Alberto Bertotto
Il pensiero filosofico di Friedrich Nietzsche ha rappresentato per decenni il bisogno di un rinnovamento, di una ricerca di modelli teorici e di una rinascita della civiltà europea che doveva affrontare e debellare lo squallido nichilismo nel quale la società si era smarrita. L’interpretazione dannunziana del pensiero del filosofo tedesco è volta proprio a questo: ricercare quegli ideali che il nuovo corso materialistico e democratico della politica aveva distrutto. Il Nietzsche era diventato così il filosofo della crisi, il fondatore d’un diverso modo di pensare e di vedere le cose. Uno dei concetti più stimolanti, ma nel contempo di più difficile interpretazione, è proprio quello del cosiddetto superuomo nicciano. Il Nietzsche non ha, infatti, mai specificato chi o cosa debba essere il suo superuomo. I critici si sono divisi in diverse correnti di pensiero che hanno risentito delle loro differenti appartenenze ideologiche. Il superuomo può essere interpretato o come una ricerca di libertà e di creatività in un mondo eccessivamente conservatore e recalcitrante, o come il tentativo forte ed autoritario di emergere da una realtà resa caotica dal progressismo, il figlio degenere del “dogma del 1889” (il dogma darwiniano dell’evoluzione biologica della specie). Gabriele D’Annunzio è stato profondamente influenzato da questo secondo tipo d’interpretazione. Ha dato molto rilievo al rifiuto del conformismo borghese (“La democrazia moderna è la forma storica del decadimento dello Stato”) e dei principi egualitari (“Mi sento spinto a ristabilire l’ordine gerarchico nel secolo del suffragio universale, cioè nel secolo in cui ognuno pensa di credere di avere il diritto di giudicare tutto e tutti”), all’esaltazione dello spirito “dionisiaco”, al vitalismo svincolato dagli schematismi imposti dalla morale comune (“Dove la moralità è troppo forte l’intelletto perisce”), al rifiuto dell’etica della pietà e dell’altruismo, all’esaltazione dello spirito di lotta (“Il terribile fa parte della grandezza checché si dica il contrario”) e dell’affermazione di se esperita anche attraverso la morte (“Amo colui che vuol creare qualcosa al di sopra di se, e così facendo perisce”). Queste idee, rispetto al pensiero originale del Nietzsche, assumono un carattere ancor più decisamente aristocratico ed imperativo. Ma il superuomo dannunziano è anche un esteta. L’estetismo è infatti fondamentale per l’elevazione della stirpe perché si trasforma in un senso di nicciana “volontà di potenza”. In realtà il concetto di “Ubermensch” corrisponde piuttosto ad un “oltre-uomo”, cioè ad un uomo che va oltre i limiti posti dalla tradizionale metafisica. Questo “Ubermensch”, secondo Nietzsche, dopo aver abbandonato ogni fede e ogni desiderio di certezza, si regge “sulle corde leggere di tutte le possibilità”. Non subisce i valori tradizionali, bensì ne crea di nuovi. Il “superuomo” nicciano è un uomo senza Patria, né meta che ama la ricchezza, la transitorietà del mondo, il gesto nobile, il successo incondizionato e l’arbitrio più irresponsabile.Il D’Annunzio, un cantore dell’individuo e della sua unicità, auspicava l’avvento di una classe di superuomini che avesse il coraggio e la volontà di guidare una nuova Italia. Questi superuomini andavano ricercati tra gli intellettuali. Egli si sforza, perciò, di proporre una visione aggiornata del pensatore: non più solo esteta, ma anche uomo d’azione, non più isolato baluardo contro l’ignoranza, ma bensì protagonista voglioso di lanciarsi in una tenzone che deve cambiare l’attualità, modellandola sui principi della bellezza, della forza e dell’eroismo estetizzante. Nel D’Annunzio la teoria del superuomo, anche se eccessivamente esaltata, è in ogni modo sincera e sentita perché è reale la sua ammirazione per l’audacia e per la celebrazione dei condottieri quali “facitori della storia”. Egli, infatti, dimostra, durante le azioni di guerra, di sapersi perfettamente trasformare da poeta-vate in poeta-soldato come attesta l’amore per le tradizioni storiche trasposte in tanta parte dell’opera poetica da lui redatta.
In questo caso il poeta raggiunge, nella sublimazione dell’arte, la suprema spiritualità della poesia. Forse può nuocere un eccesso di magnificenza formale, ma le sue liriche sono spesso efficaci e suggestive ed il linguaggio è sempre duttile ed armonioso. In questa trasformazione istintiva, per la sua natura ambigua, può toccare vertici di poesia straordinaria, ma anche di indubbio “cattivo gusto”.Respingendo lo spirito democratico, il poeta vaticinava una società guidata da un governo gerarchico ed assolutista, un governo dei “migliori”, che avesse il potere di contrastare l’ “arroganza delle plebi”. L’aristocrazia aveva l’obbligo di riconquistare il suo antico predominio in campo sociale: il diritto del sangue, ereditato dagli avi, la borghesia incallita non lo potrà di certo mai avere. L’aristocrazia avrebbe guidato Roma verso una potenza imperiale, insediandola di nuovo in vetta al mondo. Grazie alla loro sensibilità, sono i poeti e gli intellettuali quelli che devono collocare questa aristocrazia al vertice dello Stato. E gli intellettuali, non più bloccati dal rimpianto del passato, come predicato dalla corrente letteraria decadente, si sarebbero trasformati in uomini combattivi che usano la poetica come arma micidiale per distruggere la società borghese, democratica e liberale. Il D’Annunzio sa, però, che il tempo del riscatto è ancora lontano: al momento si propone tre compiti: inculcare, prima di tutto in se stesso e poi nella collettività, i caratteri della stirpe latina, trasmettere le ricchezze ereditarie ideali al popolo e fare della propria vita un’opera d’arte. Il superuomo sarà, perciò, colui che guiderà la latinità affinché essa raggiunga il culmine apicale delle sue potenzialità. Questo passaggio può essere considerato il vero e proprio manifesto politico del superuomo dannunziano.Più in generale si può affermare che le opere superomistiche del D’Annunzio sono tutte una denuncia dei limiti borghesi del nuovo Stato unitario e dei suoi principi democratici ed egualitari, del parlamentarismo e dello spirito affaristico e speculativo che contamina il senso della bellezza e il gusto dell’azione diretta. Il D’Annunzio arriva perciò ad auspicare l’affermazione di una nuova classe dirigente elitaria e nobiliare che si deve elevare sovrastando la massa, che comandi il Paese attraverso il culto del bello e che si eriga al di sopra delle leggi, sprezzando sia il Bene che il Male. Questa élite deve di nuovo portare l’Italia, culla della cultura latina e perciò europea, al comando del mondo e ai fasti imperiali dell’antica Roma. Il superuomo dannunziano non deve smussare gli spigoli, né abolire le antitesi. Dal cozzo di due pietre si sprigiona la scintilla fatale che incendierà il mondo. Dalle forze in contrasto si esprimono le forme superiori dell’equilibrio sociale. Il superuomo sarà pertanto colui che tenderà allo spasimo l’arco della sua volontà per scoccare l’infallibile dardo che colpirà al cuore il vecchio mondo conservatore demo-liberale. Il Nietzsche dannunziano “si leva quasi con furore contro la pietà” proprio in un tempo “in cui la dottrina evangelica predicata dagli schiavi acquista sempre nuovi proseliti”: egli è contro l’abnegazione, la devozione e tutto ciò che è frutto dell’universale debolezza. Il vecchio edificio sociale, fondato sulla menzogna, gli sembra ridicolo e ignobile. Egli opina che un’aristocrazia nuova, lentamente ed implacabilmente formata per selezione, debba ricollocare sul suo posto d’onore il sentimento della potenza, levandosi sopra il Bene e sopra il Male e riprendendo le redini per domare le masse a suo profitto. Secondo il filosofo tedesco l’Europa sarebbe decaduta perché avrebbe ricalcato l’impronta della nozione del Bene e del Male ricavata dalla morale degli schiavi. Perché due sono le morali: “quella dei nobili e quella del gregge servile”. L’una ha la sua radice “nella sovrana concezione della loro dignità e tende alla glorificazione superba della vita”; l’altra eleva a virtù “tutte le sofferenze del debole ed oppresso” e considera abominevole l’uomo forte che deriva le sue leggi dal postulato contrario. La maggiore espressione della morale degli schiavi è il cristianesimo grazie al quale essa, purtroppo, si è irrimediabilmente imposta.Ma questa morale non è l’istinto del superuomo: “gli uomini superiori, lasciando agli ingenui i tentativi di migliorare le sorti della moltitudine e di praticare la virtù cristiana della carità, intenteranno tutti i loro sforzi nel distruggerla”. Il vero nobile, secondo il Nietzsche, non somiglia in nulla agli slombati eredi delle antiche famiglie patrizie. L’essenza del nobile è la sovranità interiore. Egli è l’uomo libero, più forte delle cose, convinto che la personalità supera in valore tutti gli attributi accessori. Egli è una forza che si governa, una libertà che si afferma e che si regola sul modello della dignità. Egli ha l’occhio infallibile quando guarda in se medesimo. Ed è in questa autocrazia della coscienza il principale segno dell’aristocrate nuovo. Al di là di ogni condizionamento del mondo dei valori, nel pensiero di Nietzsche il superuomo è la categoria che esprime l’assolutezza dell’individuo e che esalta in pieno il radicale rifiuto dell’umanesimo, assicurando l’eternità del singolo e manifestando una volontà di potenza come espressione del superamento dei principi codificati dalla conformista morale comune.Nell’Italia umbertina, la delusione verso una situazione socio-economica giudicata intollerabile si era estesa, oltre agli intellettuali, anche al ceto medio e alla piccola borghesia. Essa era composta da una folta schiera di giovani ufficiali e di combattenti che, dopo la conclusione del primo conflitto mondiale, non avevano visto realizzate le loro auliche aspirazioni. Non avevano trovato cioè, al ritorno nella vita civile, il trasporto mistico che li aveva precedentemente condotti in trincea. Essi erano convinti di poter finalmente dare al Paese una nuova religione laica e di poter contribuire a forgiare “l’uomo nuovo”. Costui, vero superuomo, doveva combattere l’ignavia che era propria dell’uomo liberal-borghese, un essere mediocre avvolto in un mantello di povera mussola, incendiato dal sacro fuoco della discordia, capace di un eroismo da ribalta o da termosifone, affascinato da un decoro di latta, eccellente solo nelle trame caliginose, nei delitti di faida, negli eccessi melodrammatici, nella modestia marziale e rimpinguato dai dividendi dei suoi depositi postali.Il D’Annunzio si pasce del divario che esiste tra l’infinito proiettarsi della sensualità e il suo soddisfacimento, tra l’eccitazione che comporta un certo stile di vita ed la sua traduzione pratica nella realtà quotidiana. Così i superuomini dannunziani sono divisi tra l’altezza degli scopi che si prefiggono e l’incertezza di poterli raggiungere, tra la vogliosa tensione spasmodica di scavalcare l’ignoto ed un intimo desiderio di tregua che dia finalmente sollievo allo spirito. Il D’Annunzio non si contentava, come uomo, di essere un sensuale, o quello e basta, o meglio di essere solo una voce destinata a predicare, in un modo moderno, come dovrebbe concretizzarsi la vita di ogni giorno. Per lui il superuomo sa che il mondo è un giardino di cui può cogliere tutti i frutti: frutti fatti apposta per soddisfare le sue infinite bramosie ed i suoi incontenuti appetiti. Così scrive, infatti, il Vate: “La vita è una specie di sensualità diffusa, una conoscenza offerta a tutti i sensi, una sostanza buona da fiutare, da palpare, da mangiare. Gli uomini di intelletto, educati al culto della bellezza, conservano sempre una specie di ordine, anche nelle peggiori depravazioni”. Ma non tutto era rose e fiori. Nei momenti di stanchezza, quelli in cui la tentazione superomistica si allentava, il letterato pescarese si ripiegava su se stesso e “sentiva dalle profonde viscere un’amarezza, come una nausea improvvisa”. Non gli rimaneva altro che “assaporarla con una specie di rassegnazione cupa”.Per il D’Annunzio, la forza si manifesta con la volontà di dominio, con l’amore per la violenza, con lo sprezzo del pericolo e con la capacità di godere e di assaporare i piaceri del mondo,!
sfruttando sapientemente tutti i propri sensi. Collegata con la forza è l’esuberanza sensuale, cioè il libero disfrenarsi dei diritti della carne e della componente animalesca della natura umana. Accanto alla sensualità si pone, senza contraddizione, il culto della bellezza: valore che pochi sono in grado di comprendere e di apprezzare, essendo una linea che delimita gli eletti dalla plebe. Il superuomo dannunziano non è però fuori dal tempo perché la sua polemica si indirizza “contro la plebe, ma anche e soprattutto contro la nuova borghesia dell’industria e del commercio e contro i principi di libertà e di eguaglianza da essa promulgati con la controrivoluzione”. Nel superuomo dannunziano si può intravedere un elemento intellettualistico: un mito che lo scrittore avrebbe sovrapposto alla sua natura, falsando l’autentica voce della poesia che perciò vivrebbe al di fuori di esso, in zone più spontanee e più interne, libera dalle magniloquenze retoriche della ingombrante ed inutile sovrascrittura letteraria.Per il poeta il superuomo sa che il creato, tutto ciò che esiste, è fatto per essere configurato in forme di bellezza. Egli è onnipotente e non ha legami di sorta con ciò che lo circonda perché si è spogliato mentalmente della morale ereditata dalla vecchia società che tramonta. Il mondo in cui vive non è il nostro o simile al nostro: è una costruzione particolare in cui sono aboliti tutti i rapporti che esistono tra lui e le diverse cose circostanti. Vi domina l’anti-storicità, l’astrazione e l’arbitrio. L’esperienza del superuomo dà al D’Annunzio la rivelazione chiara di se stesso. E lo fa in un modo tale che è impossibile, anche nei momenti di vera poesia, distinguere le immagini della sua umanità sensuale da quelle del segno dello Zarathustra nicciano. Anche nel D’Annunzio, insomma, vi è, alle radici stesse della sua esaltazione della vita, una disposizione nichilistica che non trascende se stessa se non trasfigurando la realtà dell’istante in un’apparenza assoluta. E ciò spiega perché (indipendentemente dalle sue dichiarazioni programmatiche che puntano se mai sugli aspetti più chiassosi del nietzscheanesimo e sulla loro degradazione a mistica politica) egli si trova di fatto d’accordo con il profeta di Zarathustra nell’attribuire all’arte, una volta scomparso ogni residuo di mondo ultra-terreno, un ruolo unico, quello di essere il solo stimolo vitale che abbia una reale importanza. Per l’uomo moderno, l’arte si deve tassativamente affermare come se fosse un valore supremo irrinunciabile. Per il Vate tutto si trasfigura perdendo i suoi connotati, non si ha più né nome, né sorte: vengono meno quelli che sono i due elementi d’identità imprescindibili nell’uomo, cioè il nome e il destino. Ed è proprio su quest’ultimo che il poeta inserisce un fatalismo soprannaturale in cui causa ed effetto non si legano ad istanze temporali, ma sono il risultato di una concatenazione di eventi divini, soprannaturali ed eterei. Il vivere tacito, l’annientarsi definitivamente nella natura equivale a ricercare quel rapporto supremo che la vita stabilisce con la morte. E se la morte fatalmente arriva, fatto inevitabile, allora essa dovrà essere “bella ed eroica”. Così l’atto vitale, poggiante sulla sensazione più o meno chiara del nulla, crea per la volontà un sistema di forme possibili a partire dalle quali la “volontà di potenza” si libera solo originandosi da e convogliandosi verso se stessa. D’altro canto, allorché si ragiona sul modello dannunziano, il pensiero di Nietzsche può servire al lettore di oggi non solo per individuare le matrici profonde di una letteratura che si converte in azione perché non esiste altro al di fuori di essa, ma anche per coglierne certe strutture fondamentali. C’è da aggiungere, però, che il mito dannunziano del superuomo rimane sempre un tentativo intimamente problematico che cerca di appropriarsi della coscienza, riducendola a pura energia ravvivante non vincolata dal tempo. Il D’Annunzio si indirizza, quindi, verso una concezione della vita che non rientra nella sfera “umana”, ma bensì in quella “super-umana”. L’egalitarismo democratico, patrimonio di una certa cultura da osteggiare, non si addice al superuomo. Lui si sente superiore e se qualche volta dimostra simpatia e rispetto per i pezzenti e per i vagabondi, il suo atteggiamento non è poi così diverso da quello del padrone filantropo o del prete caritatevole: tutti e due (anzi tre, con il superuomo) si sentono eletti. Secondo il critico Carlo Salinari, l’idea del superuomo non ha solo origine nella mente del D’Annunzio, ma anche, in un periodo storico ben definito, negli atteggiamenti della classe dirigente e degli intellettuali di fine secolo che a loro volta si inserivano in una precisa situazione sociale ed economica. Il superuomo dannunziano, al suo primo apparire, presenta alcune caratteristiche che potrebbero così riassumersi: culto dell’energia dominatrice sia che essa si manifesti o come forza (e violenza), o come capacità di godimento, o come bellezza; ricerca della propria tradizione storica nella civiltà pagana, greco-romana, ed in quella rinascimentale; concezione aristocratica del mondo e conseguente disprezzo della massa (della plebe) e del regime parlamentare che su di essa si fonda; idea di una missione di potenza e di grandezza della Nazione italiana da realizzarsi soprattutto attraverso la gloria militare; giudizio totalmente negativo dell’Italia post-unitaria e bisogno di energie nuove che la sollevino dal fango in cui si è impantanata; concetto naturalistico, basato sul sangue, sulla stirpe e su altri elementi fisici, che coinvolge sia la Nazione, sia il superuomo destinato a impersonificarla e a guidarla. Dei vari elementi che concorrono a formare il superuomo del D’Annunzio uno è l’aderenza delle sue posizioni ad atteggiamenti che erano maturati in alcuni gruppi della classe dirigente e degli intellettuali nei decenni successivi all’unità d’Italia. Ecco che possiamo allora riconoscere, senza sforzo, i motivi che stanno alla base del superuomo dannunziano: la potenza, la guerra, la gloria, il disprezzo per il proletariato, la concezione aristocratica del comando, l’idea di Roma e della missione dell’Italia nel mondo, il culto della bellezza e quello della forza redentrice 6. Per il D’Annunzio l’unica legge è il dominio e l’istinto è la sola verità, mentre la morale è una turpe menzogna. Avvicinandosi alla belva l’uomo supera se stesso e si realizza trasformandosi in un eroe invincibile.E’ il periodo dell’interventismo (l’entrata in guerra, nel 1915, dell’Italia) a creare il mito del “D’Annunzio-Superuomo”. Il periodo della guerra ci presenta un D’Annunzio combattente irriducibile (basti ricordare la beffa di Buccari ed il volo su Vienna). Tutte queste imprese fanno crescere in lui il pensiero di essere l’uomo giusto al momento giusto, cioè colui che guiderà l’Italia verso nuovi ambiziosi obiettivi e verso altri esaltanti trionfi. Ulisse diventa non solo il simbolo del superuomo per il D’Annunzio, ma anche l’esempio per tutti gli uomini che, come il poeta, non si accontentano di una vita tranquilla, ma vogliono affermare la loro “volontà di potenza”, realizzando la dimensione eroica di se stessi. Il D’Annunzio ha assimilato molte istanze del decadentismo europeo quali l’estetismo, il sensualismo, il vitalismo, il panismo e l’ulissismo (inteso come ricerca di esperienze sempre nuove ed esaltanti). Dopo non aver condiviso la fiducia nella ragione e nella scienza, il poeta ha avvertito la solitudine dell’uomo, ma ha avuto di tale solitudine una percezione orgogliosa derivante dalla convinzione che la sua persona era eccezionale. L’interpretazione dannunziana del pensiero di Nietzsche può, perciò, riassumersi in due concetti: l’insofferenza per una vita comune (normale) e il vagheggiamento della “morte bella ed eroica”. Il letterato insiste, pertanto, sui temi della grandezza, dell’orgoglio, della supremazia e dell’eroismo virile. Affermava il Vate, esaltando il ruolo del suo superuomo: “Noi dobbiamo uccidere le nostre passioni l’una dopo l’altra e intendere ad estirpare dalle radici la speranza e il desiderio che sono la causa della vita.
La rinuncia, la piena incoscienza, il dissolvimento di tutti i sogni, l’annientamento assoluto: eco la liberazione finale!”. Il superuomo dannunziano naturalmente è un aristocratico. Come tale disprezza sia il popolino che lo Stato fondato sui principi democratici. Egli è convinto che il mondo sia “la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori, i quali lo hanno creato e quindi ampliato e ornato nel corso del tempo e andranno sempre più ampliandolo ed ornandolo nel futuro. Nel suo giudizio negativo egli include anche parte della classe dominante in quanto “l’arroganza delle plebi è tanto grande quanto la viltà di coloro che la tolleravano e la secondano”. Ma “per fortuna lo Stato eretto sulle basi del suffragio popolare e dell’uguaglianza, cementato dalla paura, non è soltanto una costruzione ignobile, ma è anche precaria. Lo Stato non deve essere se non un istituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione d’una classe privilegiata verso un’ideale forma di esistenza”. Il Vate, pertanto, pensa che debba nascere una nuova oligarchia, un nuovo reame della forza e che solo pochi riusciranno a tenere le redini in mano per governare autoritariamente le masse. E ciò non sarà per loro troppo difficile perché “le plebi restano sempre schiave, avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli. Esse non avranno dentro di loro giammai, sino al termine dei secoli, il sentimento della libertà”. Nel D’annunzio superomismo ed estetismo coincidono. Il letterato abruzzese era, quindi, fanatico di qualunque cosa potesse metterlo in una posizione egocentrica. Aveva, perciò, stravolto il concetto del superuomo nicciano, limitandolo solo alla funzione di guida e di capo assoluto delle masse, un capo ed una guida che s’identificavano necessariamente con la sua persona. Letterato raffinato, ma anche protagonista di grandi imprese durante il recente conflitto, cercava di conciliare lo spirito con il corpo e di entrare prepotentemente nell’era moderna, utilizzandone tutte le potenzialità, prima fra tutte quella della comunicazione. La raffinatezza del D’Annunzio si rivelava soprattutto nel linguaggio. Per lui la “scienza delle parole” era una scienza “suprema”. “Chi la conosce, conosce tutto”, ha affermato nel 1892 dopo aver affidato alla sua opera “Il Piacere” la parola d’ordine “Il verso è tutto”. Anche il verbo, insomma, si faceva gesto, ebbrezza d’azione ed istante assoluto da consumarsi in se stesso.A questi concetti si associa, nel poeta soldato, il culto della forza: “La forza è la prima legge della natura, indistruttibile, inamovibile. La disciplina della superiore virtù dell’uomo libero. Il mondo non può essere costituito se non sulla forza, tanto nei secoli di civiltà quanto nelle epoche di barbarie”. Fa parte, inoltre, della concezione superomistica l’idea di una rinascita della società attraverso l’opera del suo figlio-erede, colui che è destinato ad essere il nuovo Re di Roma il quale “natura ordinatus ad imperandum, dalla natura ordinato a imperare, ma dissimile da ogni altro Monarca, non verrà a riconfermare o a rialzare i valori che da troppo tempo i popoli, sotto l’influsso delle varie dottrine, soglion dare alle cose della vita; ma si bene verrà ad abolirli o ad invertirli”. Un uomo del genere avanzerà nella vita portato da una quadriga imperiale: “Volontà, Voluttà, / Orgoglio, Istinto, quadriga / imperiale mi foste, / quattro falerati corsieri, / prima di trasfigurarvi / in deità operose / come le stagioni, che fanno / le danze lor circolari”. E tutta questa forza, quest’energia, questo slancio vivifico, saranno poi convogliati sul terreno della politica per realizzare un’impresa titanica: la conquista di Fiume. E qui il superomismo dannunziano si sposa con il suo nazionalismo e con il mito della stirpe latina, un mito che ha sempre dominato e che dovrà tornare ancora a dominare il mondo intero
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