Scienza, la frontiera senza terra | Associazione Luca Coscioni

Longitude


22 Lug 2015


Paolo Bianco




Un detto cinese recita: “che tu possa vivere in tempi interessanti”. Quale modo migliore per catturare e trasmettere l’intima affinità di sfida e crisi, di cambiamento e rischio, di opportunità e perdita. Tempi interessanti permettono di comprendere come i cambiamenti sulla scena globale ridefiniscano non solo la vita di tutti i giorni, ma spesso anche impercettibili quanto essenziali principi base della vita di vaste aree del mondo.
Uno di questi principi, dalla fine della seconda guerra mondiale, è sancito in una famosa relazione al Presidente statunitense Franklin D. Roosevelt redatta da Vannevar Bush, all’epoca a capo dell’Ufficio per la ricerca scientifica e lo sviluppo (OSRD). In quella relazione Bush, artefice del Progetto Manhattan, diede una forte impronta a quello che il mondo occidentale sarebbe diventato. Il Progetto Manhattan aveva appena dimostrato come la scienza e la tecnologia possano vincere le guerre. Questa impressione si riflette largamente nel linguaggio utilizzato nella relazione, che descrive come guerre di altro genere (le guerre in tempo di pace, per così dire), prima fra tutte la “guerra alle malattie”, possano essere combattute e vinte con gli stessi strumenti e le stesse armi. La scienza, “la frontiera senza fine”, era la forza trainante. La relazione gettava basi tangibili rimaste visibili per svariati decenni: agenzie governative e procedure mirate a gestire il finanziamento di una scienza libera e competitiva, che sarebbe stata presa a modello dall’intero mondo occidentale; un modello per la circolazione di conoscenza e tecnologia e per il loro scambio tra università e industria; la nascita di case farmaceutiche proiettate su scala globale; lo sviluppo del più grande potere scientifico e tecnologico della storia.
Salute e medicina (argomento caro al Presidente Roosevelt) erano i cardini di tale strategia. In quel contesto, la relazione di Bush definì un modello originale per la collaborazione tra mondo accademico, industria e istituzioni che si sarebbe rivelato vincente e sarebbe stato imitato in tutto il mondo; e che a tutt’oggi rimane ineguagliato. In poche parole, il governo avrebbe finanziato – attraverso agenzie ad hoc come i National Institutes of Health (NIH) e la National Science Foundation (NSF) – una scienza di base libera e competitiva (solamente una scienza di base libera e competitiva) condotta in ambito accademico con l’obiettivo di sviluppare conoscenze fondamentali sui meccanismi di malattia e sulle relative cause. L’industria avrebbe finanziato, con risorse proprie, la traduzione di quella scienza in sviluppo di prodotti (farmaci) che rappresentassero beni economici e valore sociale: profitto per l’industria, ma salute e ricchezza per la società. Un modello vantaggioso per tutti. A quel modello dobbiamo la medicina contemporanea e il suo straordinario successo: la sconfitta della febbre reumatica e il controllo dell’infezione da HIV; il crollo della mortalità per patologie cardiache, che stava aumentando esponenzialmente; la cura di molti tipi di cancro e la riduzione di molti altri a malattie croniche gestibili; farmaci “molecolari” come il Gleevec; e le TAC. Questo, e molto altro, per quanto riguarda la salute. Per quanto riguarda la ricchezza, basti dire che il calo del 63% della mortalità per malattia coronarica in seguito il famoso Framingham Heart Study, in termini economici, equivale da solo al bilancio totale stanziato per i NIH per 30 anni fiscali consecutivi. Per non parlare della nascita e della crescita a dimensioni globali dell’industria farmaceutica (“Big Pharma”).
Quel modello, a quanto pare, non c’è più. Una nuova, grande frazione bipartisan del Congresso statunitense considera il bilancio dei NIH (il finanziamento alla scienza) una spesa improduttiva. Il raddoppio del bilancio dei NIH in un periodo di cinque anni durante i quali il PIL degli Stati Uniti è triplicato è considerato un eccesso da correggere. Se la “Big Pharma” non può sostenere i costi necessari per lo sviluppo di nuovi farmaci (circa 1 miliardo di dollari per lanciare sul mercato un nuovo composto), il mercato farmaceutico vacilla. Con l’esplosione delle conoscenze biomediche fondamentali (il genoma umano, le cellule staminali) che apre scenari ampi e promettenti, lo spazio di mercato lasciato libero dalla “Big Pharma” dovrà essere occupato da nuovi operatori, nuovi investitori e nuovi prodotti. Di conseguenza, si propone un nuovo modello per la collaborazione tra industria, istituzioni e mondo accademico, diametralmente opposto a quello emerso nel secondo dopoguerra. Nel’anno in cui il tasso di successo degli assegni di ricerca presentati ai NIH ha raggiunto il suo minimo storico, i NIH hanno stanziato 14 milioni di dollari per rendere commercialmente disponibile per 1.000 dollari il sequenziamento del genoma di chiunque, e creato una nuova agenzia con un budget di 2 miliardi di dollari l’anno per promuovere lo sviluppo di nuovi prodotti, diagnostici o terapeutici, basati su dati scientifici e con potenziale commerciale: il Centro nazionale per il progresso della scienza traslazionale (NCATS). Criptata nella password “Medicina Traslazionale”, che domina la copertina di una nuova rivista “sorella” della prestigiosa Science, l’idea, in sostanza, è di affidare lo sviluppo del prodotto (il lavoro dell’industria, nel paradigma di Bush) alla ricerca di base (il lavoro degli scienziati, nel paradigma di Bush). Questo comporta, naturalmente, il reindirizzamento di parte dei fondi stanziati dal governo dalla ricerca all’industria. Comunemente diffusa (e ampiamente fraintesa), come la traduzione della scienza in applicazioni utili (terapie, nuovi farmaci efficaci, diagnostica), l’idea è piuttosto di sostenere, con risorse precedentemente assegnate al finanziamento della scienza, lo sviluppo di prodotti commerciabili; vale a dire, reindirizzare le risorse pubbliche dal sostegno della scienza al sostegno dell’economia. La concezione di Bush di “menti libere che alimentano il libero mercato”, e della scienza auto-gestita come la più efficace per lo sviluppo tecnologico e la generazione di profitto, va scomparendo nonostante i suoi monumentali rendimenti.
Giusto o sbagliato che sia, il mondo va in questa direzione. Anche la “Big Pharma” sta emigrando dal mercato occidentale, e forse anche dalle normative occidentali sullo sviluppo di farmaci, percepite come causa di costi insostenibili. Eli Lilly and Company ha recentemente delocalizzato una parte consistente delle proprie attività operative dalla sede storica di Indianapolis a Shanghai, in Cina. Di certo, le caratteristiche genetiche uniche del diabete di tipo 2 dell’etnia Han (la più grande al mondo, con un miliardo di persone) rappresentano tanto un mercato quanto una sfida scientifica e tecnologica. Ma forse ancor più interessante è l’opportunità offerta da economie in rapida crescita (Cina, India e Brasile) per la condivisione dell’enorme rischio che lo sviluppo di nuovi farmaci nell’Occidente comporta. Un’opportunità caratterizzata non solo da un significativo sostegno governativo, ma anche dall’assorbimento (in un mondo in cui la comunicazione globale è più facile che mai) della scienza e della tecnologia sviluppate in gran parte negli Stati Uniti. La dimensione culturale intrinsecamente diversa dei mercati emergenti e gli aspetti giuridici favorevoli contribuiscono a propria volta. L’esplosione del mercato farmaceutico sta trainando la vertiginosa crescita dell’economia cinese. Con gli Stati Uniti che fanno del Pacifico la propria nuova frontiera, la sfida è evidente, ed esserne all’altezza è imprescindibile.
Nella scienza e nella medicina, il nuovo approccio produce una potente spinta verso lo sviluppo accelerato delle terapie da parte degli scienziati stessi. In questo caso, la distinzione tra terapie e prodotti, che sarebbe chiara ai medici, è spesso - più o meno inavvertitamente - resa labile. Sorprendentemente, il trapianto di midollo osseo (che è valso un premio Nobel), l’uso dell’aspirina per curare e prevenire le malattie cardiache e la terapia antibiotica per l’ulcera peptica (anch’essa valsa un premio Nobel) sono terapie. Terapie innovative, terapie efficaci, terapie che generano salute e ricchezza, ma non nuovi prodotti commerciali. Viceversa, possono essere creati prodotti che non sono terapie efficaci. Storicamente, l’industria ha sempre generato e commercializzato innumerevoli prodotti rivelatisi scarsamente efficaci, o clinicamente inefficaci, anche nei casi in cui hanno conquistato determinate fette di mercato. Non è semplicemente la logica dell’economia di mercato a rendere questo accettabile. È anche, nel settore specifico dell’economia di mercato che si occupa della salute umana, la separazione tra scienza medica e commercio. Questo consente, per così dire, una “separazione dei poteri”, un controllo reciproco di aree di attività indipendenti. Solo il “medico-scienziato” (specie che si è evoluta direttamente dal paradigma di Bush) può svolgere tale ruolo e stabilire che un determinato prodotto non è efficace. Il nuovo “scienziato-imprenditore” (specie che sta emergendo dal nuovo paradigma), direttamente interessato allo sviluppo di prodotti, deve rinunciare a quel ruolo. Questo spiega perché si assiste a una pletora di terapie palesemente improbabili sottoposte a forzate sperimentazioni cliniche (ad esempio infusioni endovenose di cellule ossee per curare allo stesso modo ictus e autismo, sclerosi multipla e colite, fratture ossee e malattie polmonari, infarti e malattia del trapianto contro l’ospite, in una vera e propria risurrezione moderna dell’alchimia).
Nell’economia, i cambiamenti sono altrettanto intriganti. Le innovazioni prodotte dai laboratori universitari necessitano del sostegno di investitori per far fronte ai costi di trasformazione in prodotti (ad esempio lo sviluppo di farmaci precedentemente prerogativa dell’industria). Vengono così create start-up per la ricerca di investimenti. Investimenti privati o investimenti pubblici. La maggior parte della “pillola da un miliardo dollari” che ha condannato la “Big Pharma” è stata determinata dai costi di test clinici regolamentati (cioè di “medicina traslazionale”) e dalla necessità dell’industria quantomeno di avviare lo sviluppo di una serie di prodotti destinati a non arrivare mai al mercato. Nella prassi tradizionale dell’industria farmaceutica, solo il 5% dei nuovi composti arriva al mercato. La mancanza di selettività nello sviluppo di farmaci gonfia i costi e i rischi per l’industria farmaceutica. Non vi è alcun motivo di credere che la stessa mancanza di selettività possa dare risultati migliori se i fondi provengono dal governo o da altri investitori. E non vi è alcun motivo di credere che lo sviluppo di farmaci gestito da scienziati sia più selettivo rispetto all’industria, ed economicamente più efficace. Solo gli scienziati possono avere voce in capitolo. Forse correggere i difetti che hanno portato alla crisi della “Big Pharma” potrebbe essere più produttivo che importare tali difetti, immutati, in un nuovo modello effettivamente carente di novità.
Il successo del nuovo modello non può essere compreso senza prima comprendere il nuovo matrimonio tra scienza e modelli finanziari. Il valore di un’azienda è determinato primariamente dalla sua pipeline di prodotti, e una nuova terapia potenziale accede a tale pipeline una volta avuto accesso alla sperimentazione clinica. Di conseguenza, le considerazioni finanziarie accelerano l’accesso alla sperimentazione clinica e aumentano il valore di un’azienda. Il completamento della serie di test necessari richiede solitamente dai 10 ai 15 anni. In questo lasso di tempo, la diffusione (attraverso canali di comunicazione “profani”) di risultati preliminari positivi o negativi delle sperimentazioni in corso fa oscillare il valore delle azioni dell’azienda. Per molti investitori, il momento del profitto non coincide con il lancio sul mercato, com’era nel caso del tradizionale paradigma industriale dell’era “Big Pharma”. Il profitto non si può creare, ma si può creare valore. Il modello di business è finanziario, non industriale.
Questa nuova strategia funzionerà? Vi sono infinite argomentazioni che pervadono una corposa letteratura a sostegno del nuovo approccio. Lasciando da parte la vera ragione macroeconomica di questo sovvertimento, ciò che tale letteratura mette in discussione, con nobilitanti implicazioni filosofiche, è che cosa le equazioni di Maxwell hanno realmente a che fare con l’invenzione di Edison. In tale letteratura si sostiene che nell’epoca precedente alla seconda guerra mondiale gli Stati Uniti fossero leader nella tecnologia, mentre la scienza era appannaggio dell’Europa; o che nel secondo dopoguerra l’economia giapponese sia fiorita grazie alla tecnologia, non alla scienza; o che sempre più progressi scientifici sono resi possibili dalla tecnologia stessa. Sarebbe facile intervenire a questo livello del dibattito affermando, ad esempio, che la fisica di Fermi aveva qualcosa a che fare con il Progetto Manhattan, e che in realtà fu proprio la scienza europea ad essere urgentemente chiamata in causa al momento di sviluppare la tecnologia strategica necessaria; o che la mela di Alan Turing su ogni iPhone ci ricorda che per ogni Steve Jobs c’è un Alan Turing, e che lo stesso Steve Jobs ne era consapevole. Semplice, ma forse immateriale. È fin banale sostenere che scienza e tecnologia sono ambiti dell’attività umana indipendenti ma trasversalmente collegati. Meno banale, forse, è sostenere che l’indipendenza di scienza e tecnologia non appare ragione sufficiente per far sì che l’una fagociti l’altra. O che lo sviluppo indipendente, persino geograficamente distante di scienza o tecnologia comporti ancor’oggi la sopravvivenza indipendente di entrambe. Anche in un mondo in cui la diffusione della conoscenza non ha limiti geografici, la scienza in quanto attività ha bisogno di luoghi per sopravvivere.
Curiosamente, le opposte vedute della medicina denotano le tradizioni storiche dei principali contendenti in un’evidente gara ai mercati, inscritta in una gara più ampia per la leadership globale. Il pregiudizio intellettuale dichiarato di alcuni scienziati è che la scienza abbia vinto tutte le guerre, tanto le guerre mondiali quanto guerre fredde. Attraverso la tecnologia, ha nutrito le prime; attraverso una visione del mondo (compresa la medicina), le seconde. La speranza è che la terra che ha coltivato quest’idea negli ultimi 70 anni non se ne dimentichi nelle gare attuali e future per la leadership del mondo.
PAOLO BIANCO è Professore di Anatomia patologica e Direttore del Laboratorio di cellule staminali, Dipartimento di Medicina Molecolare, Università La Sapienza di Roma.