Vi propongo questo articolo per sottolineare un pensiero che ho sempre avuto... fino a quanto e fino a dove può dirsi autenticamente cattolica una comunità? Oggi soprattutto, le chiese, alla domenica mattina, sono tutto fuorché vuote... ma di coloro che le frequentano, quanti agiscono e pensano e pregano e VIVONO da cattolici? E con questo non intendo vivere da santi, anzi tutt'altro, ma vivere con la COSCIENZA di essere radicalmente diversi da tutti coloro che cattolici non sono, e avere coscienza del significato di tale divergenza. Pensare in modo diverso, prima ancora di agire. E quanto cattoliche erano le comunità prima di noi? Quelle rurali, delle cui pratiche di devozione e ritualità magari siamo innamorati, ma che nascondevano anche tante cose per nulla cattoliche...
Il falso delle "chiese vuote": la presenza c'è, ma lo spirito e la vita dove sono? - Papalepapale
Per carità, non mi piace fare il criticone a prescindere, lo zelante amaro, anche perché ben pochi crederebbero che io sia poi così zelante. Però mi piace osservare da “esterno”, laicamente i fenomeni religiosi. E delle questioni riesco a vedere e sentire le cose positive e negative: perché anzitutto sono una persona intelligente, e sensibile. Libera anche.
Guardo questo giovane parroco della Matrice in un paese salentino. A suo modo molto ortodosso, belle prediche e se lo dico io così è: dicono abbia studiato molto da sé, e a Roma, senza limitarsi alle frigide nozioni protestanti che vengono impartite nei lincei “cattolici”. E’ un grande vanitoso, è evidente, onde è lui il vero protagonista sull’altare, in cuor suo così si sente, e si gasa assai: gli piace da morire avere un grande “pubblico” davanti al quale pavoneggiarsi seppure da sacerdote magno. Io queste cose le capisco, anche la gente le ha notate. Per questo, anche per questo un tempo i preti erano messi di spalle e solo all’omelia potevi vederne il volto: per evitare di scambiare il presbiterio per un palcoscenico, per scansare qui pro quo tra Cristo e l’alter Christus: un rimedio alla vanità. Ecco perché andrebbero tutti rigirati di spalle.
Vedo questo arciprete della Matrice, dunque. Nei giorni convulsi dello stazionamento del corpo di Santa Lucia, calato da Venezia qui in paese, dove c’è il santuario dedicato alla Gran Siracusana: un corpo di quanto, di 90 cm? Quello di una bambina: chissà a chi è appartenuto veramente, secoli fa. Insisto: è un falso, il corpo e la santa, reputo che tutta la storia agiografica di Santa Lucia corrisponda a uno dei tanti tentativi di “conversione” dal pertinace paganesimo dei popoli meridionali, onde i loro idoli, le semidivinità pagane furono cristianizzate mutandone connotati e nomi. Ecco, probabilmente questo è pure il caso e la storia di Lucia. Non ho grande amore per le reliquie, per i corpi santi, provo qualche fastidio per il devozionismo popolaresco con risvolti quasi feticistici: ma riconosco essere tutte queste cose importanti per salvaguardare la necessaria “materialità” del cattolicesimo. Religione quant’altre mai incarnata: un rimedio alla malaria dello spiritualismo.
Ma il prete, dicevo. E’ tutto esaltato, dice, perché «mai ho visto tanta gente», alle sue messe, tant’è che deve replicarle, fare il bis all’esterno. Come a teatro. E non sta nella pelle: occasione d’oro per esibire tutto se stesso dinanzi a tanto variopinto e cangiante pubblico. Un bravo prete, in fondo. Che come tutti i vanitosi, non sopporta e non accetta critiche.
Sì tutto bello. E troppo umano.
Osservo questi fedeli qui, tanti, davvero tanti, da giorni, di ogni dove, e so bene che è falsa la voce secondo cui le chiese sarebbero vuote. Non è vero, dalla Germania all’Italia, dagli Usa alla Francia le chiese alla domenica sono sempre piene: sono stato a Parigi in pieno agosto, e alla domenica le messe in centro erano piene, nella chiesa dei lefebvriani traboccavano. Ma non bisogna farsi ingannare.
La presenza c’è. Ma lo spirito e la vita dove sono? Guardo questa miriade di gente che brancola in cerca di non si sa cosa, di qualcosa, di un rito sociale forse, forse dell’ineffabile senza nemmeno saperlo. O forse stanno lì come quella signora pensionata che a Pasqua uscendo da messa candidamente ammise: «Sono stata a messa, anche perché non avevo niente da fare, che c’è da fare qui di diverso la sera?».
Li osservo e constato che la loro vita procede a prescindere dal pensiero e dai tempi della chiesa. Che tutto sommato, forse, per loro la fede cattolica è quella cosa con la quale o senza la quale tutto resta tale e quale, ormai. Li osservo bene e capisco qual è la nota stonata, il conto che non torna e che guasta questi lusinghieri numeri rendendoli irrilevanti: manca completamente la catechizzazione, il catechismo cattolico è del tutto assente dalle loro teste, alieno dalle loro azioni. Semplicemente non esiste. La pratica di culto c’è ancora ma è svuotata, si scarica sulla prassi il valore che dovrebbero avere i fatti della vita. Ossia manca completamente il raccordo tra vita e fede, e se la condotta di vita incide sulla fede, non succede il contrario: la vita procede la sua marcia sazia e indifferente e la fede se ne va per conto suo. Un raccordo tra fede e vita che solo il catechismo rende possibile. Ma proprio il catechismo manca.
E’ questa la sfida. La sfida della nuova evangelizzazione che tarda sempre più, quasi giungendo fuori tempo massimo, oltre il 90° minuto qui in Occidente. Sta qui tutta la sfida che l’anacronismo clericale sembra a tutti i costi voler perdere, dando per scontata la vittoria del mondo e del tempo. Anche perché il Vangelo è del tutto inutile, è pura teoria, raccolta di storie magari edificanti ma irrilevanti, un’etica civile come un’altra se sganciato da quel manuale pratico, da quel libretto delle istruzioni che è il Catechismo. Che ci insegna come davvero si mettano in pratica gli insegnamenti evangelici: ci spiega come si sta al mondo da cristiani. Perché la fede è questo: sapere delle cose, credere delle cose, fare delle cose. Il “cosa”, con dovizia di particolari è spiegato, appunto, nel Catechismo. Ma questo dato ci manca.
Da qui l’incoerenza di fondo fra parole e fatti, tra convincimenti e fede, tra vangelo e vita.
Non facciamoci incantare dai numeri, piccoli o grandi che siano, quando osserviamo i fenomeni religiosi o apparentemente tali. La fede di un popolo si pesa e non si conta: se su un piatto della bilancia deve esserci il cuore del singolo, sull’altro occorre ci sia il Catechismo. Se si equivalgono, quel che ne deriva sarà poi moltiplicazione di pani e pesci, tolto questo, tutto il resto sono chiacchiere.
Mi ha colpito, ma neppure tanto, che tutti quanti (tranne io) poi vadano a fare in massa la comunione: ci si chiede in base a cosa si sentano ciascuno la coscienza a posto, sino a tal punto. Sino al punto, si presume, di glissare sulla confessione. Del resto non m’aspetto molto da confessioni che durano 30 secondi e dove, mi dicono (e lo ammetto: talora non volendo ho pure origliato), gli stessi fedeli confessano… di andare lì a riferire che tutto sommato peccati non ne tengono. Anche perché “non ho ucciso nessuno”. Il che sarebbe pure vero, se l’omicidio fosse solo sparare a una persona con una pistola: certe volte basta la lingua, un pensiero, una omissione, l’indifferenza. Il catechismo lo dice, ma tutti questi qui che ne sanno?