Analisi egoistica della disuguaglianza ? Il blog di Alberto Bagnai

Analisi egoistica della disuguaglianza

La disuguaglianza va di moda, soprattutto dalle mie parti. Negli ambienti piddini si porta molto Piketty, uno che dice che la disuguaglianza è causata da quello che succede all’1% dei più ricchi, e quindi la si risolve col rude ma efficace metodo di Robin Hood: “rubare ai ricchi per dare ai poveri”. Certo, considerando che oggi i ricchi veri i soldi li hanno altrove, e che nella definizione di “capitale” di Piketty entrano anche le case di abitazione, questa prescrizione di politica economica temo si tradurrebbe in un più prosaico e al passo coi tempi (anche se comunicativamente meno efficace): “mettere un’ulteriore imposta sul patrimonio immobiliare della classe media per dare alle banche”.
Nel mio ultimo libro affronto il tema della disuguaglianza in un’ottica un po’ diversa: anziché occuparmi della punta dell’iceberg (l’1% dei ricchissimi), mi occupo di quelli come me e forse come voi, il restante 99%. In teoria, in democrazia contiamo più noi, e poi “prima caritas incipit ab ego”.
Le domande alle quali ho cercato di rispondere (ci sto ancora lavorando, ho ancora molto da studiare, e per questo ve ne parlo) sono sostanzialmente due: perché è aumentata la disuguaglianza? E il suo aumento che conseguenze ha avuto sulla nostra vita?
Due rapidissime premesse, per indicarvi le cose delle quali non vorrei parlare.
Primo: in democrazia dovremmo avere uguali diritti e uguali opportunità (per averli sul serio dobbiamo lottare). Però le differenze individuali esistono, esiste il caso, esistono gli errori, e quindi è naturale che si debba convivere con una disuguaglianza di risultati (anche economici), che se da una parte non dovrebbe diventare lo sterminio di chiunque non sia eccellente (ci vuole un po’ di umanità), dall’altra non dovrebbe eccitare il desiderio di rivalsa su chiunque sia sopra la media.
Secondo: le nostre economie fino a qualche tempo fa crescevano, e quindi l’aumento della disuguaglianza non veniva percepito, perché anche chi stava sempre peggio in termini relativi, stava però un po’ meglio in termini assoluti. Da quando abbiamo cominciato a decrescere (dal 2009) il peggioramento si è avuto anche in termini assoluti, e abbiamo cominciato a percepirla, la disuguaglianza. Ma c’era anche prima, con conseguenze delle quali vorrei parlarvi.
Prendo ad esempio gli Stati Uniti, paese molto diverso da noi come cultura e istituzioni (e infatti non si capisce perché gli europeisti continuino a proporcelo come modello), ma accomunato dal fatto di essere un’economia capitalistica (e infatti nel libro faccio vedere che il resto del mondo occidentale ha seguito lo stesso percorso). L’indice di disuguaglianza degli Stati Uniti è questo:
















Che storia vediamo nel grafico? Che dal 1947 fino agli anni ’70 la disuguaglianza era stabile o in lieve crescita. Dagli anni ’70 decolla (statisticamente è difficile dire in quale anno ciò accada, non esistono metodi sufficientemente precisi), mettendosi su una tendenza crescente che non conosce né destra (repubblicani), né sinistra (democratici).

Da cosa dipenderà questa tendenza? Secondo me (e non solo me, come al solito non sono né voglio essere originale, ma solo evangelista), dipende da questo:

















Cos’è? È il grafico dell’andamento di produttività del lavoro (in blu) e salari reali (in rosso) negli Stati Uniti, dalla fine del XIX secolo ad oggi. Si vede bene che le due serie vanno insieme, e si scollano proprio negli anni ’70, quando la disuguaglianza comincia ad aumentare. L’aumento della produttività è impressionante, ma ce lo spieghiamo bene con l’enorme progresso tecnologico del quale tutti siamo fruitori. È impressionante anche il fatto che negli ultimi 30 anni il potere di acquisto distribuito ai lavoratori sia andato diminuendo. Ora, se in un mondo che produce più ricchezza i lavoratori (che già sono meno abbienti dei “capitalisti”) guadagnano sempre di meno, è chiaro che la forbice fra ricchi e poveri si allarga. Sono quindi sempre più gli economisti che vedono nella stagnazione dei redditi da lavoro il vero motore dell’aumento della disuguaglianza. Uno è Joe Brada, e se ve la cavate con l’inglese potrebbe interessarvi questo.

Tecnicamente il secondo grafico grida vendetta nel cospetto di Dio. Voi direte: “Eh, quanta enfasi, per un grafico di economia”! Sì, ma io non parlavo di economia. Parlavo di teologia. Fraudare la mercede agli operai è un peccato che grida vendetta nel cospetto di Dio (vedetevi la 966° domanda del Catechismo Maggiore), e qualsiasi testo di economia vi dirà che la giusta mercede di un fattore produttivo è commisurata alla sua produttività (vi risparmio i tecnicismi). Diciamo che il decollo della disuguaglianza a partire dagli anni ’70 riflette un capitalismo che per qualche motivo smette di funzionare secondo i propri principi dichiarati, non remunerando più i fattori in proporzione alla propria produttività. Se interessa, smette anche di funzionare secondo principi cristiani (dichiarati pure loro).
Non mi soffermo sulle cause di questo squilibrio (discorso lungo e complesso), ma vorrei chiudere evidenziandovi due banali conseguenze di esso.
La prima è che se i lavoratori producono sempre di più, ma guadagnano lo stesso, evidentemente per potersi permettere di acquistare quello che producono dovrannoacquistare a credito (cioè fare debiti). Guarda caso, l’aumento della disuguaglianza coincide col decollo dei debiti (negli Stati Uniti, e poi anche da noi). Senza debiti il capitalismo si sarebbe inceppato, perché in un’economia di mercato si produce per vendere. Per tirare avanti senza distribuire reddito ai lavoratori il capitalismo si è finanziarizzato, il che, in buona sostanza, significa che è passato da una concezione nella quale il dipendente è anche un cliente (tuo o di altri), a una più “moderna”, nella quale il dipendente diventa un debitore (per poter essere cliente). Questo capitalismo è intrinsecamente instabile: alla fine i debiti qualcuno deve pagarli, o non pagarli, e in ogni caso son dolori, perché quando la piramide di carta crolla, inizia la crisi di domanda (nessuno compra più niente, i negozi e le aziende chiudono).
La seconda considerazione è egoistica. Io sono classe media. Un mondo nel quale chi è ricco diventa sempre più ricco e porta i soldi alle Cayman, e chi è povero diventa sempre più povero ed entra nell’Inferno degli incapienti, è un mondo nel quale le tasse le pagherò solo io e quelli come me. E siccome siamo sempre di meno (perché se pochi stanno diventano ricchissimi, moltissimi stanno diventando poveri), noi classe media ci troveremo a dover sostenere un carico fiscale sempre maggiore. Sintesi: un mondo più disuguale è anche un mondo nel quale il fisco è costretto ad accanirsi sulla classe media (con l’avallo teorico di Piketty, per il quale chi ha una casa è un capitalista). Per chi come me ha la (s)ventura di appartenere alla classe media, combattere la disuguaglianza quindi non è un fatto sentimentale: è l’esito scontato di un’analisirazionale ed egoistica delle dinamiche in atto.
Concludo. Su una cosa penso che possiamo essere d’accordo con il non nostro amico Giannino (quello del master). Lo Stato (in Italia e altrove) è diventato ladro. Sul perché lo sia diventato, però, c’è da ragionare con molta attenzione. Lasciando alle macchiette i ragionamenti macchiettistici, è chiaro a tutti come per uscire dalla nostra crisi sia necessario definire un nuovo patto sociale. I due grafici che vi ho mostrato oggi credo diano materiale di riflessione in questo senso.