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    Predefinito Re: La macroeconomia Keynesiana applicata all'anomalia italiana.

    I keynesiani per caso e il Tract on monetary reform (KPD11, parte prima)





    (...sono stanco dei keynesiani per caso. Il livello di falsificazione storica e di disonestà intellettuale raggiunto dal dibattito italiano è del tutto proporzionato alle dimensioni della crisi attuale: non ha precedenti storici. In due post schiero le batterie, e poi inizierò a cannoneggiare. Bestemmiate chi vi pare, ma Keynes no, non vi conviene, perché quello che intendeva lo ha scritto, e lo ha scritto in modo chiaro. Chi cerca di piegarlo alle proprie esigenze di bassa cucina politica si espone a una inevitabile figura di cioccolata - o di Nutella...)


    Nel capitolo quarto del Trattato sulla riforma monetaria, scritto nel 1923, Keynes si sofferma su quali siano le alternative fronteggiate dalla politica monetaria. Per intendere queste alternative, e la loro rilevanza attuale, e anche per, come dire, prendere civilmente le distanze da certi keynesiani per caso, è essenziale porre questo capitolo, e le sue conclusioni, nel contesto generale dell’opera, che può essere agevolmente consultata qui(almeno, dai lettori non diversamente europei: gli altri troveranno da qualche parte una traduzione nella loro lingua di riferimento...).


    Il Trattato segue un percorso logico ben preciso, molto nitido. Keynes ha la virtù di farsi capire, che procede, come sempre, e come forse avrete potuto constatare in tempi meno remoti, dall’aver nozione chiara di ciò di cui si parla, e dal non essere pagato per sparar fumogeni (oltre, naturalmente, dall’aver ereditato un DNA non scadente, e dall’esser cresciuto in mezzo a libri senza fottute figure: condizioni queste necessarie, ma largamente non sufficienti e certamente non meritorie: il caso esiste). Seguire Keynes, quindi, oltre ad essere un dovere, è anche e soprattutto un piacere.


    Non voglio qui farvi l’edizione Simone del Trattato, ma solo soffermarmi su alcuni snodi critici, quelli appunto che occorre considerare per mettere in prospettiva tre cose: il capitolo quarto del Trattato stesso, il pensiero di Keynes (variamente stravolto a fini tattici da una ridda di sconclusionati personaggi in cerca di editore), e (last but least) il lavoro che stiamo svolgendo da anni in questo blog. Può darsi che a qualcuno i nodi che sceglierò di mettere in evidenza sembrino cherry picking. Siccome siamo ormai abituati a un Keynes à la carte, il rischio magari esiste, e chi ritiene, sulla base di una lettura attenta e non della solita sterile volontà di rompere i coglioni o di far vedere che lui ce l’ha lungo (il CV) che Keynes abbia detto anche o solo altre cose rispetto a quelle che metterò in evidenza è benvenuto: esponga, e poi, a seconda dei casi, o gli risponderemo, o lo esporremo.


    Appese fuori dalle mura di questo blog ci sono tante gabbie, e dopo qualche anno ormai non se ne distingue più il contenuto...


    Le conseguenze redistributive dell’inflazione
    I primi due capitoli del Trattato analizzano in dettaglio l’impatto dell’inflazione sulla distribuzione del reddito e sul processo di produzione (capitolo primo), quindi il ruolo dell’inflazione come strumento di imposizione fiscale “occulta”, posto a diretto confronto con lo strumento esplicito dell’imposta patrimoniale (capitolo secondo).


    Nel contesto di un generale apprezzamento espresso per una evoluzione stabile dei prezzi (ma del resto, chi farebbe, ieri come oggi, l’elogio di un’inflazione al 300%?), e dopo aver proposto una ragionevole ed argomentata valutazione dei costi che l’incertezza in generale determina per il sistema economico, il primo capitolo smonta subito la favoletta “de sinistra” e “de destra” secondo la quale l’inflazione sarebbe nemica dei percettori di reddito da lavoro, quelli che Keynes chiama “the earners”.Sottolineo, perché repetita juvant, il fatto che se Giannino e Bellofiore, se Zingales e Brancaccio, se Galli e Realfonzo, sono d’accordo su una cosa (ad esempio, che l’inflazione sia nemica dei redditi da lavoro dipendente), stante che queste tre coppie di gentili colleghi procedono da percorsi accademici, hanno produzione scientifica, ed esprimono orientamenti ideologici estremamente diversificati, ci troviamo di fronte a una singolare coincidenza che deve attirare la nostra attenzione. Può darsi che pensieri tanto discordi si coagulino intorno a un nucleo di verità fattuale incontrovertibile (suppongo che anche per Giannino sia la Terra ad orbitare attorno al Sole, ma onestamente avrei timore di chiederglielo...), nel qual caso apprezzeremmo l’onestà di chi si inchina almeno all’evidenza; ma può anche darsi che questa coincidentia oppositorumsia il risultato di un posizionamento tattico a difesa dello statu quo dalla trincea (minata) di una sesquipedale lieve imprecisione (e questa, come sapete, è l’ipotesi che esploro nel quarto capitolo del mio ultimo libro, dove descrivo le opposte ma coincidenti logiche di austeriani e appellisti). I dati sono la migliore discriminante, come sappiamo, e anche Keynes da essi procede. Le sue conclusioni sono a pag. 30 e credo non ci sorprendano particolarmente, alla luce di quanto ci siamo sempre detti in questo blog:





    Come vedete, per Keynes è assolutamente ovvio quello che i dati ci confermano e che solo studiosi affetti da “differente onestà” intellettuale possono negare: in una moderna economia monetaria (e la nostra non è poi così diversa da quella nella quale lui operava: invito chiunque a darmi esempi del contrario, sono in vacanza e voglio farmi due risate) “on the whole” (cioè: tutto sommato) l’inflazione è “beneficial” (questo potete tradurlo da voi) per lo “earner” (cioè inteso come wage-earner – p. 27 del Trattato, cioè il percettore di salari, di redditi da lavoro dipendente....). Questo è quello che dicono i dati, e abbiamo ragionato a lungo sul perché i dati dicano questo. Il ragionamento di Keynes non è così dissimile dal nostro e chi lo vuole se lo può andare a cercare. Del resto, è un ragionamento di puro buon senso.


    Notate un dettaglio che tale non è: per l’ovvio motivo che la coperta è corta, una cosa che è beneficial per qualcuno (i produttori – business men – e i dipendenti – earners) non potrà essere beneficial per tutti. Chi ci va di mezzo sono gli investors, cioè quelli che, in un sistema capitalistico che consente di separare la gestione di una società dalla sua proprietà, hanno corrisposto somme di denaro per acquistare quote di una società amministrata da altri allo scopo di ricevere una rendita e godersi in pace la vecchiaia (ovviamente sto semplificando). Certo che a loro, se il contratto è stipulato in termini nominali (ti do un certo capitale in cambio di un pagamento fisso in termini di unità monetarie) un aumento dei prezzi fa parecchio male: con le stesse unità monetarie regolarmente percepite, all’aumentare dei prezzi la vita se la godono progressivamente meno.


    Scaturiscono da qui due ovvie considerazioni.


    La prima è che l’inflazione non può essere vista come alternativa praticabile per risolvere sempre e comunque i problemi di tutti, e questo nessuno ovviamente lo ha mai né detto né pensato, eccetto quella torma di fastidiosi inetti accomunati dalleggere solo le copertine dei libri, e dal mettere in bocca altrui parole mai pronunciate. L’inflazione è ingiusta col risparmiatore e in questo senso mina l’accumulazione di capitale e le prospettive di crescita a lungo termine: questo ci dice Keynes a p. 31





    e credo che possiamo essere d’accordo con lui. Si tratta però di vedere quanta inflazione abbia queste conseguenze avverse, e questo Keynes lo valuta, ma gli imbecilli, per definizione, no. Va notato che nel parlare degli effetti distruttivi dell’inflazione, Keynes fa sempre esplicito riferimento a episodi che oggi definiremmo di iperinflazione:Germania, Austria, Russia (p. 51):






    Un’inflazione negativa, cioè una deflazione, ha d'altro canto conseguenze distributive speculari rispetto all’inflazione positiva (cioè all’inflazione tout court): avvantaggia ingiustamente il rentier e per questa strada schiaccia le classi produttive attraverso l’onere della tassazione (credo che ci sia chiaro come il peso delle imposte che paghiamo vada direttamente – tramite debito pubblico – o indirettamente – tramite salvataggio di società finanziarie private – a tutelare il reddito dei rentier in questo periodo, oltre i limiti del lecito e del razionale; p. 32 del Trattato):




    (integrando “international rentier” e “national community” capite cosa sta succedendo adesso).


    Se lo svilimento del valore reale (cioè del potere d'acquisto) del risparmio è il principale costo a lungo termine dell’inflazione, l’aumento del valore reale dell’onere del debito (e quindi della tassazione) è il principale costo a lungo termine della deflazione, dove il costo in entrambi i casi è determinato dal fatto di scoraggiare il processo produttivo, che nel primo caso (inflazione) soffoca per mancanza di risparmio e quindi di credito, mentre nel secondo (deflazione) soffoca per mancanza di profitti erosi dalla tassazione, oltre che per l'effetto deleterio della deflazione sulle aspettative, ben descritto da Keynes a p. 37:





    Nota che ovviamente il costo per alcuni (i contribuenti, gli imprenditori - anche in quanto contribuenti) è un profitto di altri (i rentier). Non è detto che i due soggetti siano separati né separabili con precisione chirurgica. In molti casi coincidono, e vanno quindi in confusione, non essendo essi stessi in grado di percepire nemmeno a livello individuale se il saldo fra ciò che li danneggia in quanto contribuenti e ciò che li avvantaggia in quanto rentiers sia positivo. E se non riescono a fare i conti in tasca a se stessi, figurati se ci riescono in termini “sistemici”: tanto il sistema sono gli altri, quelli che la crisi ha colpito...


    Un giusto mezzo si può avere? Forse, ma per averlo occorre mediazione politica e consapevolezza degli interessi in campo.


    Qui arriva la seconda considerazione: è spettacolare l’inconsistenza intellettuale e la miopia politica dei difensori dell’euro “de sinistra”. Una formidabile deficienza cognitiva che offusca a loro, e fa loro offuscare ad altrui, quali siano gli interessi in gioco.


    Dato che l’euro ha una ovvia tendenza deflazionistica (Keynes la vedeva bene – ne parliamo dopo – e noi col senno di poi la vediamo meglio: è la svalutazione interna, bellezza...), ne consegue che i difensori dell’euro “de sinistra” in realtà stanno difendendo quelli che dalla deflazione sono avvantaggiati, ovvero i rentier. L’euro a questo serve, a livello individuale come a livello nazionale: a consentire che i simpatici Gollum rivedano intatto il loro tesssssoro, non eroso dalla lebbra dell’inflazione! Intendiamoci: nel Signore degli anelli non so, perché non l’ho letto e credo non lo leggerò mai, ma nel capitalismo i Gollum servono! Il capitalismo da questo trae la sua forza: dalla capacità di mobilitare e avviare a impieghi si spera produttivi ingenti risorse finanziarie, che un singolo non potrebbe mai accumulare (salvo eredità, che però oggi i libberisti alla Quaresima vogliono tassare, perché occorre che tutti, tranne gli amici loro, ripartano da zero...). Poi se non piace il capitalismo ve l’ho già detto: mi dite dov’è il Palazzo d’inverno, mi fate un fischio e arrivo subito (le cartucce le pagate voi, però...).


    Nell’attesa della ecpyrlosis (sic), della palingenetica rivoluzzzione proletaria, per non sbagliare, er Nutella, er Melanzana, gli utili tsiprioti, cosa fanno? Difendono un sistema nel quale la rendita cresce a dismisura (perché la deflazione ne accresce il potere d’acquisto, evidentemente a danno di quello dei lavoratori, tassati per pagarla: nihil ex nihilo), salvo poi esigere, dopo, l’imposizione di tasse sulle rendite (cioè sui risparmi), per rimediare a valle agli squilibri distributivi che essi stessi hanno promosso a monte difendendo l’euro!


    Spettacolo!


    Oltre agli effetti redistributivi, avversi ad alcuni, quindi propizi per altri, la deflazione ha effetti negativi per tutti, dato che scoraggia la produzione (e causa disoccupazione), per i motivi sopra esposti. Nel mondo degli utili tsiprioti, der Nutella, ecc. (insomma: della melma di pseudosinistra proeuro) assistiamo al paradosso per il quale gli effetti avversi della deflazione (ingrasso dei rentier e scoraggiamento della produzione di valore) si presentano accompagnati dagli stessi effetti deleteri di scoraggiamento del risparmio che normalmente ci si attendono dall’inflazione (come sopra illustrato). Nell’inflazione il risparmio è scoraggiato perché se ne sbriciola il potere d’acquisto via aumento dei prezzi, ma nella deflazione è scoraggiato perché se ne sbriciola il potere d’acquisto via tasse. Sono fantastici gli utili tsiprioti, questa marmaglia che credeva di tifare Leonida e ancora non ha capito di aver tifato Efialte! La loro gestione della distribuzione del reddito è isomorfa alla gestione del porco da parte del contadino. Il contadino prima ingrassa il porco e poi, dopo l’estate, lo scanna. Gli utili tsiprioti, gli economisti “de sinistra”, prima ingrassano il rentier con l’euro, e poi lo scannano tassandolo (anche qui, spesso dopo l’estate). Due cerimonie pagane nelle quali si scatenano i peggiori istinti: la cruenta uccisione del porco libera la violenza ferina che giace sopita dentro di noi, e la tassazione del rentier scatena la più squallida, ma non meno bestiale, invidia sociale, l’odio verso chi ha più di noi per il semplice fatto che ha più di noi, senza alcuna considerazione di come questo eventuale surplus di beni materiali si sia prodotto (e ci saranno stati percorsi giusti e percorsi ingiusti). L’Italia è così, e noi così la amiamo: il 51% di imbecilli che idolatravano Berlusconi, pensando che avrebbe fatto i loro interessi perché aveva fatto i suoi (senza chiedersi come avesse fatto i suoi), e il 51% di imbecilli che detestavano Berlusconi perché avrebbero voluto scoparsi quello che si scopava lui, senza porsi una serie di altre domande che per pudore qui tralascio. Siamo un grande paese, almeno numericamente: l’unico nel quale gli elettori sono il 102% della popolazione. Ma vedete, i simpatici economisti “de sinistra” che difendono l’euro ignorano un dettaglio: nel ciclo del porco la fase finale, ancorché non consigliabile ai deboli di stomaco, è tutto sommato priva di conseguenze sistemiche (se non per il porco, va da sé: del resto, mi aspetta un pranzo a base di mora romagnola, quindi io a queste conseguenze sistemiche sono predisposto...). Nel ciclo del rentier la fase finale è la guerra civile, e se non ci credete, aspettate tranquilli.


    (...è molto interessante, e legata a queste considerazioni – ma la lasciamo per un’altra volta – l’analisi che Keynes propone del processo inflattivo come strumento alternativo a una imposta patrimoniale per sgravare lo Stato dall’onere del proprio debito (nel capitolo II). Le considerazioni politiche che Keynes svolge valgono in gran parte ancora oggi, ma, naturalmente, se ne parlate a un fine politologo, lui vi dirà che “oggi c’è la Cina...”...)


    Il quadro teorico: la teoria quantitativa
    Nel III capitolo Keynes definisce il quadro teorico di riferimento nel quale analizzare la variazione del valore interno (il purchasing power – potere di acquisto – o commodity value – valore in termini di merci) e quello esterno (il tasso di cambio) di una moneta. Lo schema, sul quale qui non ci dilunghiamo, si basa su due “capi spalla” del guardaroba di ogni economista: la teoria quantitativa della moneta, e la teoria della parità dei poteri di acquisto. Per i furbi ed "espertologi" (copyright Barra Caracciolo): sì, bravi, avete visto bene: Keynes arriva a conclusioni keynesiane usando strumenti neoclassici. Del resto, a quali conclusioni sarebbe potuto arrivare, Keynes?


    Per gli altri, chiarisco.


    Nella loro forma più becera, le due teorie alle quali Keynes si appoggia per sviluppare il proprio ragionamento sono riassunte da due equazioni molto semplici, che ci converrà analizzare anche formalmente, per evitare equivoci. D'altra parte, i post tecnici li volete voi, non so bene perché...


    La teoria quantitativa viene usualmente espressa così:


    MV = PY


    dove M è la quantità di moneta, V la sua velocità di circolazione (il numero di volte che una unità monetaria passa di mano in media durante il periodo di riferimento considerato – ad esempio l’anno), P è il livello medio dei prezzi e Y è il prodotto in termini reali, cioè il volume di beni prodotti. Dato che si presuppone che in un’economia di mercato si produca per vendere, la quantità di prodotto è presa come indicatore della quantità di transazioni svolte (scambi di prodotti), e il valore del prodotto (PY, prezzo per quantità) è preso come indicatore del valore delle transazioni svolte. Dato che le transazioni sono passaggi di denaro in cambio di qualcosa, il loro valore complessivo deve coincidere, per definizione, con quanto denaro è in circolo (M) moltiplicato per quante volte è passato di mano (V). Insomma: quella che vedete qua sopra non è un’equazione, una relazione matematica dalla quale debba, se pure con l’amabile tautologia del ragionar matematico, scaturire una incognita. No: è un’identità, un mero fatto contabile, che esprime, per capirci, il fatto che se un chilo di pere costa tre euro e devi comprare un chilo di mele (lato destro della formula), dall’altra parte hai da caccia’ tre euro (lato sinistro della formula), e che se in un anno di chili di pere ne devi comprare due, non è necessario che ci sia una massa monetaria di sei euro (da spendere tre alla volta per due volte: 2x3=6): basta che i tre euro disponibili circolino, rientrandoti in tasca in qualche modo (ad esempio via stipendio), per cui la massa monetaria può tranquillamente essere una frazione del totale del valore dei beni e servizi che con questa massa monetaria si acquistano.


    (...molto interessante la disamina storica di quale e quanta sia questa frazione, svolta da Keynes alle p. 78 e seguenti del Trattato, dalla quale si vedono due cose: la prima, che il problema di “quanta” moneta fosse necessario “stampare” per assicurare il regolare svolgimento delle transazioni è antico quanto l’economia – il primo a porselo in termini “moderni” risulta essere William Petty; la seconda, che a differenza di Alesina o di Puglisi, Keynes si curava poco di essere o sembrare “sulla frontiera della ricerca”: piuttosto che riscoprire l’acqua calda con il terzultimo imparaticcio di matematica – strategia essenziale per avere successo in termini di pubblicazioni “scientifiche” – in tutta evidenza preferiva studiare gli economisti che lo avevano preceduto, magari anche quelli di un paio di secoli prima, attenendosi alla sostanza del problema...)


    Un’identità non è una teoria. La descrizione di un fatto non è a spiegazione di un fatto.Una relazione che lega tautologicamente quattro variabili non ci dice nulla su quale variabile eventualmente “causi” le altre. Sappiamo che per i neoclassici beceri, alla Giannino/Zingales, la relazione precedente implica che l’inflazione sia determinata dal tasso di crescita dell’offerta di moneta (come vi ho spiegato a p. 131 e seguenti de L’Italia può farcela, e passim nel Tramonto dell’euro – a p. 16 e a p. 199 e seguenti – il sogno dal fruttarolo...). Quelli che io chiamo neoclassici beceri, Keynes li chiama gli old-fashioned advocates of the sound money principle, e per capire cosa c’è che non va nella loro testa forse ci conviene utilizzare qui la rappresentazione della teoria quantitativa fornita da Keynes. Keynes la scrive così:


    n = pk


    dove n è la quantità di notes in circolazione (insomma, è M, la massa monetaria), p è il livello dei prezzi (P), e quindi k corrisponde a Y/V. La definizione di Keynes è più articolata:






    Per Keynes, k esprime la quantità di potere di acquisto che il pubblico desidera detenere in forma monetaria per effettuare transazioni (acquisto di beni e servizi), espressa in numero di consumption units, cioè di un paniere standard di beni di consumo (come quelli utilizzati per calcolare gli indici di prezzo). Insomma: invece del volume della produzione, Keynes considera il volume degli acquisti, e nella sua formulazione la velocità di circolazione non compare esplicitamente (ma viene discussa a p. 78 quando si dice che la quantità di moneta desiderata (per lo scopo delle transazioni) dipende dagli habits del pubblico (e dalla sua ricchezza).


    Il discorso che fa Keynes è molto semplice: potremmo stabilire una corrispondenza diretta fra moneta emessa e livello dei prezzi solo se ipotizzassimo che k sia costante, o meglio, che sia indipendente da n (dalla quantità di moneta: Keynes esprime il concetto parlando di indipendenza di n da k, ma naturalmente per Keynes, che era una persona normale, sek è indipendente da n, allora n è indipendente da k...). In questo caso, cioè se la moneta emessa non influisce su k (e quindi né sulla produzione Y, né sulla velocità V), livello dei prezzi e quantità di moneta si muoveranno di conserva. Se k = 2 (numero messo assolutamente a caso), quando n = 200 allora p = 100 (perché 200 = 2x100), e se n = 400 allora p = 200 (perché 400 = 2x200). Insomma: al raddoppio della quantità di moneta, corrisponde un raddoppio del livello dei prezzi: Giannino/Zingales, per capirci.


    Ma Keynes argomenta che questa relazione così meccanica può valere, forse, solo nel lungo periodo, perché nel breve periodo la quantità di moneta influisce e come su k!Tutto questo, mi rendo conto, al povero supplente ingiuriato da Renzi, al gastroenterologo dilettante che vuole fare “er movimento dar basso”, all’imprenditore che “lo Stato mi tassa quindi è mio nemico”, insomma: ai ciechi che ci circondano, può sembrare molto astratto, poco utile. D’altra parte, si sa che il pubblico ministero del processo a Gramsci concluse con “per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di fare un movimento dal basso!”.


    O no?


    No.


    Ed è proprio perché siamo circondati da persone incapaci di pensare che oggi non c’è (ancora) bisogno di un Mussolini e dei suoi processi politici...


    La questione se k sia costante (come credono Giannino e Zingales) o variabile (come credeva Keynes) non è per nulla astratta, e oggi qualcuno di voi dovrebbe capirla. Credo sia evidente come l’inceppamento del circuito monetario, il fatto che la “creazione” di moneta non riesca a riattivare il circuito del credito, il fatto che la moneta “stampata” non si converta in credito e in moneta (anche e soprattutto bancaria) prestata e spesa, compromette spesso in modo irrimediabile l’operatività di molte aziende. In condizioni come quelle attuali la moneta non è “neutrale”, ovvero priva di effetti sulla produzione. Quindi, aumentando la quantità di moneta che arriva alle aziende aumenterebbe anche la quantità di beni prodotti, cioè k. Insomma: oggi siamo in circostanze nelle quali se npassasse da 200 a 400, avremmo:


    200 = 100 x 2
    400 = 100 x 4


    Un aumento (per semplicità considero il caso assurdo di un raddoppio) della quantità di moneta provocherebbe un pari aumento della produzione, a parità di prezzi. Nel breve periodo la monetà non è neutrale, e Keynes fornisce una serie di esempi molto interessanti del perché e del per come (alle p. 80 e seguenti). L’analisi di Keynes insiste su due aspetti: i fenomeni di tesaurizzazione della moneta, e il ciclo del credito. Non entro in questi dettagli (entrateci voi, se vi piace). Il punto fondamentale sollevato da Keynes a p. 80 è che sì, sarà forse vero che la moneta nel lungo periodo è neutrale, cioè influisce solo sul livello dei prezzi, ma:






    Eh già! Sorpresona! Come sicuramente qualcuno di voi sapeva, la fatidica frase sul lungo periodo viene pronunciata da Keynes nel confutare Giannino e Zingales, cioè “i difensori fuori moda della teoria quantitativa” (i liberisti beceri), che poi sono quelli che in periodo di tempesta dicono che prima o poi il mare sarà di nuovo piatto, perché possono permettersi di aspettare...


    Voi direte: ma se Giannino e Zingales ancora non erano nati, come faceva Keynes a confutarli? La risposta è nella domanda, miei cari, ma siccome non escludo fra voi casi di beatitudine, ve la fornisco senza indugio e senza difficoltà: il fatto è che l'economia di Giannino e Zingales è qualcosa che sembrava rudimentale già a fine Ottocento, e che Keynes aveva asfaltato negli anni '30. Loro non c'erano, certo, ma le loro idee c'erano, ed erano già vecchie allora. "E perché vengono proposte oggi?". Ma anche questo ve l'ho spiegato: perché fanno comodo a una certa classe sociale, che, guarda caso, è quella che controlla i mezzi di informazione e quindi forma la coscienza collettiva...


    La conclusione di Keynes è limpida:





    e la sua fondatezza oggi dovrebbe essere evidente evidente.


    L’Eurosistema, che per i nostrani economisti “de sinistra” è stato a lungo il migliore dei mondi possibili (perché ci dava la pace e affratellava l'algonchino e il samoiedo), si basa esattamente su quello che Keynes nel 1932 dimostrava essere sbagliato: troppa enfasi nel mantenere un tasso di crescita costante dell’offerta di moneta (n per Keynes, M nell’equazione standard), e poca o nulla volontà (politica) di adattare la politica monetaria alle variazioni di k.


    Le riserve dei nostri economisti “critici” riguardano sempre i pretesi danni dell’austerità. L’austerità sarebbe di destra, ci viene detto. Ma chi oggi ci dice questo, nulla ha mai detto circa il fatto che la regola del tasso di crescita fisso dell’offerta di moneta (“keeping nsteady”, nelle parole di Keynes), che, come sapete, è il faro della politica della Bce (M3 doveva crescere al del 4% all’anno), è pinochettiana: la politica della Bce si basa sulmantra di Milton Friedman, padre spirituale dei Chicago boys. Mi trovate un Ventotene boy che si sia mai accorto di questo, che abbia mai deprecato l’indipendenza della Bce e il tipo di regole operative che questa si era data (al difuori della cornice dei Trattati, peraltro)?


    Io non ne ho contezza, ma a me l’economia sinceramente non interessa, per vari motivi, compreso quello che, come oggi ho inteso dimostrarvi, tutto è già stato detto...


    [continua]


    (...si apra la discussione, ma prima leggete. Voi pensate che io sia irascibile. Tornate sui classici. Quando, riemergendo dalla lettura, sarete anche voi come me abbacinati dalla sfolgorante malafede dei miei colleghi, capirete che in confronto a me Giobbe era un aspide. E se ve lo dice un crotalo, vi potete fidare...)


    (...potrebbe essere ignoranza. Peggio ancora...)




    http://goofynomics.blogspot.it/2015/...-tract-on.html
    NO ALL'INVIO DI ARMI IN UCRAINA!!!

  2. #12
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    Predefinito Re: La macroeconomia Keynesiana applicata all'anomalia italiana.

    Citazione Originariamente Scritto da Leviathan Visualizza Messaggio
    No, non è una tassa.
    Smetti di leccare i piedi ai grandi capitali finto sinistro confindustriale.
    Se non é una tassa perché c'era la scala mobile?

  3. #13
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    Predefinito Re: La macroeconomia Keynesiana applicata all'anomalia italiana.

    Ma hai letto l'articolo?
    Esci dal recinto mentale confindustriale servo del sistema
    NO ALL'INVIO DI ARMI IN UCRAINA!!!

  4. #14
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    Predefinito Re: La macroeconomia Keynesiana applicata all'anomalia italiana.

    Citazione Originariamente Scritto da Leviathan Visualizza Messaggio
    Ma hai letto l'articolo?
    Esci dal recinto mentale confindustriale servo del sistema
    Ho letto l'articolo e non mi hai risposto, e sono d'accordo sul fatto che l'inflazione non sia direttamente colegata alla massa monetaria, ma se l'inflazione non é una tassa perché era nevessaria la scala mobile?

  5. #15
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    Predefinito Re: La macroeconomia Keynesiana applicata all'anomalia italiana.

    Ancora con sta domanda idiota?
    Non è una tassa.

    Hai letto l'articolo?
    Lo vedi che tu e Keynes siete agli opposti?
    Lo vedi che di sinistra non hai nulla?
    NO ALL'INVIO DI ARMI IN UCRAINA!!!

  6. #16
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    Predefinito Re: La macroeconomia Keynesiana applicata all'anomalia italiana.

    Citazione Originariamente Scritto da Leviathan Visualizza Messaggio
    Ancora con sta domanda idiota?
    Non è una tassa.

    Hai letto l'articolo?
    Lo vedi che tu e Keynes siete agli opposti?
    Lo vedi che di sinistra non hai nulla?
    Se non é una tassa a che serve la scala mobile che tanto decantavi nell'altro thread?

  7. #17
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    Predefinito Re: La macroeconomia Keynesiana applicata all'anomalia italiana.

    Niente, il leccapiedi di Soros non riesce a fare 2+2
    E' all'opposto di Keynes ma si crede VERO socialdemocratico
    NO ALL'INVIO DI ARMI IN UCRAINA!!!

  8. #18
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    Predefinito Re: La macroeconomia Keynesiana applicata all'anomalia italiana.

    Lascia perdere la scala mobile (introdotta in un momento particolare della storia d'italia e rimossa poco dopo) e concentrati su questo:

    "mi credo keynesiano ma la mia visione di inflazione è all'opposto di quella di keynes"


    Magari prima o poi lo capisci che sei solo un liberista confuso, e in ogni caso sei la peggior minaccia per il proletariato
    NO ALL'INVIO DI ARMI IN UCRAINA!!!

  9. #19
    Agente Z
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    Predefinito Re: La macroeconomia Keynesiana applicata all'anomalia italiana.

    Aggiungo che il Keynes BLOG dove scrivono VERI keynesiani e non le parodie della finta sinistra sono sempre critici nei confronti del nazi euro
    NO ALL'INVIO DI ARMI IN UCRAINA!!!

  10. #20
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    Predefinito Re: La macroeconomia Keynesiana applicata all'anomalia italiana.

    Citazione Originariamente Scritto da Leviathan Visualizza Messaggio
    Aggiungo che il Keynes BLOG dove scrivono VERI keynesiani e non le parodie della finta sinistra sono sempre critici nei confronti del nazi euro
    Ma non propongono l'uscita unilaterale dall'Euro

 

 
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