fertilizzava i terreni dell'Egitto, garantendo raccolti abbondanti nei campi. Ma gli Egiziani, non sapendo distinguere un legame di causa ed effetto da una semplice coincidenza temporale, pensavano che il sorgere di Sirio (Sothis) provocasse le tanto auspicate inondazioni, ed i loro sacerdoti, gli unici depositari delle conoscenze dell'epoca, parlavano di: "Sothis, il creatore di tutte le cose verdi che crescono".

    Anche l'adozione degli anni bisestili deriva dalle osservazioni di Sirio da parte degli antichi astronomi, i quali scoprirono che l'intervallo tra una levata eliaca e l'altra non è precisamente di 365 giorni, bensì di 365 giorni e 6 ore; scoperta che permise di correggere il calendario con la riforma che Giulio Cesare decretò nel 45 avanti Cristo. Oggi, grazie alla fisica nucleare e ad una migliore comprensione della dinamica stellare, sappiamo che Sirio è una stella di colore bianco con una temperatura superficiale di 8.000 - 10.000 gradi centigradi ed una magnitudine pari a - 1,4; mentre il Sole arriva ad una magnitudine di -26,9.

    La magnitudine misura la luminosità di una stella, e ad un basso valore numerico corrisponde un'elevata brillantezza dell'oggetto celeste. Nell'Ottocento le osservazioni di Sirio misero a dura prova i nervi degli astronomi, i quali erano notevolmente seccati dal fatto che la stella non stava ferma nel cielo, ma vibrava impedendo così di ottenere delle buone osservazioni. Queste vibrazioni consentirono nel 1844 al matematico tedesco Friedrich Wilhelm Bessel di ipotizzare la presenza di una stella compagna molto pesante che, oltre a ruotargli intorno, causava quelle seccanti perturbazioni.



    <
    Sirio A - Sirio B



    Quest'ipotesi fu brillantemente confermata da Alvan G. Clark, che la notte del 31 Gennaio 1862, mentre provava un nuovo obiettivo ottico costruito dal padre, riuscì a scorgere nelle vicinanze di Sirio una debolissima stella, diecimila volte meno luminosa. Negli anni seguenti un'attenta osservazione di Sirio B permise di scoprire che il suo periodo di rotazione intorno a Sirio A è di 50 anni, con masse rispettivamente di 0,9 e 2,3 masse solari.




    Periodo di rotazione di Sirio B intorno a Sirio A



    Ma c'era un grosso problema legato a Sirio B: una stima della temperatura superficiale dava un valore paragonabile a quella di Sirio A; quindi molto meno luminosa ma altrettanto calda. Come poteva Sirio B, con una massa molto più piccola, essere caldo quanto Sirio A? All'epoca l'enigma sembrava insolubile, mentre oggi sappiamo che Sirio B ha una massa spaventosamente densa: un milione di volte la densità dell'acqua.

    Nonostante questa elevata compressione la materia si trova allo stato gassoso, mentre ad alte pressioni la materia normale tende a solidificare. Un gas così compresso, denominato "degenere" o "superdenso", è estremamente resistente ad un'ulteriore compressione, perchè esercita esso stesso una fortissima pressione verso l'esterno: ed è questa enorme pressione ad impedire il collasso gravitazionale di Sirio B. La stella non può più subire un'ulteriore compressione, necessaria ad innescare il violento ciclo di fusione nucleare al suo interno: quindi è destinata a splendere solo a spese della sua energia interna, andando incontro ad una lenta ma inesorabile morte termica.

    Le stelle composte di questa materia "degenere" sono chiamate "nane bianche", e Sirio B è stata la prima nana bianca ad essere scoperta dagli astronomi. Dopo questa lunga premessa entrano in scena i Dogon, una tribù che vive a Mandiagara dal 3.200 A.C., 300 Km a sud di Timbuctu, nella regione africana del Mali, la cui cosmologia ricca di conoscenze astronomiche "moderne" lasciò sbigottiti i primi antropologi, Marcel Griaule e Germane Dieterlen, che li studiarono dal 1931 fino al 1952.




    La regione africana del Mali



    Dopo una speciale riunione religiosa, quattro dei loro massimi sacerdoti presero la "decisione politica" di svelare i segreti di Sirio ai due estranei, segreti che vengono tramandati oralmente di generazione in generazione dalla notte dei tempi, in quanto i Dogon non hanno mai sviluppato un linguaggio scritto.

    Per essi la stella più importante È la minuscola ed invisibile Sirio B, che chiamano "po tolo" (stella po); dove con il termine "po" viene indicato il seme del cereale che in Africa viene denominato "fonio" ed il cui nome botanico ufficiale È "digitaria exilis". Il chicco po, sconosciuto in Europa ed America, per i Dogon rappresenta il seme più piccolo conosciuto, quindi risulta naturale per loro utilizzare lo stesso nome per indicare la stella più piccola nel cielo.

    I Dogon, agli ormai stupefatti antropologi, disegnarono accuratamente l'orbita di po tolo intorno a Sirio A: non un'orbita circolare come sarebbe naturale pensare, ma un ellisse, di cui Sirio A occupa uno dei fuochi, spiegandogli anche che po tolo impiega 50 anni per percorrere la sua orbita. Come mai i Dogon non collocarono Sirio A al centro dell'ellisse, o in un altro punto qualsiasi? Perché lo piazzarono in uno dei due fuochi, dimostrando di essere in possesso di cognizioni astronomiche assolutamente inconcepibili per una popolazione primitiva e sprovvista di una preparazione scientifica adeguata, cognizioni che noi occidentali abbiamo imparato faticosamente sui banchi di scuola, studiando le leggi del moto planetario enunciate da Giovanni Keplero?




    Rappresentazione della 2a Legge di Giovanni Keplero



    Questi "primitivi" sapevano che la Terra ruota sul proprio asse, generando un apparente movimento delle stelle da est ad ovest, pertanto erano liberi dalle illusioni dei nostri avi europei, i quali credevano che il cielo e le stelle girassero intorno alla Terra. Lo stupore dei due antropologi raggiunse il massimo quando i sacerdoti Dogon dissero che tutte le loro conoscenze astronomiche gli erano state trasmesse dal "Nommo", un essere anfibio proveniente da Sirio, il quale arrivò sulla Terra a bordo della sua nave spaziale atterrando in una nuvola di fuoco e fiamme, per il bene dell'umanità.

    Quando ebbe finito la sua opera di civilizzazione il Nommo suddivise il suo corpo fra gli uomini affinchè se ne cibassero, fece bere il suo sangue, e donò tutti i suoi principi vitali. Subì anche il sacrificio della crocifissione ad un albero, necessario per poter purificare la Terra. Morì e resuscitò, promettendo di ritornare in futuro.




    Rappresentazione del Nommo (Oannes)



    Nella figura si vede a sinistra il Nommo (Oannes) che indossa un un copricapo a forma di pesce, forse una rozza rappresentazione di un "essere" con tuta spaziale? Mentre a destra si vede un oggetto che galleggia sull'acqua, che potrebbe essere una rappresentazione della nave spaziale con la quale il Nommo arrivo sulla Terra.

    Confrontando il copricapo a forma di pesce del Dio Oannes e l'attuale copricapo papale si è portati a concludere che la religione mitraica attinse a queste antiche conoscenze di "Dei tecnologici" che venivano dalle Stelle, utilizzando infatti lo stesso copricapo che verrà successivamente nel corso dei secoli "inglobato" all’interno della tradizione cattolica con l’attuale "Mitra" cristiana.




    Confronto tra il copricapo del Dio Oannes e l'attuale Mitra papale,
    indossato da Giovanni (Oannes) Paolo I



    E' soltanto una coincidenza che molti Papi della Chiesa Romana hanno scelto il nome "Oannes" (Giovanni), oppure è un'ulteriore tassello che avvalora l'ipotesi di "Dei tecnologici" che arrivarono con le loro navi spaziali sulla Terra in tempi remoti?

    A questo punto mi assale un dubbio atroce: se il bagaglio culturale dei Dogon risale al 3.200 A.C., quindi ben 1.200 anni prima della nascita di Cristo, non potrebbe essere che ... ... ...

    Qui mi fermo lasciando ai lettori l'ardua risposta.


    Giovanni Zavarelli
    "Non posso lasciarti né obliarti: / il mondo perderebbe i colori / ammutolirebbero per sempre nel buio della notte / le canzoni pazze, le favole pazze". (V. Solov'ev)

  9. #9
    Ritorno a Strapaese
    Data Registrazione
    21 May 2009
    Messaggi
    4,756
     Likes dati
    0
     Like avuti
    33
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: I Dogon, i nommo e il dio pesce Oannes

    Oannes, Odakon e la conoscenza dei Dogon
    Oannes, Odakon e la conoscenza dei Dogon

    Diceva di chiamarsi Oannes. Secondo la mitologia d'Oriente, era comparso dal Mare Eritreo ed era un animale dotato di raziocinio; tutto il suo corpo era come quello di un pesce; aveva sotto la testa di pesce un’altra testa, e dei piedi umani, aggiunti alla coda di pesce. Anche la sua voce ed il linguaggio erano umani e articolati. Oannes rimase fra gli uomini senza mangiare, insegnò a loro, che erano ancora molto primitivi, le lettere, le scienze, le arti e le tecniche, compresa l'agricoltura. Ogni sera rientrava nel mare e rimaneva in acqua, perchè era anfibio; scrisse anche un libro sull’origine delle cose e sul vivere civile. Dopo di lui apparvero altri esseri, simili a lui, chiamati APKALLUS.
    Sul nome Oannes si sono fatte molte ipotesi: lo si é collegato col dio marino Ea (Ea-khan = Ea il pesce), o addirittura con Joannes, Giovanni Battista, o Joanas, Giona. Chi o cosa era veramente il misterioso essere. una creatura fantastica e leggendaria cui attribuire l’improvvisa evoluzione della società umana, o, come affermano molti ufologi, un visitatore spaziale in missione sulla Terra? Di quest’ultima idea è lo studioso tedesco Ulrich Dopatka, che non fatica a vedere nel "corpo di pesce" il ricordo deformato di una tuta spaziale anfibia. "Oannes", racconta Dopatka, "è un nome che in siriano antico significa "lo straniero". Il primo a parlare di Oannes è il patriarca biblico Enoch, "rapito in cielo da un vento impetuoso e portato in una Grande Casa di cristallo, alla presenza dei Figli dei Santi", gli Osannes o Osannini. Ecco come è descritto quello straordinario incontro antidiluviano, nella versione etiope del "Libro di Enoch" (II-I sec. a.C.). "I loro abiti erano bianchi e i loro volti trasparenti come cristallo", scrive Enoch. "Essi mi dissero che l’universo è abitato e ricco di pianeti, sorvegliati da angeli detti Veglianti o Vigilanti; e mi fecero vedere i Capitani e i Capi degli Ordini delle Stelle. Mi indicarono duecento angeli che hanno autorità sulle stelle e sui servizi del cielo; essi volano con le loro ali e vanno intorno ai pianeti". Dai misteriosi "Figli dei Santi" Enoch apprende che lo spazio è controllato da due specie di angeli. I primi sono creature tipicamente bibliche, esseri di luce superiori all’uomo per natura e per saggezza, in diretto contatto con l’Altissimo; sono chiamati Cherubini, Serafini e Osannini e sono soliti fornire messaggi rapendo in cielo le persone o, come precisa una versione slava del Libro, "penetrando in camera da letto". I secondi, detti Veglianti o Vigilanti, sono una razza decaduta che il "Libro di Enoch" definisce "un tempo santi, puri spiriti, viventi di vita eterna, contaminatisi con il sangue delle donne", padri di una stirpe di "giganti, esseri perversi chiamati spiriti maligni", sterminati dal diluvio. Anche in America i maya adoravano un essere anfibio che chiamavano "Uaana" che significa "colui che risiede nell'acqua". Si noti che personaggi mitici hanno nomi simili in civiltà che non sono mai venute a contatto tra loro. Anche i Filistei adoravano una creatura anfibia chiamata Dagon (o Odakon) che veniva raffigurata, assieme alla sua compagna Atargatis, con coda di pesce e corpo umano.

    Dagon appartiene alla stessa radice linguistica di "Dogon", nome di una tribù del Mali che adora il Nommo, un essere superiore dal corpo di pesce, propiziatore di tutta la loro cultura, che tornò tra le nuvole all'interno di un "uovo rovente". A Rodi, infine, troviamo i Telchini, divinità anfibie dotate di poteri magici, che Zeus scacciò dall'isola perché avevano osato "mutare" il clima. I Dogon sono una popolazione africana stanziata sull'altopiano di Bandiagara nella repubblica del Mali. Questa popolazione entrò in contatto col mondo occidentale dopo il 1920 e nel 1931 gli antropologi francesi Marcel Griaule e Germaine Dieterlen vi si stabilirono per diversi anni a studiarne la cultura e le tradizioni. Fu il vecchio sciamano Ogo Temmeli a rivelare a Griaule il sapere e la cosmogonia Dogon. Essi parlavano dei Nommo, creature anfibie civilizzatrici provenienti da Sirio, e mostrarono di possedere precise nozioni riguardo alla stella Sirio. Nel 1950, G. Dieterlen pubblicò i risultati dei suoi studi nel libro "Le Renarde Pale", ma bisogna aspettare fino al 1997 per vedere confermata nella mitologia Dogon una incredibile conoscenza astronomica. Innanzitutto, i Dogon erano a conoscenza del fatto che Sirio è un sistema multiplo, con Sirio A, Sirio B e Sirio C. Dimostrarono di sapere che Sirio B ruota attorno a Sirio A, la stella principale, con un'orbita ellittica e con un periodo di 50 anni. Inoltre, cosa più sconcertante, conoscevano l'esatta posizione di Sirio A all'interno dell'ellisse formato dalla rotazione di Sirio B attorno alla stella principale. Sirio B era chiamata "Po Tolo"; "Tolo" significa stella mentre "Po" è il nome di un cereale che ha la caratteristica di essere pesante nonostante le piccole dimensioni. Sirio B è infatti una nana bianca con una densità molto elevata, i Dogon sostenevano che essa era composta da una sostanza "più pesante di tutto il ferro della terra". Ogo Temmeli rivelò anche che una seconda compagna di Sirio A accompagnava "Po Tolo", e il suo nome era "Emmeia", era quattro volte più leggera di "Po Tolo" ed orbitava attorno a Sirio A con un periodo di 6 anni. Il sistema di Sirio era quindi un sistema ternario. Sirio B, la piccola nana bianca fu vista e fotografata solo nel 1970 mentre Sirio C è stata rilevata attraverso calcoli matematici dalla perturbazione delle orbite delle altre due stelle in quanto Sirio C è probabilmente una nana rossa di magnitudine 15, cioè migliaia di volte meno luminosa di Sirio A. Quindi, un popolo tribale era a conoscenza da millenni di cose che solo ora stiamo scoprendo straordinariamente esatte.

    La conoscenza dei Dogon non era limitata solo a Sirio. Ogo Temmeli disegnava il pianeta Saturno all'interno di un cerchio più grande (gli anelli), e sapeva che Giove ha attorno a sé "quattro compagne" principali (le lune galileiane), raffiguravano la terra come una sfera, e ne conoscevano il principio di rotazione, sul proprio asse e assieme agli altri pianeti, sapevano che la Luna è "morta e disseccata", che l'Universo "è un'infinità di stelle e di vita intelligente" e che la Via Lattea, la nostra Galassia, ha un movimento a spirale cui partecipa anche il nostro Sole. Tutto ciò oggi può apparire scontato, ma è del tutto incredibile se si considera che solo alcuni secoli fa per noi occidentali la terra era piatta, e i Dogon conoscevano già nel 1931 dettagli strutturali del sistema di Sirio che solo recentemente abbiamo acquisito, ma che i Dogon si erano tramandati dall'inizio dei tempi, in forma simbolica e mitizzata. Da dove proveniva tutta questa conoscenza? Sappiamo che molti popoli antichi potevano ricavare profonde conoscenze astronomiche da osservazioni fatte ad occhio nudo. Ma Sirio B non è visibile ad occhio nudo, e meno ancora lo è Sirio C. Si potrebbe quindi ipotizzare che tutte queste nozioni sono la reminescenza culturale di un contatto avvenuto anticamente tra gli antenati dei Dogon e una civiltà extraterrestre da cui è derivato il Nommo. Questi Nommo sarebbero esseri semidivini, per metà uomini e metà pesci che scesero dal cielo a bordo di una grande arca circolare, e che avevano bisogno di acqua per sopravvivere. Inoltre, i Dogon facevano distinzione tra l'oggetto che atterrò sulla terra e un'altra arca, che rimase invece in cielo e che è facile interpretare come una astronave-madre. Secondo la tradizione Dogon questi esseri, una volta discesi dal loro veicolo volante, avrebbero cercato per prima cosa dell'acqua per potersi immergere.

    L'incontro con i Nommo non sarebbe però avvenuto nel deserto dove ora i Dogon risiedono; sembra che questi sono i discendenti di un popolo di origine mediterranea, i Garamanti, e che siano giunti sull'altopiano di Bandiagara tra il 1200 e il 1500 d.C. Nell'antichità i Dogon furono in contatto con le culture dell'Egitto e della Mesopotamia, e forse fu proprio qui che i Dogon appresero le loro sorprendenti conoscenze astronomiche. Infatti in Mesopotamia è possibile trovare miti con semidei di natura anfibia, gli Oannes. Si può quindi immaginare, circa 5.000 anni fa, lo sbarco di esseri provenienti dal sistema di Sirio, in una vasta area compresa tra l'Egitto e il Medio Oriente. In questa zona, ricca di fiumi e di paludi, gli esseri anfibi trovarono un ambiente confortevole, e adatto al loro insediamento. L'inevitabile contatto con gli indigeni portò ad uno scambio "culturale" tra i due mondi e all'acquisizione, da parte dei Sumeri e degli Egiziani di conoscenze astronomiche e tecnologiche altrimenti inesplicabili.
    "Non posso lasciarti né obliarti: / il mondo perderebbe i colori / ammutolirebbero per sempre nel buio della notte / le canzoni pazze, le favole pazze". (V. Solov'ev)

  10. #10
    Sognatrice
    Data Registrazione
    05 Mar 2002
    Località
    Piacenza
    Messaggi
    11,135
     Likes dati
    191
     Like avuti
    775
    Mentioned
    20 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: Il popolo Dogon

    Marco Aime

    IL MISTICO TEATRO DEI DOGON





    La pubblicazione, nel 1948, di Dio d'acqua dell'antropologo Marcel Griaule ha inconsapevolmente avuto una ricaduta sul piano turistico, contribuendo in modo determinante alla creazione di una certa immagine dei Dogon. È venuto cosi a formarsi un triangolo Dogon-Griaule-turisti che ha dato vita a un complesso gioco di specchi, assumendo talvolta toni metaforici rispetto alla storia stessa dell'incontro tra due culture.

    A cinquant'anni dalla pubblicazione di quel libro, ancora oggi permane una certa "griaulizzazione" dei Dogon. Visitatori e appassionati, che li guardano attraverso la lente di quelle letture etnografiche, continuano a vedere nei villaggi aggrappati alla falaise un mondo fatto di simboli cosmici, di misteriose astronomie, di gente che trascorre il tempo a riordinare l'universo secondo mappe ancestrali armoniche e virtuose. Griaule ha ritratto una popolazione di filosofi che sembrano non compiere alcun gesto senza fare riferimento alla complessa cosmologia che domina il loro mondo.

    Ad attrarre il turista è proprio questa immagine di popolo mistico, ricco di segreti e di pratiche esoteriche. I Dogon, in particolare quelli che operano a stretto contatto con i turisti, sembrano aver capito che cosa ci si aspetta da loro e, naturalmente, mettono il più possibile in evidenza questi aspetti. Sfogliando i cataloghi di viaggi, nelle pagine dedicate ai Dogon, si ricava l'idea che si tratti di un'etnia intatta e isolata, che ha conservato immutate le sue tradizioni ancestrali. Ma è proprio vero? Se i Dogon sono isolati, si dovrebbero considerare tali la maggior parte delle popolazioni africane. Ma l'idea dell'isolamento è relativa, e presuppone l'esistenza di un centro dal quale essere lontani. E questo è il punto. Lontani da dove? E da cosa? Forse dall'aeroporto di Bamako, luogo di arrivo dei turisti.

    Solo adottando una prospettiva egocentrica la regione dogon appare lontana da noi, ma in realtà è incastrata in mezzo ad altre regioni, abitate da gruppi diversi, con i quali i Dogon intrattengono da tempo scambi regolari. Come tutte le popolazioni del Sahel, infatti, commerciano con i gruppi circostanti, e inoltre vivono in un'area che da molto tempo subisce, in modo più o meno forte, l'influenza dell'Islam. Molti di loro hanno fatto parte di reparti di fanteria dell'esercito francese nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale, e hanno combattuto in Europa.

    Chi sceglie di recarsi in Mali (e non sono in molti), non è quasi mai un turista alle prime armi ma un viaggiatore esperto, che nel viaggio non cerca solo un momento di svago, ma un'occasione di approfondimento e di conoscenza. La scelta del paese dogon, come quella di ogni meta turistica, avviene anche sulla base di un piacere intenso, che nasce dalla fantasia e dal sogno. Questo piacere è in parte indotto e in parte soddisfatto da cataloghi di viaggio, guide e riviste turistiche. Non che queste inventino Dogon da cartolina. Semplicemente, continuano a riproporre, accentuandone la portata con enfasi pubblicitaria, l'immagine tracciata da Griaule e dai suoi discepoli, privilegiando l'aspetto simbolico della società.

    I Dogon insomma piacciono per come sono stati dipinti nell'affascinante affresco griauliano, non per come sono realmente. Le guide lo sanno, ed è proprio questa dimensione che offrono al turista. Molte di loro hanno letto Dio d'acqua e narrano ai visitatori ciò che Griaule ha scritto dei Dogon. I turisti vedono così appagata la loro ricerca di autenticità. "Autentico" sembra dover coincidere con immutabile, a dispetto dei diversi e profondi mutamenti che attraversano questa terra: l'avanzata dell'Islam, l'azione delle organizzazioni non governative che operano sul posto, l'introduzione di colture commerciali come le cipolle.






    Nella stagione turistica, a Sanga, quasi tutti i giorni si tengono danze a pagamento per i gruppi di visitatori. Un tempo era il grande baobab, che cresce sulla spianata tra i due Ogol, a segnare il centro dell'abitato. Oggi le danze si svolgono sotto il fromager, davanti all'ufficio postale, all'ombra dell'alto traliccio del telefono che domina lo spiazzo. I turisti vengono fatti sedere su due panche in mezzo al piazzale. Le maschere sbucano da dietro l'ufficio postale e si schierano di fronte ai turisti, poi, ai primi colpi di tamburo, si lanciano nella danza. In tutto sono una dozzina di giovani, che si esibiscono indossando i costumi tradizionali, e le maschere che impiegano sono le stesse che utilizzano nelle danze rituali. Solo la durata è diversa: a differenza di quelle originarie, che proseguono per ore, quelle per turisti sono più brevi, e non superano la mezz'ora.

    Inoltre, dagli anni Ottanta questi danzatori fanno parte della Troupe Nationale du Folklore del Mali, e partono spesso per tournée in Europa e negli Stati Uniti. I turisti seduti li davanti sanno benissimo, in fondo, che le danze che stanno osservando non sono rituali e forse non riuscirebbero neppure a capire i significati autentici e gli aspetti più profondi di quelle originarie. Le danze tradizionali sono "etniche", queste sono teatrali. Qui non vige neppure più il tradizionale divieto per le donne di assistervi: le turiste sono tranquillamente ammesse (va detto però che senza la presenza dei turisti, i giovani avrebbero abbandonato del tutto i villaggi e le danze sarebbero andate irrimediabilmente perdute. È quindi il caso di riflettere sulle contraddizioni del turismo).

    Alla fine i danzatori si schierano davanti alle panchine degli spettatori in due file, una in piedi, l'altra accovacciata, come una squadra di calcio, per essere fotografati. Poi uno a uno avanzano per le foto individuali, mentre una guida spiega il significato di ogni maschera. Una scena che ricorda, ancora una volta, la metafora dell'incontro turistico tra culture, schierate una di fronte all'altra, nel tentativo, nessuno saprà mai quanto fruttuoso, di comprendersi.



 

 
Pagina 1 di 2 12 UltimaUltima

Discussioni Simili

  1. Il popolo Dogon
    Di Tomás de Torquemada nel forum Esoterismo e Tradizione
    Risposte: 18
    Ultimo Messaggio: 02-11-08, 00:18
  2. Risposte: 16
    Ultimo Messaggio: 28-10-08, 20:01
  3. Risposte: 6
    Ultimo Messaggio: 02-08-08, 12:04
  4. Risposte: 0
    Ultimo Messaggio: 13-10-06, 17:35

Tag per Questa Discussione

Permessi di Scrittura

  • Tu non puoi inviare nuove discussioni
  • Tu non puoi inviare risposte
  • Tu non puoi inviare allegati
  • Tu non puoi modificare i tuoi messaggi
  •  
[Rilevato AdBlock]

Per accedere ai contenuti di questo Forum con AdBlock attivato
devi registrarti gratuitamente ed eseguire il login al Forum.

Per registrarti, disattiva temporaneamente l'AdBlock e dopo aver
fatto il login potrai riattivarlo senza problemi.

Se non ti interessa registrarti, puoi sempre accedere ai contenuti disattivando AdBlock per questo sito