Il 24 giugno avrà luogo la prima riunione del tavolo sulla rete di nuova generazione, alla quale il Viceministro Paolo Romani ha convocato assieme Telecom Italia e gli operatori alternativi. Se Telecom ha più volte riaffermato di voler proseguire da sola nei propri progetti, lo stesso Romani ha definito, con formula un po’ irrituale, il piano Fastweb, Vodafone e Wind per la cablatura di quindici delle maggiori città italiane “non bruttino”. Da questo punto di vista, l’aspetto più rilevante è l’acclarata disponibilità di tre operatori di telefonia, fra l’altro a capitale estero, ad affrontare un investimento infrastrutturale di larga portata in Italia. Tutto il dibattito di queste settimane si è consumato attorno al ruolo che potrebbe giocare Telecom nella nuova rete, ma raramente si è reso atto agli operatori alternativi della loro determinazione (“noi tre operatori andremo avanti in ogni caso”, ha detto il presidente di Fastweb Carsten Schloter). E’ proprio a fronte di questo impegno, che sarebbe opportuno avviare una riflessione su come aprire una “corsia preferenziale” per la banda larga - senza impiegare risorse pubbliche ma avviando percorsi di semplificazione e razionalizzazione. La priorità dev’essere, come ha scritto Franco Debenedetti (“La banda larga senza terza via”, Il Sole 24 Ore, 9 febbraio), rimuovere i vincoli dirigisti.
Questo è tanto più vero dal momento che un fattore chiave per il successo del progetto è l’individuazione di uno standard tecnologico omogeneo. La dispersione degli interlocutori (Stato, Regioni, Comuni) rischia di costituire un freno per lo sviluppo della rete di nuova generazione. Come ha notato Serena Sileoni (“Le strettoie della banda larga”, IBL, gennaio 2010 – PDF), è essenziale ridurre “il rischio amministrativo, ovvero quel rischio di perdita economica o mancato guadagno dovuta a un’amministrazione nella migliore delle ipotesi lenta, nella peggiore inerte e inefficiente, e comunque eccessivamente invasiva al punto da frenare gli investimenti”. Sulla semplificazione nel settore della banda larga è già in vigore il decreto legge n. 112/2008, convertito in legge n. 133/2008. L’art. 2 prevede infatti che gli interventi di installazione di reti e impianti di comunicazione elettronica in fibra ottica siano realizzabili previa denuncia di inizio attività, con “silenzio assenso” (fatte salve ovviamene le norme di sicurezza).
Sarebbe utile allargare le previsioni citate alle infrastrutture e agli impianti elettrici pertinenti. Se uno degli obiettivi dell’ammodernamento della rete è sanare il “digital divide” all’interno del nostro Paese, la semplificazione potrebbe anche investire reti di telecomunicazione differenti e parallele rispetto alla banda larga, come gli apparati con tecnologia di telefonia mobile di ultima generazione o i sistemi a rete di tipo wireless. Sempre l’art. 2 della legge 133/2008 prevede la possibilità di posare la fibra ottica nelle infrastrutture civili già esistenti di proprietà pubblica o comunque in titolarità di concessionari pubblici, senza oneri per l’operatore (salvo eventuale indennizzo se dall’opera possa derivare un pregiudizio alle infrastrutture civili esistenti). Dal momento che si stima che circa il 70% dell’investimento per una nuova rete di accesso sia costituito dai lavori civili per scavi e cavidotti, bisogna spingere i privati ad aprire le proprie canaline: defiscalizzare le ristrutturazioni che prevedano le canaline per fibra, snellire le procedure di ottenimento di permessi per nuovi lotti se prevedono canalizzazione di allacciamento a dorsali in fibra, pensare a strumenti che incentivino fortemente la "condivisione" di questi spazi.
E’ molto importante che il legislatore abbia chiara la differenza cruciale fra la vecchia rete Telecom e una nuova rete eventuale costruita dai suoi competitor. La differenza cruciale non è un fattore tecnologico, ma in senso lato politico: da una parte, avevamo un monopolio naturale creato e sostenuto da risorse pubbliche. Dall’altra, abbiamo una nuova infrastruttura finanziata e realizzata da privati. Ecco perché avrebbe senso usare davvero due pesi e due misure. La richiesta degli operatori alternativi, di una garanzia dell’accesso a cavidotti e infrastrutture civili a prezzi effettivamente orientati ai costi sostenuti da Telecom Italia, è ragionevole proprio perché la rete Telecom non è il frutto dell’attività di un privato: ma quel che resta di un monopolio legale. Una nuova rete sarebbe per l’appunto “alternativa” all’esistente e in competizione con essa.
Per questo, in assenza di una partecipazione dell'incumbent, avrebbe senso che le regole che governano la nuova rete fossero concordate fra gli operatori che vi hanno investito, sulla base dell’ovvia esigenza di garantire un ritorno su un investimento tanto imponente. E’ vero che l’Unione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro la “vacanza regolatoria” che la Germania voleva garantire a Deutsche Telekom. Eppure, non dovrebbe sfuggire la differenza che passa fra la creazione di una infrastruttura “nuova” e l’ammodernamento della rete a disposizione dell’operatore dominante ex pubblico. Questa libertà nel fissare le regole d’accesso, perlomeno per un tempo determinato (sulla base di stime circa la profittabilità della nuova infrastruttura), non solo contribuirebbe a rendere meno impervi gli investimenti, ma sarebbe coerente con i principi della concorrenza. Se i diritti di proprietà sulle nuove infrastrutture contano nulla, è improbabile che si trovino attori incentivati a realizzarle. Una nuova rete realizzata in condominio dagli operatori alternativi potrebbe essere ben governata da un contratto fra condomini.
Abbassare assieme l’asticella del rischio “amministrativo” e quella del rischio “regolatorio” potrebbe rendere più rapido e conveniente costruire la nuova rete. Magari queste misure potrebbero saldarsi ad incentivazioni di carattere fiscale. Anche così, si può evitare che la discussione sulla banda larga finisca in un vicolo cieco.
Da Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2010
IBL - Banda larga fuori dal vicolo cieco