Marozia


di Ornella Mariani

Fra il 900 ed il 966, sul trono di Pietro s’avvicendarono Benedetto IV (900/903); Leone V (903); il dissidente Cristoforo (903/904); Sergio III (904/911); Anastasio III (911/913); Landone (913/914); Giovanni X (914/928); Leone VI (928); Stefano VII (929/931); Giovanni XI (931/935); Leone VII (936/939); Stefano VIII o IX (939/942), cui nel 930 furono mozzati naso ed orecchie; Marino II (942/946); Agapito II (946/955); Giovanni XII (955/963); Leone VIII (963/964); Benedetto V (964/966), descritto dallo storico Gerberto come «…il più iniquo di tutti i mostri di empietà…» e Giovanni XIII (965/972).

Di quella stagione di crimini e lotte spietate nella quale i Papi esercitarono anche lo jus gladii, furono protagonisti gli Alberici: i malefici Conti di Tuscolo, che scrissero una delle più torbide pagine della storia ecclesiale; fondarono ed istituzionalizzarono la pornocrazia e, a conferma della asserita civilisation attuata dal Cristianesimo, incorniciarono la vicenda umana e politica della bellissima Marozia, consegnata alla storia come emblema della depravazione; animatrice d’una fitta catena di crimini, incesti ed intrighi; lussuriosa amante di Pontefici e abilissima politica: tale da mettere a segno un enorme potere attraverso un complesso groviglio di alleanze favorite anche dagli importanti matrimoni contratti con Alberico I di Spoleto, con Guido di Toscana e con Ugo di Provenza; tale da fomentare le spietate contrapposizione fra fazioni filo/imperiali e nazionalistiche alla base dell’elezione pontificia.

Sua madre era l’avvenente e corrotta Teodora, sorella di Adalberto di Toscana, Senatrix e frequentatrice dell’alcova del Primate romano Sergio III. Suo padre era il patrizio di origine germanica Teofilatto. Membro degli Optimates Romani: quel ceto di facoltosi latifondisti, ecclesiastici e burocrati esercitante, dal VII a tutto l’XI secolo, le funzioni dell’antico Senato col nuovo nome di Ordo Senatorius, fin dal 901 e per circa un ventennio, egli spadroneggiò su Roma influenzando l’Aristocrazia capitolina e ricoprendo il ruolo di Judex Palatinus, di Magister Militum, di Sacri Palatii Vesterarius e di Gloriosissimus Dux .

Pur nella sola veste di subdiacono di una diocesi di periferia e mai investito della porpora cardinalizia, Benedetto IV, chiamato a succedere a Giovanni IX, aprì quel saeculum obscurum turbolento e confuso anche in ambito politico: fin dall’888, era Sovrano d’Italia Berengario I, confinato nella Marca friulana, dopo la sconfitta inflittagli dal Duca Guido di Spoleto che, incoronato nell’891, aveva associato al trono il figlio dodicenne Lamberto.

Nell’agitato contesto si era inserito nell’896, Arnolfo di Carinzia, investito della tiara imperiale da Papa Formoso.

Fra alterne vicende, nell’899 Berengario aveva recuperato le sue prerogative, malgrado il suo potere fosse appannato dalla infausta battaglia combattuta sul Brenta contro gli Ungari, il 24 settembre dell’anno precedente.

Contro di lui, Adalberto di Toscana e vasti settori della grande feudalità, avevano chiamato al trono Ludovico II di Provenza, nel 901 consacrato da Benedetto IV Sovrano a Pavia ed Imperatore a Roma. Tuttavia, dopo la morte del Papa, l’Italia vacillò ancora sotto l’onda d’urto dei tradimenti: voltate le spalle al nuovo Sovrano, lo stesso Duca toscano ed Adalberto d’Ivrea presero di nuovo partito per Berengario che, col supporto di contingenti bavari, a Verona a fine luglio del 905, stroncò ogni velleità dell’antagonista, catturandolo, barbaramente accecandolo e ricacciandolo in Provenza.

Mentre l’Italia aveva due Re, al soglio pontificio era asceso Leone V, deposto dopo un mese dal presbiterio romano di S.Damaso, per una congiura tramata dal prete Cristoforo. Malgrado scomunicato da Giovanni IX per aver riesumato e processato il cadavere di Papa Formoso, egli aveva tenuto saldamente la tiara finché, nei primi di gennaio del 904, era stato arrestato e strangolato dagli sgherri del deus ex machina della politica imperiale Teofilatto che, il 19 dello stesso mese, aveva designato Papa il quarantacinquenne Sergio III, Vescovo di Cere.

Anch’egli complice del macabro rituale riferito alle spoglie di Formoso, connotò il suo mandato di lascivia, malvagità, corruttela e d’ogni sorta di pervertimento: il suo scandaloso concubinato con la quindicenne Marozia aprì l’epoca della pornocrazia.

In quel tourbillon di eventi, il 14 aprile del 911, mentre Teodora era l’amante del futuro Giovanni X, stanca della relazione Marozia fece strangolare Sergio III, dal quale aveva avuto un figlio.

Per due anni, la cattedra fu retta da Anastasio III, suddito di quella femme fatale; poi fu la volta di Landone, la cui attività si esaurì in un solo semestre; infine, nel marzo del 914, fu il turno dello spregiudicato Giovanni X: diacono e favorito del Vescovo Pietro di Bologna, nei suoi frequenti viaggi a Roma quale iniziato alla diplomazia curiale, era stato folgorato dalle arti seduttive elargite a turno da madre e figlia che, dopo averne fatto assassinare il mentore Calione, lo avevano insediato al patriarcato di Ravenna.

Storie infamanti, crimini e scismi caratterizzarono anche la sua attività, in un’Italia sempre più logorata dalle aggressioni ungare ad Est, dalle scorrerie saracene a Sud e dalle incursioni vichinghe a Nord.

A fronte dell’esigenza di liberare almeno la Campania occupata dai Mori e in spregio di Ludovico che, seppur cieco era ancora titolare dei suoi diritti, il Papa si rivolse a Berengario: lo avrebbe incoronato imperatore, in cambio dell’aiuto ad espellere gli infedeli.

Il Sovrano fu, così, grandiosamente ricevuto a Roma ove, nel dicembre del 915, ricevuta la corona e giurata la difesa dei territori della Chiesa, allestì l’offensiva antisaracena coinvolgendovi forze bizantine e longobarde, con Landolfo di Capua, Guaimaro di Salerno, Giovanni di Gaeta e Gregorio di Napoli.

Il Papa si pose a capo dell'esercito accanto ad Alberico di Spoleto: l’imponente battaglia si combatté vittoriosamente sulle sponde del Garigliano, nel giugno del 916. Berengario ne conseguì un’enorme considerazione pubblica ed Alberico vi rifulse di eroismo: se Giovanni X, testimone delle sue spericolate esibizioni in campo, lo volle primo dei suoi Capitani quando si presentò a riscuotere il trionfo tributatogli dal Popolo romano, Teofilatto ne gli concesse addirittura la mano dell’irrequieta figlia.

Ambizioso, pugnace e bello nell’aspetto; già nell’887 investito del Marchesato di Camerino e del Ducato di Spoleto; ormai fra i più potenti Signori delle periferie romane, Alberico la sposò. L’unione rese Marozia madre di un secondo figlio, omonimo del marito.

Ma nuovi intrighi incombevano sulla penisola: in Toscana, teatro di scontri per la morte di Adalberto II cui era subentrato il figlio Guido, s’era aperto un fronte di rivalità accentuate dalle trame della potente vedova Berta, regista di vicende politiche nazionali influenzate da torbide passioni.

Avida ed intrigante, standogli discretamente alle spalle, per circa trent’anni ella aveva orientato l’impegno politico del marito in quel contesto intessuto di cupe macchinazioni, di orribili congiure e di ripugnanti tradimenti. Ella era figlia di Lotario II.

Giovanissima, aveva sposato Teobaldo di Lorena dal quale aveva avuto quattro figli e, una volta vedova, aveva contratto nuove nozze con Adalberto II detto il ricco che grande peso aveva esercitato nella vicenda dell’incoronazione imperiale, occupando contro Berengario il valico di Monte Bardone per impedirgli di raggiungere Roma.

In esito alla sua morte ed in cambio della investitura della Marca, il suo erede aveva fatto atto di vassallaggio al Sovrano dal quale, nel Diploma del 15 dicembre del 915, era stato definito Filiolus Noster.

Ma, a partire dal 916, la pace s’era nuovamente deteriorata: accantonando la politica delle alleanze e nella prospettiva di vedere assegnata la corona d’Italia al figlio di primo letto Ugo di Provenza, l’astuta Berta aveva pianificato le nozze della figlia Ermengarda con Adalberto di Ivrea, vedovo di Gisla, a sua volta figlia di Berengario.

L’atto di ribellione era stato punito con l’arresto e la deportazione di madre e figlio a Mantova e, se la detenzione aveva avuto breve durata per la levata di scudi di tutti i vassalli toscani, il desiderio di vendetta di Berta erano tutt’affatto placato: mirando a comporre un solido arco di alleanze parentali contro l’inviso rivale, complice il genero, il Vescovo di Milano Lamberto, il Conte palatino Odelrico e Giseberto di Bergamo, chiamò in Italia Rodolfo di Borgogna.

Incoronato nel 923, il 19 luglio dello stesso anno, a Fiorenzuola d’Arda, egli sconfisse definitivamente Berengario che, a Verona, il 7 aprile del 925, sarebbe stato assassinato mentre si recava in chiesa.

Rodolfo era Re a tutti gli effetti, malgrado il Papa non lo riconoscesse.

Nel frattempo, anche Marozia affilava le sue armi: al coniuge era stato negato il titolo di Patrizio e sottratto il feudo di Spoleto, assegnato a Pietro, fratello del Papa e Consul Romanorum. La reazione di Alberico era stata violenta: usurpato a Giovanni X il governo di Roma, gli si impose con tale dispotismo da indurlo ad invocare l’aiuto delle masse; ad espellerlo dalla città; a farlo uccidere ad Orte, ove s’era rifugiato.

Per consolidare la vacillante potenza, il nuovo Sovrano aveva intanto adottato una politica di conciliazione generale. Privo di salde radici in Italia e consapevole degli intralci interposti da molte famiglie feudali al costituirsi d’una monarchia forte e durevole, tentò d’accattivarle con munifiche concessioni ignaro che quanti pur lo avevano invocato al trono volevano solo eliminare Berengario e che, raggiunto lo scopo, intendevano liberarsi anche di lui optando per qualcuno realmente legato al territorio.

Ugo di Provenza incarnava tutti gli interessi in gioco. La madre, i fratellastri ed i Marchesi di Ivrea ne sostennero la causa e, col sostegno del Pontefice, esigente aiuto contro le fazioni romane guidate dalla agguerrita Marozia, lo invitarono in Italia.

Mentre le sue prore erano puntate verso il Tirreno centrale, i contingenti tedeschi di Rodolfo e del suocero Burcardo di Svevia, massacrati a Novara, furono costretti a riparare in Borgogna. Così, il 29 aprile di quel movimentato 926, Ugo sbarcò indisturbato a Pisa donde si spostò a Pavia per esservi incoronato dal Vescovo Lamberto e da un’Assemblea di Grandi Elettori.

L’Italia aveva un altro Sovrano.

Politico esperto e perspicace, dopo aver fondato un forte partito legato alla Corona da interessi comuni e dopo aver assegnato le più alte dignità a cugini, nipoti, fratelli e figli, Ugo concluse a Mantova un favorevole accordo con Giovanni X: lo avrebbe protetto dalle turbolente fazioni romane, in cambio della tiara imperiale.

Contro quella intesa, Marozia insorse: proclamatasi Patrizia e Senatrice e decisa a recuperare il saldo controllo di Roma, in forza dell’eredità paterna dei borghi e delle terre di Monterotondo, Poli, Guadagnolo, Anticoli Corrado, Saracinesco, Rocca di Nitro, Rocca dei Sorci, Segni, Valmontone, Guarcino, Alatri, Colle Pardo, Soriano, Paliano, Sora e Celano, sposò Guido di Toscana, figlio di Berta spentasi nel marzo del 925, per contrapporlo al fratello ed all’inviso Pontefice.

Per un lungo biennio la città fu teatro di furiose mischie. Ma la lotta entrò nella sua fase più acuta nel 928 quando, introdotto segretamente fra le mura un poderoso contingente armato, ella assalì il Papa nel Laterano e lo deportò in Castel sant'Angelo ove, nel mese di maggio, morì per soffocamento.

Ora che anche le consorterie nemiche avevano ricevuto un segnale forte circa il predominio romano, ella orientò la successione pietrina in direzione di Leone VI, mancato nel dicembre dello stesso anno, e di Stefano VII, morto nel febbraio del 931, nel frattempo disponendo l’insediamento di suo figlio Giovanni XI, privo di qualsiasi requisito ecclesiastico.

Parallelamente alla consacrazione di Giovanni XI, moriva Guido di Toscana. Per le sue terze nozze, l’inesauribile ambizione di Marozia mirò molto in alto: Ugo di Provenza, opportunamente reso vedovo, le avrebbe assicurato l’agognata tiara di Regina ed il controllo dell’intera Italia.

Il Sovrano accettò la proposta e, per prevenire il veto canonico espresso sull’unione fra cognati, infangò la memoria di sua madre giurando falsamente di essere figlio illegittimo del proprio padre e di non avere, pertanto, vincoli di sangue comuni ad Ermengarda, a Guido e a Lamberto che sdegnato insorse e ricorse vanamente al giudizio dell’ordalia.

Nel marzo del 932, acquartierato l’esercito fuori dalle mura, Ugo entrò disarmato in Roma per sposarsi e, forse, anche per esservi incoronato Imperatore dal figliastro.

I suoi propositi furono però sventati da Alberico II, figlio di primo letto di Marozia: umiliato e schiaffeggiato nel corso del ricevimento nuziale, per un insignificante malinteso, provocò una violenta rivolta contro il patrigno, incontrando il sostegno della Nobiltà capitolina.

Ugo riuscì a salvarsi con una rocambolesca fuga ma, il giovane fece chiudere le porte della città, inibendo alle truppe accampate all’esterno di superare le mura; fece arrestare sua madre; in una manciata di giorni, assunto il titolo di Princeps atque omnium Romanorum Senator, prese il controllo di Roma ed ordinò il confino anche del fratellastro Giovanni XI cui fu solo consentito, dall’interno del Laterano, di reggere spiritualmente la Chiesa a condizione di affiancare i nomi di entrambi nei diplomi e nelle monete.

Ereditato l’immenso patrimonio fondiario del nonno Teofilatto, Alberico II rimosse ogni residuo anarchico; separò il potere religioso da quello laico e rese l’Italia autonoma rispetto a qualsiasi interferenza straniera.

Il sipario era calato sulle turpi attività di Marozia che, solo nel 955, ancora reclusa e quasi sessantenne, apprese dell’investitura pontificia di Giovanni XII, sedicenne figlio di Alberico.

Degno erede della dinastia, egli fu considerato una delle più turpi espressioni di quella Roma Deplorabilis secoli più tardi alla base della ribellione di Lutero: «…il più famigerato quanto a scandali: Papa feudale quant'altri mai, immischiato in tutti gli intrighi in cui si disputava la sorte della Città Eterna, sul suo conto si riferiscono le peggiori storie di banchetti orgiastici… in cui i convitati brindavano a Lucifero!...».

Lo si volle simbolo d’ogni peccato mortale, per aver abusato della madre e delle sorelle; per aver trasformato il Laterano in un bordello; per aver intascato una fortuna in ex voto; per aver nutrito una scuderia di duemila cavalli con mandorle e fichi conditi nel vino; per aver officiato senza aver mai assunto il sacramento della comunione; per aver evirato e personalmente assassinato un Cardinale a lui ostile.

Conferma di tale condotta risiede nelle roventi parole scrittegli dall’Imperatore Ottone il Sassone nel 961: «…Tutti quanti, religiosi e laici, accusano Voi, Santità, di omicidio, spergiuro, sacrilegio, incesto con le vostre parenti, comprese due vostre sorelle, e di aver invocato, come un pagano, Giove, Venere ed altri demoni…».

Non a caso, Giovanni XII morì ventiquattrenne per mano di un cittadino che lo aveva sorpreso in flagrante con la propria moglie.

All’oscuro della più parte degli eventi succedutisi nel perdurare della sua detenzione, Marozia concluse il suo percorso nel crudo isolamento decretato da quel figlio che ne aveva stroncato l’irriducibile smania egemonica.

Amante di Papi; madre d’un Papa; nonna d’un altro Papa, la donna che aveva fatto tremare Roma dal 905 quando, forte solo d’una eccezionale avvenenza e di un groviglio di intrighi, aveva amministrato per decenni la sessualità episcopale nell’intento di guadagnare alla sua famiglia un Principato in Italia centrale; la effettiva depositaria del potere spirituale e temporale di quel secolo; la probabile ispiratrice della fosca leggenda medievale della Papessa Giovanna, fu forse esorcizzata; assolta e giustiziata da Gregorio V.

Esigue sono le fonti di consultazione, a parte i non disponibili atti vaticani. E’ certo tuttavia, che quanto di ella si conosce è sufficiente a collocarla nel novero dei personaggi femminili più foschi, prestati al potere maschile ed inclini all’uso spregiudicato dell’alcova.

In quell’epoca in cui le donne influenzarono le scelte politiche e fomentarono complotti e vendette, ella forse fu, come scrisse il cronista Liutprando, una di quelle che amavano avere due padroni per tenere in rispetto l’uno per mezzo dell’altro.

Ma ebbe davvero padroni, o fu padrona?

Ed infine: censurabile la sua dissoluta condotta, o quella dei suoi depravati Pontefici?

Vale il richiamo alle conclusioni del Concilio Vaticano I: «…la Chiesa può andare avanti benissimo senza i Papi… Gesù è il capo della Chiesa e non il Papa…»!

Bibliografia:

G. Di Capua: Marozia. La pornocrazia pontificia attorno all’anno Mille

http://www.italiamedievale.org/sito_...i/marozia.html