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    Predefinito Maurizio Viroli - Maestri dimenticati

    Guido Calogero, la fede laica nella democrazia





    In tempi come questi, così tristi per povertà d'idee, pochezza degli uomini politici, corruzione dei costumi, è utile, se non altro per immaginare mondi diversi, cercare maestri dimenticati. Un buon inizio è Guido Calogero, filosofo e giurista, che conosce grande fortuna nel dopoguerra presso le più importanti università del mondo. Muore a Roma nel 1986. Oggi è conosciuto da pochi, amato da pochissimi.



    Nasce a Roma nel 1904 da padre siciliano e madre marchigiana. Si laurea in Lettere alla Sapienza ad appena ventuno anni. I suoi interessi principali di quel periodo sono la filologia classica e la poesia prima, la filosofia antica poi. A ventitré anni ottiene la libera docenza in storia della filosofia antica e a ventisette vince la cattedra universitaria. Nel 1937 si laurea anche in Giurisprudenza. Da quel periodo la sua ampia produzione scientifica è strettamente connessa con il suo impegno politico, civile e sociale. Giusto settant'anni or sono, nel 1945, Guido Calogero pubblica a Roma Difesa del Liberalsocialismo. Punto di partenza della sua riflessione è il Primo manifesto del liberalsocialismo, elaborato con Aldo Capitini a partire dal 1937 e redatto nel 1940. Tesi fondamentale di Calogero è che la prospettiva politica e morale per un'Italia che volesse rinascere dalla tragedia del totalitarismo fascista, doveva essere una saggia alleanza fra il miglior liberalismo e il miglior socialismo. Il cuore del liberalsocialismo si riassume nell'idea che libertà e giustizia sociale sono solidali tanto da costituire un concetto unitario che sta alla base di un'idea di uomo "irriducibile a qualsiasi entità collettiva, esaltato nella sua concreta individualità, teso a valorizzare gli altri come persone".

    Socialismo e liberalismo necessitano l'uno dell'altro, a tal segno che l'uno senza l'altro è votato alla sconfitta: il liberalismo perché non sa raccogliere e soddisfare le esigenze di uguale dignità avanzate dai poveri, dagli esclusi, dagli sfruttati; il socialismo perché non dispone di una matura teoria dello Stato. Per noi che viviamo in un'Italia senza veri liberali né veri socialisti (a parte poche nobili eccezioni), le parole di Calogero suonano come un monito che purtroppo nessuno ha saputo raccogliere. La diffusione, se pur clandestina, di questo scritto e l'intensa attività universitaria (a Pisa è stato maestro di Carlo Azeglio Ciampi) gli procurano la sospensione e la destituzione dalla cattedra e, dal gennaio del 1942 al luglio del 1943, il carcere e il confino. Ma neppure queste gravi sanzioni lo fanno recedere dalle sue convinzioni. Mette in pratica ciò che insegna: "Opera tanto senza indugio quanto senza fretta, come se dovesse morir subito e come se non dovesse morir mai", partecipa alla breve vita del Partito d'Azione (1943-1947); aderisce poi al Partito Socialista nell'area del quale torna dopo che, alla metà degli anni '50, è fra i fondatori del Partito Radicale.
    Nei suoi scritti possiamo trovare quella che considero la più chiara ed eloquente definizione della fede laica, la fede delle persone che credono negli ideali che la coscienza indica con la medesima forza di coloro che credono in Dio, e come i veri credenti in Dio sono capaci di soffrire e di sacrificarsi per la loro fede. "Del resto - scrive ne La scuola dell'uomo (1939) - anche l'uomo che non crede in Dio sente poi la sua morale come una religione, per quanto non ami abusar troppo di questo termine. La sente come una religione, perché la sente come qualcosa su cui è pronto a discutere, ma con la certezza che nessuno più lo convertirà. E ormai invecchiato in quella fede; ha parlato con tanti uomini; ha messo le sue idee a ogni rischio e a ogni paragone. Sa bene che la sua forza di persuasione è scarsa, che i suoi argomenti vanno di continuo rinnovati, che da ogni interlocutore egli ha da imparare qualche cosa. Ma ciò non tocca più la fermezza della sua fede. In questo senso, egli appartiene a una chiesa, che non ammette tradimento di chierici. Lavorare per questa chiesa, favorire l'incremento dei suoi fedeli, è il più adeguato mestiere dell'uomo. In questo lavoro, è il pregio e il prezzo della sua intera esistenza". In queste sue parole c'è l'eco della religione della libertà che ha ispirato i militanti migliori dell'antifascismo. Anche quella della religione della libertà una tradizione ideale che abbiamo dimenticato, col risultato che poche oggi sono le persone che sanno che cos'è la vera libertà morale e sanno vivere come cittadini liberi. In L'abbiccì della democrazia, spiega che "la democrazia non è il paese degli oratori, è il paese degli ascoltatori". E aggiunge che l'ascolto deve essere attento, interessato e "guidato da sincera curiosità" e deve presupporre che il nostro interlocutore possa portare ragioni più convincenti di quelle che portiamo noi. Ma per Calogero ancora non basta. L'uomo altruista (e quindi sociale) nel dialogo non solo deve ascoltare l'altro ma aprirsi a lui, alla sua presenza. La volontà di dialogo non è soltanto volontà di parlare e ascoltare, ma anche "volontà di tener conto della presenza altrui", sia quando conversiamo sia quando preferiamo restare in silenzio.
    Calogero è filosofo del dialogo, non inteso come parlare disordinato di un gruppo di persone, scontro di dogmi, reciproco ignorarsi di relativismi assoluti, ma come conversazione ordinata dove chi ascolta ha nei confronti di chi parla un atteggiamento di accoglienza. Il dialogo è necessario per sentire il dolore dell'altro come nostro dolore, come cosa di cui ci importa e "consente di orientare la mia azione non più soltanto ai fini dell'interesse mio, ma anche a quello dell'interesse suo". Importante è anche "non dare mai l'impressione di prendere sul serio soltanto le cose proprie. Anche la migliore delle idee dev'essere messa sul tappeto così come se potesse essere la peggiore delle carte. Niente importa quanto l'agevolare la possibilità di aver torto. Perché le idee sono sacre, ed è sacro l'aver ragione, ma nessuna cosa è tanto sacra quanto togliere ogni ostacolo estrinseco a che gli altri possano convincerci che hanno invece ragione loro".
    Questa pedagogia civile, secondo Calogero, si deve diffondere soprattutto attraverso la scuola pubblica e laica, luogo di educazione allo spirito critico, al dovere di limitare la propria libertà per lasciar spazio all'Altro, al dialogo, al confronto serio,serrato e leale delle diverse idee per avere cittadini liberi, capaci di assoluta autonomia e di strette relazioni. Poiché crede nella scuola, si impegna in prima persona e, insieme a sua moglie Maria Comandini, fonda nel 1947 la prima scuola laica per assistenti sociali. Convinto che il dialogo sia l'anima della vita civile e fondamento della democrazia, Calogero non tollera la menzogna. La definisce "il delitto più disonorevole": "Io non debbo ingannare proprio perché debbo intendere e farmi intendere. La menzogna è la negazione dello spirito stesso del dialogo [...] Perché si può prendere a pugni un amico ed esserne scusati sportivamente […] ma se si mente, se lo si inganna, se si falsa la verità per i propri fini […] allora si lede qualcosa che sta al disopra di tutti i contrasti ideologici e politici allora si perde la faccia e si merita di essere cacciati fuori". E poi dicono che la storia non serve.

    Maurizio Viroli: Maestri dimenticati. Guido Calogero, la fede laica nella democrazia.
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    Predefinito Re: Maurizio Viroli - Maestri dimenticati

    Carlo Rosselli, si deve vivere (e morire) per giustizia e libertà.




    Socialismo liberale, lo scritto politico più importante di Carlo Rosselli, esce in italiano nel 1945, per le Edizioni U. La prima pagina reca la foto dell'autore, assassinato con il fratello Nello il 9 giugno 1937 a Bagnoles de l'Orne, in Francia, da sicari mandati da Benito Mussolini.


    Rosselli aveva lavorato al testo quando era confinato a Lipari per aver organizzato nel 1926, insieme a Ferruccio Parri, la fuga del vecchio leader socialista Filippo Turati da Savona alla Corsica Nel 1929 evade in modo spettacolare da Lipari insieme a Francesco Fausto Nitti ed Emilio Lussu, con l'aiuto, da Parigi, di Gaetano Salvemini e Alberto Tarchiani. Nella Capitale francese, dove Rosselli e Lussu danno vita al movimento 'Giustizia e Libertà', esce nel 1930 la prima edizione con il titolo Socialisme liberal.

    Più che un "libro organico", avverte Rosselli nella breve prefazione, Socialismo liberale è "la confessione della profonda crisi intellettuale che i giovani socialisti della sua generazione vissero prima quando capirono che la teoria marxista non aiutava e anzi danneggiava il movimento, poi di fronte alla tragica disfatta sotto i colpi del fascismo. Ma è anche il risultato della tenace volontà di Carlo Rosselli di uscire da quella crisi con una rinnovata e rafforzata consapevolezza intellettuale in grado di far rinascere su nuove basi il movimento socialista e di aiutare la riconquista della libertà in Italia. Come Guido Calogero, Rosselli propone un'alleanza strategica fra socialismo e liberalismo. Per socialismo intende "l'attuazione progressiva della idea di libertà e di giustizia tra gli uomini: idea innata che giace, più o meno sepolta dalle incrostazioni dei secoli, al fondo d'ogni essere umano; sforzo progressivo di assicurare a tutti gli umani una eguale possibilità di vivere la vita che solo è degna di questo nome, sottraendoli alla schiavitù della materia e dei materiali bisogni che oggi ancora domina il maggior numero". Fine della rivoluzione socialista non deve più essere soltanto la trasformazione delle strutture sociali ma anche, e in primo luogo, una "rivoluzione morale", vale a dire "la conquista, perpetuamente rinnovantesi, di una umanità qualitativamente migliore, più buona, più giusta, più spirituale". Per liberalismo Rosselli intende non tanto lo Stato o la società liberale come si sono storicamente affermati in regime capitalisti come "la fede nella libertà non solo come fine, ma anche come mezzo". La libertà spiega Rosselli, "non saprebbe conseguirsi attraverso la tirannia o la dittatura, e neppure per elargizione dall'alto. La libertà è conquista, auto-conquista, che si conserva solo col continuo esercizio delle proprie facoltà, delle proprie autonomie. Per il liberalismo, e quindi per il socialismo, è fondamentale la osservanza del metodo liberale o democratico di lotta politica; di quel metodo che, per la sua intima essenza, è tutto penetrato dal principio di libertà.
    Rosselli elabora la sua proposta del socialismo liberale dopo una severa analisi dei vizi e degli errori che hanno portato alla sconfitta degli anni20: un'ideologia – il marxismo interpretato secondo lo stile positivista - che avviliva la volontà e gli ideali in nome del culto dei 'fatti' e delle obbiettive tendenze della società e della storia e che incoraggiava o l'attesa fideistica del futuro o la rassegnazione di fronte agli eventi ostili; la folle presunzione di minacciare una rivoluzione che non si era stati in grado di attuare (e forse neppure si voleva davvero) col bel risultato di spaventare i ceti medi e dare ai fascisti, il pretesto di ergersi a difensori dell'Italia contro il bolscevismo; l'incapacità di capire le trasformazioni del capitalismo al quale gli agitatori socialisti contrapponevano la stanca formula della socializzazione dei mezzi di produzione, mentre ben più efficace sarebbe stata (e sarebbe) una critica in nome della dignità morale e intellettuale della persona; l'irresponsabile e ingiusto disprezzo nei confronti del sentimento di amor patrio, mentre sarebbe stato moralmente degno e politicamente savio contrapporre al nazionalismo fascista, come fa Rosselli, l'idea mazziniana di patria intesa non come frontiere e canoni, ma come il mondo morale di tutte le persone libere, la patria che non esorta a conquistare e dominare altri popoli, ma comanda di rispettare la loro dignità e di aiutarli a difendere o conquistare la loro libertà. In Socialismo liberale Carlo Rosselli coglie non soltanto le ragioni della crisi del socialismo, ma individua anche la causa vera della poca attitudine degli italiani al vivere libero e civile: "Ora è triste cosa a dirsi, ma non per questo meno vera che in Italia l'educazione dell'uomo, la formazione della cellula morale base - l'individuo-, è ancora in gran parte da fare. Difetta nei più, per miseria, indifferenza, secolare rinuncia, il senso geloso e profondo dell'autonomia e della responsabilità". Mancano quasi in tutti "il concetto della vita come lotta e missione, la nozione della libertà come dovere morale [e] la consapevolezza dei limiti propri ed altrui". Abituati alla servitù nel dominio della coscienza, sono ben disposti alla servitù nel dominio sociale e politico.
    Rosselli capisce il male italiano perché vive invece secondo la religione del dovere che ha imparato ad amare grazie soprattutto all'insegnamento della madre Amelia Pincherle Rosselli, una donna straordinaria per forza morale, grandezza dell'animo e finezza intellettuale. In una lettera alla madre che si accinge a recarsi al cimitero per la traslazione dei resti del fratello maggiore Aldo, volontario, morto in guerra, il 27marzo 1916, Carlo esprime la sua religiosità con parole nelle quali traluce la consapevolezza di un presagio: "La tragedia tua si colorirà di tinte universali perla suggestione del numero, e ti verrà fatto di porti grandi interrogativi anche riguardo alla vita terrena. Ma qualunque sia per essere la conclusione sentirai di aver creato per davvero tre vite, tre forze, tre anime non volgari, che per quanto infime, non saranno numeri vani, non lasceranno l'ambiente così come lo trovarono. Bruceranno forse tutt'e tre, ma per aver cercato di avvicinarsi troppo alla luce". Fedele senza incertezze all'ideale della vita come missione lottò contro il fascismo con intransigenza assoluta. "Giustizia e libertà / per questo morirono / per questo vivono". In questo epitaffio dettato da Piero Calamandrei per la tomba di Carlo e Nello Rosselli al cimitero fiorentino di Trespiano, c'è tutto il valore della loro eredità morale. Se fossimo un popolo di cittadini, quell'angolo di pace dove Carlo e Nello riposano accanto al loro caro "zio" Gaetano Salvemini, anziché essere desolato e abbandonato come sempre l'ho trovato, sarebbe il nostro Arlington, luogo di pellegrinaggio dove riflettere in silenzio sul loro sacrificio per ritrovare le ragioni di una religione della libertà.


    Maurizio Viroli: Maestri dimenticati. Carlo Rosselli, si deve vivere (e morire) per giustizia e libertà.
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    Predefinito Re: Maurizio Viroli - Maestri dimenticati

    Adolfo Omodeo e la rinascita di una nazione.





    Il libro da leggere nel centenario dell’entrata dell’Italia nella Grande Guerra, è Momenti della vita di guerra .Dai diari e dalle lettere dei caduti.(1915-1918) di Adolfo Omodeo, prima edizione 1934. Consiglio di cercare una edizione arricchita dall’introduzione di Alessandro Galante Garrone. Da leggere soprattutto perché non ha nulla di simile alle esaltazioni delle virtù guerriere o ai lamenti sulla ‘vittoria mutilata’ che abbondavano nella letteratura di regime, ma è “una storia spirituale della guerra”. Attraverso la raccolta e la cura delle lettere e dei diari dei soldati, Omodeo vuole far capire agli Italiani che nell’esercito che ha combattuto la Grande Guerra viveva “un’anima che li resse; che circolò nella parola sussurrata nella trincea; che urtò contro i motivi eterni dell’egoismo e della conservazione personale; che sofferse e pianse la famiglia lontana, il dolore assiduo, i compagni caduti; che si levò nell’ebbrezza degli assalti; che spasimò nei rovesci”.

    In guerra, come molti della sua generazione (nasce a Palermo nel 1889), Omodeo va volontario nel 1915. Si è laureato tre anni prima, nel 1912 con Giovanni Gentile, difendendo una tesi su Gesù e le origine del cristianesimo (pubblicata nel 1913). Nel 1914 sposa Eva Zona sua compagna di studi. Prima dei Momenti della vita di guerra aveva pubblicato Storia delle origini cristiane (1925), La mistica giovannea (1930) e i primi suoi studi sul Risorgimento : L'età del risorgimento italiano (1931) e Figure e passioni del Risorgimento italiano (1932).
    Il Cristianesimo antico, in particolare Gesù e Paolo di Tarso, e il Risorgimento sono i grandi temi della sua biografia intellettuale. Proprio perché si avvicina al Risorgimento da storico del Cristianesimo, capisce che quell’esperienza ha avuto “una vita religiosa sua interna, tale da ridurre e risospingere in ristretti limiti le esigenze del cattolicesimo gesuitico”. Pur se non hanno realizzato una riforma religiosa, gli uomini del Risorgimento “vivevano una fede nuova” che li spinse a lottare per il popolo. Si sono adattati a essere loro la nazione, “come i settemila Israeliti che ai tempi d’Elia non avevano piegato il ginocchio a Baal, costituivano il vero Israele”. Hanno creduto nel popolo e nella nazione, “hanno avuto l’ossessione dell’edificazione del popolo. Se l’opera non riuscì completa, fu perché un popolo non s’improvvisa in cinquant’anni. Si dovevano formare le tradizioni secolari, mentre la nazione italiana era completamente nuova”.
    Mentre il fascismo proclamava una concezione nazionalistica della patria, il Risorgimento affermava una concezione universalistica. Tutti gli uomini del Risorgimento, da Mazzini a Cavour, da Garibaldi a Settembrini, scrive Omodeo, “avevan coscienza di lavorare e di soffrire, oltre che per l’Italia, per un ideale universalmente umano, che valeva per tutti i popoli”. La loro concezione universalistica della patria era espressione della loro religiosità. Mazzini, spiega Omodeo, aveva una “fede adamantina, che soggiogava gli spiriti e li travolgeva in un’onda di entusiasmo religioso”. Vedeva la resurrezione dell’Italia quasi come la rivelazione di un’assistenza divina al popolo, come il premio della sua “eroica e religiosa fede” nei suoi destini. La democrazia non era per lui esercizio della sovranità popolare, ma elevazione etica del popolo. Non era in realtà possibile, conclude Omodeo, “sostituire alla religione cattolica la vaga religione mazziniana del progresso, così sostanziata di dottrine filosofiche. Tuttavia questa fede fasciò molti di coraggio di azione e invece di sgomentarli nel calcolo obiettivo dei fatti, li esaltò sino al martirio”.
    In Momenti della vita di guerra Omodeo tratteggia immagini insieme delicate, divertenti e toccanti. Il livornese Leonardo Cambini, per citare un solo esempio, era professore in una delle scuole normali di Pisa, vivace, allegrone, sempre pronto agli scherzi e alle beffe, dalla fecile e colorita bestemmia, ma che da Mazzini aveva tratto quale suggello dell’anima “un senso religioso della vita”, che è comandamento austero che non si discute. “Quest’ idea laica di religione”, spiega Omodeo, “egli la esprime nelle sue lettere in forma semplice, popolare, ma più efficace d’ogni speculazione tecnicamente filosofica.”Io non pronuncio mai una preghiera, scriveva Cambini alla moglie, “ma ogni volta che si opera per un’idea di dovere, ogni volta che si figge lo sguardo nel dominio del soprannaturale, e si vive in comunione di spirito coi nostri, che ci vivono attorno invisibili, non è questa un’elevazione dell’anima, non è un innalzare l’anima nostra verso Colui che è il Principio e la Fine?”.
    Quando racconta la storia di due eroi come i fratelli Garrone - Giuseppe (Pinotto) ed Eugenio – Omodeo trova accenti di poesia pura: “Uomini come i fratelli Garrone, “parleranno un’altra voce: esprimeranno i sentimenti e le speranze di tanta parte dell’Italia che si lanciò in guerra per una più alta giustizia umana, col senso della tradizione mazziniano-garibaldina d’Italia. Parleranno essi per tutti, perché con più fede e con più risoluta dedizione si offersero, e la luce del loro sacrifizio si riverserà su tanta parte delle grigie e oscure vicende della guerra; perché l’umanità va considerata nelle altezze a cui si leva, e non nelle radici con cui si confonde con la natura [...] Gli ideali umani risorgon come Cristo e ritesson la loro tela, e solo in essi, nella loro temperie si ritrovano e si riconoscono i popoli. “Non de solo pane vixit homo”.
    Scrivere di storia, e narrare i momenti della vita dei soldati italiani nella Grande Guerra, durante gli anni del fascismo trionfante, è per Omodeo il modo di testimoniare la religione della libertà che Benedetto Croce aveva spiegato nella sua opera forse più bella, la Storia d’Europa nel secolo XIX (1932). “Quasi tutta la nostra produzione aveva un significato polemico e agonistico. Ma dire che la polemica alterasse la verità, che noi falsassimo la storia o la filosofia sarebbe calunnia. [...] Man mano che passavano gli anni più acuta e pungente diventava la nostra passione. La libertà la vivevamo davvero come una religione, talora col dubbio di non vederla più spuntare sul nostro orizzonte”.
    La libertà ha fatto invece a tempo a vederla rinascere e si è impegnato con tutte le sue energie, come rettore dell’Università di Napoli, come ministro della pubblica istruzione e addirittura come volontario nell’esercito italiano affinchè si irrobustisse. Nell’aprile del 1944 pubblica a Napoli col titolo Per la riconquista della libertà i discorsi che ha tenuto e le pagine che ha scritto dopo la caduta di Mussolini. Nella breve premessa c’è tutto il suo testamento morale e politico: “ho cercato di chiamare a raccolta gli uomini di buona volontà per la salvezza del paese, di eliminare le vergogne superstiti di un ventennio di tirannide, di riprendere le tradizioni mazziniane del Risorgimento e di orientare gli spiriti verso un’unione europea, che dissipi i delirî dei nazionalismi e le grettezze anguste dei semplicismi fanatici”. Muore il 28 aprile 1946.

    Maurizio Viroli: Maestri dimenticati. Adolfo Omodeo e la rinascita di una nazione.
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    Predefinito Re: Maurizio Viroli - Maestri dimenticati

    Piero Calamandrei e la Resistenza intellettuale



    Di Piero Calamandrei, uno dei più insigni dei nostri maestri dimenticati, Norberto Bobbio ci ha lasciato un ricordo che raccchiude il tratto fondamentale della sua vita e della sua opera: “Il significato profondo della vita di Calamandrei, ciò che rese la sua figura umana così affascinante, si può riassumere brevemente in queste parole: passione e lotta per la giustizia. Combatté per la giustizia come giurista, come avvocato, come riformatore di leggi, come scrittore politico, come uomo politico, in genere come uomo di cultura”.

    L’amore per la giustizia è il cuore della sua religione laica. Nell’Elogio dei giudici scritto da un avvocato, che esce a Firenze nel 1935, Calamandrei avvicina il giudice al sacerdote e sottolinea che l’uno e l’altro non possono assolvere bene il loro difficile ufficio se non li sorregge un senso religioso del dovere: “ Il giudice che si abitua a render giustizia è come il sacerdote che si abitua a dir messa. Felice quel vecchio parroco di campagna che fino all'ultimo giorno prova, nell'appressarsi all'altare col vacillante passo senile, quel sacro turbamento che ve lo accompagnò prete novello alla sua prima messa; felice quel magistrato che, fino al giorno che precede i limiti di età, prova, nel giudicare, quel senso quasi religioso di costernazione, che lo fece tremare cinquant'anni prima, quando, pretore di prima nomina, dové pronunciare la sua prima sentenza.”
    Esorta i giudici a non dimenticare che la vera giustizia non schiaccia gli esseri umani, ma li protegge e li aiuta a vivere con dignità al riparo dai soprusi, dalle umiliazioni, da ogni forma di arbitrio. Da quel fine scrittore che è, Calamandrei spiega questo concetto con un’immagine di rara bellezza: “accade spesso al bibliofilo, che si diverte a sfogliare religiosamente le pagine ingiallite di qualche prezioso incunabolo, di trovarvi tra pagina e pagina, appiccicata e quasi assorbita dalla carta, la spoglia diventata trasparente di una farfallina incauta, che qualche secolo fa, in cerca di sole, si posò viva su quel libro aperto, e quando il lettore all'improvviso lo rinchiuse, vi restò schiacciata e disseccata per sempre. Questa immagine mi viene in mente quando sfoglio gli incartamenti di qualche vecchio processo, civile o penale, che dura da diecine d'anni. I giudici, che tengono con indifferenza quegli incartamenti in attesa sul loro tavolino, sembra che non si ricordino che tra quelle pagine si trovano, schiacciati e inariditi, i resti di tanti poveri insettucci umani, rimasti presi dentro il pesante libro della giustizia”.
    Calamandrei nasce a Firenze nel 1889, e nel 1915 diventa professore di diritto processuale civile all’Università di Messina. Va in guerra volontario con il grado di sottotenente e per il suo valore è promosso capitano e decorato con la croce di guerra. Prende le difese di otto soldati accusati di aver abbandonato il posto di combattimento e riesce ad ottenere per loro una sentenza mite. Negli anni del dopoguerra torna agli studi e pubblica le sue opere fondamentali di argomento giuridico, tutte ispirate a quella che rimarrà la sua preoccupazione fondamentale come studioso di diritto e avvocato, vale a dire la certezza del diritto intesa quale garanzia fondamentale di libertà. L’assalto fascista allo stato liberale gli impone di alzare la testa dai libri: nel 1920 è fra i fondatori del Circolo di Cultura di Firenze, devastato dagli squadristi il 31 dicembre del 1924. Firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Nel 1941 aderisce al movimento ‘Giustizia e Libertà’, e nel 1942 è fra i fondatori del Partito d’Azione.
    Durante gli anni della guerra, dal 1939 al 1945, tiene un diario che ci rivela la sua angoscia per le sorti della civiltà minacciata dai totalitarismi e la fede sincera nell’ideale della patria intesa, con Mazzini, come ideale di libertà. In nome di quell’ideale annota l’11 aprile 1940 che gli inglesi e i francesi e i norvegesi che resistono a Hitler, “sono ora la mia patria”. E in nome del medesimo ideale scrive, il 1 agosto 1943, “veramente la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere, senza retorica, in questa frase: si è ritrovata la patria: la patria come senso di cordialità e di comprensione umana esistente tra nati nello stesso paese, che si intendono con uno sguardo, con un sorriso, con un’allusione: la patria, questo senso di vicinanza e di intimità che permette in certi momenti la confidenza e il tono di amicizia tra persone che non si conoscono, di educazione e di professione diverse, e che pur si riconoscono per qualcosa di comune e di solidale che è più dentro. Ah, che respiro!”
    Nel libro dei ricordi giovanili, Inventario della casa di campagna, del 1941, Calamandrei scrive a proposito della relazione fra padre e figlio una pagina memorabile: “padre e figlio, finché vivono, marciano uno dietro l'altro sullo stesso sentiero, a distanza di una generazione: finché son vivi e camminano, non possono né avvicinarsi né guardarsi in faccia: solo quando il padre si ferma nella morte, la distanza comincia a diminuire. Allora egli si riposa, e si volge indietro ad aspettare il suo figliuolo che sale: e il figlio può finalmente vedere il volto del suo babbo e riconoscersi in lui sempre meglio via via che la distanza decresce. Egli si è riposato, e si è voltato indietro ad aspettare. Ora tocca a noi salire e riconoscerci in lui. Se saremo riusciti ad avvicinarci a lui, non saremo più soli”.
    Calamandrei è un maestro che si è fermato e ci aspetta. Da ciò che egli ci ha lasciato noi dobbiamo trarre le ragioni e la forza per affrontare le lotte del nostro tempo. Fra tutti i suoi consigli i più preziosi sono quelli che troviamo negli scritti dei suoi ultimi anni sulla Costituzione raccolti nel volume La Costituzione e le leggi per attuarla, del 1955, che avreppe potuto intitolarsi, scrive Calamandrei, La Costituzione inattuata, o, ancor più esattamente: Come si fa a disfare una Costituzione. Al processo contro Danilo Dolci, accusato di aver fomentato manifestazioni per il lavoro in Sicilia, Calamandrei, pochi mesi prima di morire, rivolge ai giudici queste parole: “Voi dovete aiutarci, signori giudici, a difendere questa Costituzione che è costata tanto sangue e tanto dolore; voi dovete aiutarci a difenderla, e a far sì che si traduca in realtà. Vedete, in quest'aula, in questo momento non ci sono più giudici e avvocati, imputati e agenti di polizia: ci sono soltanto italiani: uomini di questo Paese che è finalmente riuscito ad avere una Costituzione che promette libertà e giustizia». Tocca a noi raccogliere questa esortazione e fare ciò che possiamo per impedire la devastazione della Costituzione che si consuma proprio in questi giorni. E dobbiamo farlo anche per lui.


    Biblio
    Il fascismo come regime della menzogna, Roma-Bari, Laterza, 2104.

    Uomini e città della Resistenza: discorsi, scritti ed epigrafi, Roma-Bari, Laterza, 2011.

    Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Firenze, Ponte alle Grazie, 1995.


    Bio
    Nasce a Firenze nel 1889, e nel 1915 diventa professore di diritto processuale civile all’Università di Messina. Va in guerra volontario con il grado di sottotenente e per i suo valore è premiato con il la promozione al grado di capitano e la croce di guerra. Negli anni del dopoguerra torna agli studi giuridici e pubblica una delle sue opere fondamentali: La Cassazione civile (Torino 1920), ispirata a quella che rimarrà la sua preoccupazione fondamentale come studioso di diritto e avvocato, vale a dire la certezza del diritto. L’assalto fascista allo stato liberale gli impone di alzare la testa dai libri: nel 1920 è fra i fondatori del Circolo di Cultura di Firenze, distrutto dagli squadristi il 31 dicembre 1924. Con i fratelli Rosselli, Gaetano Salvemini, Nello Traquandi e Ernesto Rossi partecipa attivamente alla breve stagione del giornale clandestino Non mollare!. Firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Nel 1941 aderisce al movimento ‘Giustizia e Libertà’ e nel 1942 è fra i fondatori del Partito d’Azione. Eletto all’Assemblea Costituente, si distingue per gli interventi in difesa dei diritti sociali, per l’istituzione della Corte Costituzionale e contro l’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione. Dedica gli ultimi anni della vita a mantenere viva la memoria della Resistenza e a difendere la Costituzione dagli attacchi di chi voleva stravolgerla o impedirne l’attuazione. Muore a Firenze il 27 settembre 1956.

    http://maurizioviroli.blogspot.it/2015/09/maestri-dimenticati-piero-calamandrei-e.html
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    Predefinito Re: Maurizio Viroli - Maestri dimenticati

    La forza morale di Ernesto Rossi.




    Nel pantheon dei nostri maestri dimenticati, spetta di diritto un posto a Ernesto Rossi. Chi voglia conoscere le ragioni della sua denuncia delle collusioni fra Vaticano e regime fascista, legga Il manganello e l’aspersorio (1958); chi voglia documentarsi sull’alleanza fra il fascismo e i “grandi baroni dell’industria”, legga I padroni del vapore (1955); chi voglia gustare un esempio di polemica contro la corruzione, legga Settimo: non rubare (1953); chi invece cerca una risposta al problema della povertà legga, Abolire la miseria (1946). Ma per capire da dove scaturiscono la sua grandezza d’animo, il suo coraggio civile e il suo rigore intellettuale, sono da leggere le lettere degli anni del carcere e del confino.

    Il principio che guida le scelte di Ernesto Rossi è la religione del dovere, vissuta non come obbedienza ad un principio astratto, ma come devozione ad una voce interiore da ascoltare e seguire semplicemente perché è la nostra voce. Non ascoltarla o non seguirla vuol dire per Rossi rinunciare ad essere sé stesso: “Non posso chiedermi se non ‘sarebbe meglio pensare a noi stessi senza interessarci di nulla’, perché non posso ‘pensare a me’ senza interessarmi a tutte quelle questioni in cui mi sembra d’avere una parola da dire, e che sia mio dovere dirla. Io non ho mai tenuto fuori di me il motore primo delle mie azioni. Anzi, mi sembra perfino inconcepibile che qualcuno faccia qualcosa ‘per gli altri’. Quel che faccio lo faccio per me, per essere in pace con la mia coscienza. Se desidero alleviar le sofferenze degli altri, dare agli altri una maggior dignità di vita, è perché le loro sofferenze mi fanno pena, le sento come mie, e la loro abiezione, il loro abbruttimento m’offendono: sento in loro offesa la mia umanità. Finché son press’a poco quel che sono, non mi sarebbe possibile agire come se fossi diverso”.
    La sua religione del dovere non ha bisogno del Dio della rivelazione. In una bella lettera alla madre Elvira scrive: “I giansenisti dicevano ‘credere in Dio, ma agire come se non ci fosse’. La loro massima aveva un alto significato contro la morale gesuitica, basata sulla paura dell’inferno e l’aspettativa di una ricompensa. Io direi piuttosto: ‘non credere in Dio, ma agire come se ci fosse’. Come se ci fosse, beninteso, un Dio, non nel senso cattolico, ma nel senso d’una spiegazione, superiore alla nostra intelligenza, di quel che vediamo nel mondo. A noi, uomini, spetta fare il meno peggio che possiamo la nostra parte d’uomini”.
    Non sente il bisogno della speranza cristiana neppure quando, in guerra, dov’è andato volontario, vede la morte da vicino: “ed anche quando sono stato in punto di morte, […]non ho sentito affatto il bisogno dell’illusione religiosa. Mi ricordo che vicino al mio letto c’era un tenente ferito pure gravemente, che si lamentava di continuo perché non voleva morire. Venne il cappellano, lo confortò e lo convinse a prendere i sacramenti. Poi mi domandò se volevo prenderli anch’io. Lo ringraziai dicendogli che non ne avevo bisogno. Il mio vicino di letto morì durante la notte, dopo aver riacquistato la serenità nella speranza, e certo fu per lui un gran dono. Ma a me quella speranza non era necessaria: mi sentivo andar via piano, piano, senza alcuna preoccupazione di quel che sarebbe poi stato. Finire è un pensiero consolante, quando si conosce cos’è la vita, e basterebbe tener sempre presente questo pensiero per aver nella vita valori meno meschini di quelli che comunemente si hanno”.
    Non ha pazienza per i filosofi che trovano nella Storia o nella Provvidenza la risposta a tutte le domande della condizione umana. Ammira invece le persone semplici che sanno vivere con dignità morale, come il tramviere anarchico Giuseppe Papini, suo compagno di cella. Rossi lo descrive come un”puro di cuore”, uno di quegli uomini che bisogna avere la fortuna di incontrare ogni tanto “per non disperare completamente dell’umanità”. Non ho mai sentito altri, scrive, “che avesse una così benevola indulgenza verso le debolezze umane che cercava sempre di capire piuttosto che di condannare”. Era solito dire: “‘Non basta chiedere a Domineddio che ci dia il nostro pane quotidiano. Bisogna chiedere: dacci il nostro pane quotidiano, ma senza infamia”.
    Come tutte le persone che hanno un sincero sentimento religioso e amano la libertà, detesta la politica del Vaticano: “pochi italiani conoscono quale centro di coordinamento e di guida delle forze più reazionarie è il Vaticano, e quale fattore di corruzione esso costituisce nella nostra vita pubblica, con la sua morale gesuitica, con la continua pratica del doppio gioco, con l’insegnamento della cieca obbedienza ai governanti, comunque delinquenti e in qualsiasi modo arrivati al potere, purché prestino l’ossequio dovuto al Santo Padre”; e lancia, nel 1958 l’appello a ritrovare le tradizioni migliori del Risorgimento: “dobbiamo lottare contro la politica del Vaticano con la stessa decisione e la medesima spregiudicatezza con la quale i patrioti del Risorgimento, anche se ferventi cattolici, lottarono per costruire l’unità italiana”. (Il manganello e l’aspersorio).
    Sapeva bene che lottare contro il regime fascista negli anni ’30 era un’impresa disperata. Mussolini poteva contare su un formidabile apparato repressivo, sul sostegno della monarchia e del Vaticano, sul consenso di milioni di italiani infatuati dalle prospettive di grandezza imperiale. Eppure si impegna nella lotta antifascista con assoluta intransigenza, per la semplice ragione che il suo senso del dovere comandava di farlo.
    In un paese infestato di servi, la persona libera che obbedisce soltanto alla propria coscienza può essere soffocata con la forza o umiliata con lo scherno, ma non sconfitta: “qualunque sia la situazione politica avvenire, noi siamo destinati a buscarne finché viviamo. È una facile profezia. [...] Conosco ormai troppo bene gli italiani e la loro storia per farmi illusioni. Cavour fu un inglese, nato per sbaglio in un paese balcanico. E non si cambiano in due o tre generazioni le caratteristiche d’ un popolo abituato per secoli a liberarsi col confessionale d’ogni preoccupazione sulla valutazione dei problemi morali, ed a rinunciare nelle mani dei dominatori stranieri ad ogni dignità di vita sociale.[…] La forza può avere ragione di noi individualmente, ma mantenerci fedeli a noi stessi vuol dire trasmettere alle generazioni avvenire, con l’esempio che vale più della parola, quella che riteniamo la parte più luminosa del pensiero ereditato dalle generazioni passate, cioè quel che fa sì che l’uomo sia veramente uomo: la libertà”.
    Aggiungo a queste parole una postilla, tratta da un lettera del gennaio 1932 : “non occorre credere che debba raccogliere la stessa persona che ha seminato". Non saprei immaginare una lezione migliore per questo tempo in cui domina, ormai, la convinzione che è del tutto insensato vivere per un’idea.



    Abolire la miseria, Laterza, Bari 1977;Settimo: non rubare, Laterza, 1953; Il Malgoverno, Laterza, 1954; I padroni del vapore, Laterza, 1955; Il manganello e l'aspersorio, Parenti, 1958; Elogio della galera: lettere dal carcere 1930-1943, Laterza, 1968; Ernesto Rossi, “Nove anni sono molti”: lettere dal carcere 1930-1939, a cura di Mimmo Franzinelli, Bollati Boringhieri, 2001.


    Bio
    Ernesto Rossi nasce a Caserta il 25 agosto 1897, quarto di sette figli, da Antonio, piemontese, ufficiale dell’esercito, e da Elide Verdardi (1870-1957), di origine bolognese, che ebbe un’ importante e positiva funzione nell’educazione del figlio. Il 12 marzo 1916, quando non aveva ancora compiuto i diciannove anni, è volontario nella Grande Guerra dove riporta gravi ferite. Per la sua attività antifascista è arrestato il 30 ottobre 1930 e condannato a vent’anni di carcere. Nel 1931, nella prigione di Pallanza, sposa con rito civile la fidanzata Ada Rossi. Partecipa alla stesura del Manifesto di Ventotene per l’unità europea e nel 1943 aderisce al Partito d’Azione. Dal 1949al 1962 collabora attivamente a Mondo di Mario Pannunzio. Con Leo Valiani fonda nel 1955 il Partito Radicale.


    Maurizio Viroli: Maestri dimenticati. La forza morale di Ernesto Rossi.

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    Predefinito Re: Maurizio Viroli - Maestri dimenticati

    La lezione civile di Ferruccio Parri




    Se Ferruccio Parri fosse vissuto negli Stati Uniti, e avesse fatto quel che ha fatto in Italia – eroe di guerra nel 1915-18, oppositore intransigente del fascismo, leader militare e politico della Resistenza, educatore dei giovani ai valori civili – lo onorerebbero come un secondo George Washington. Nella sua patria lo hanno ribattezzato ‘ Fessuccio Parri’, deriso e dimenticato.



    Tutti, o quasi, gli americani conoscono il Gettysburg Address pronunciato da Abraham Lincoln il 19 novembre 1863, e lo apprezzano come il testo che esprime l’ ideale della loro democrazia. Invece, la deposizione che Ferruccio Parri rende ai giudici del tribunale di Savona per difendersi dall’accusa di “cooperazione alla preparazione ed all’esecuzione dell’espatrio clandestino per motivi politici” (18 febbraio 1927), e che è uno dei testi più eloquenti e intellettualmente rigorosi in difesa della libertà, anziché essere insegnato in ogni scuola della Repubblica, è conosciuto, forse, da uno sparuto numero di studiosi.
    In questo scritto Parri mette subito in chiaro che nessuno, tantomeno i fascisti, possono dargli lezioni di amor di patria e spiega il significato del suo antifascismo: “contro il fascismo non ho che una ragione di avversione: ma quest'ultima perentoria ed irriducibile, perché è avversione morale; è, meglio, integrale negazione del clima fascista”. Contro i giovani che come lui sono antifascisti in nome di un principio morale, Mussolini non può vincere: “Indenni di responsabilità recenti, intransigenti perché disinteressati, intransigenti verso il fascismo perché intransigenti con la loro coscienza, sono questi giovani i più veri antagonisti del regime, come quelli che hanno immacolato diritto di erigersene a giudici. Ad essi il fascismo deve, e dovrà, rendere strettamente conto delle lacrime e dell'odio di cui gronda la sua storia, dei beni morali devastati, della nazione lacerata. Il regime li può colpire, perseguitare, disperdere, ma non potrà mai aver ragione della loro opposizione, perché non si può estirpare un istinto morale.”
    Queste non sono parole, sono i princîpi che guidano la vita di Ferruccio Parri. Come a quasi tutti gli antifascisti importanti, il regime gli ha dato la possibilità di tornare in libertà. Deve soltanto scrivere al duce, impetrare grazia e promettere di abbandonare per sempre la lotta antifascista. Ma compiere quel gesto vuol dire per Parri tradire se stesso, come spiega nella lettera alla madre del 21 gennaio 1929. “Ma voi ed essi dovete intendere che decisioni come queste appaiono di lieve momento solo a chi le consideri con una disinvoltura morale, cui sono per costituzione negato; che decisioni come queste involgono lo stile di un uomo, il suo modo di vivere, la sua ragione anzi di vivere, di fronte alla quale affetti ed amicizie devono per necessità rimanere al secondo piano. Per risolvermi a decisioni contrarie al mio modo di essere bisognerebbero intervenissero circostanze eccezionali e gravissime che depreco con tutto l’animo”.
    Essere fedele a noi stessi non è peccato di superbia, vale a dire eccessiva stima del nostro valore. È una virtù che nasce dalla coscienza del nostro giusto valore come esseri umani. E qual è il giusto valore che la persona umana è in diritto di attribuire a se stessa? Un valore infinito, e quindi tale da non poter essere barattato, quale sia il bene che viene offerto in cambio: “La coerenza per me non è una parola vana, un suono vuoto di senso. Forse l’orgoglio può essere un lusso non concesso alla mia povertà: ma è un lusso interdetto anche questa coerenza morale? Domanda che mi conturba fortemente per i riflessi che voi e più gli amici potete immaginare. Comunque poiché è in gioco non una questione di orgoglio, ma una questione di vita – e troniamo come un circolo chiuso al punto di partenza – non mi è possibile decidere diversamente: sono quindi disposto ad ogni sacrificio pur di non compiere mai nessun atto che sconfessi la mia opera, il mio passato, che giudichi contrario al mio onore, cioè alla mia legge di vita.”
    Da piemontese di ceppo vecchio, Parri detesta ogni forma di autocelebrazione e rifugge la popolarità. Ciononostante, o meglio, anche per questa ragione, ha una grande forza carismatica. I giovani che combatterono nella Resistenza hanno provato per ‘Maurizio’ (il suo nome di battaglia) una devozione totale. Carlo Rosselli, suo compagno di cella e di confino, ci ha lasciato una testimonianza di straordinario valore: Guardo Parri. Come il suo viso fine, pallido incorniciato da una barba di venti giorni, spira nobiltà. Parri è la mia seconda coscienza, il mio fratello maggiore. Se la prigione non mi avesse dato altro, la sua melanconica amicizia mi basterebbe. Questi uomini alti e puri sono tristi, terribilmente tristi e solitari. Scherzano, ridono, amano come tutti gli altri. Ma c’è nel fondo del loro essere una tragica disperazione una specie di disperazione cosmica. Fino alla conoscenza di Parri, l’eroe mazziniano mi era apparso astratto e retorico. Ora me lo vedo steso vicino, con tutto il dolore del mondo ma anche tutta la morale energia del mondo, incisa sul volto”.
    Gli eroi veri, non quelli delle favole per bambini, conoscono la paura, interrogano severamente la loro coscienza, sono consapevoli dei loro errori. In una delle rare pagine nelle quali Parri ha racconta della sua esperienza di ufficiale nella Prima Guerra Mondiale, possiamo entrare nel suo mondo interiore: “Fu una inquieta notte, non nelle mie abitudini, come se dov’essi anch’io fare i conti finali con la vita. Ma sapevo abbastanza per non meravigliarmi più della viltà naturale degli uomini, così che anche la guerra e quella trista guerra si intesseva di un gioco di scarico di responsabilità, aggravato spesso, in quelli che stanno in alto, dalla ipocrisia e dalla prepotenza. Ma io, col mio orgoglio di fondo, che parte mi prendevo, che figura facevo? Dovevo obbedire ai generali o sparare contro i generali? Una riflessione ormai matura mi aveva insegnato a guardarmi da giudizi avventati sui grandi complessi sociali, avventure e sbandamenti. Ero una pedina. Allora un inganno stupido? Come conciliare la chiarezza che desideravo nel pensiero e nell’azione, con la consapevolezza della mia ingenuità ma col rifiuto della stupidità? Quale era il Dio che mi impediva quella mattina di appiattirmi, di mandare al macello i soldati, di mandare avanti, al mio posto, il mio soldatino, anche lui con la mamma e il babbo che lo aspettavano? Il mio Dio non stava in cielo, non stava nella fede dei credenti, nei libri dei filosofi, non nella teorizzazione valida per tutte le genti umane. E spremi, spremi trovavo un solo semplice, non ragionabile ma inestirpabile, invito: ‘sii in pace con te stesso’”. In questa semplice regola sta il segreto delle donne e degli uomini liberi che possono fondare e difendere una vera repubblica.


    viroli@princeton.edu


    Biografia
    Ferruccio Parri nasce a Pinerolo il 19 gennaio 1890, si laurea in lettere a Torino nel 1913 e insegna al Liceo Parini di Milano. Ufficiale di complemento nella Prima Guerra Mondiale, più volte ferito, è insignito di tre medaglie al valor militare e promosso maggiore per meriti di guerra. Scrive per il Corriere della Sera, ma nel 1925 lascia perché non condivide la svolta filofascista del quotidiano. Per il suo rifiuto di prendere la tessera del partito fascista, deve dimettersi dall’insegnamento. Nel dicembre del 1926 organizza insieme a Carlo Rosselli la fuga dall’Italia di Filippo Turati e Sandro Pertini. Uscito dal confino diventa vicecomandante del CLNAI. Arrestato il 2 gennaio del 1945 dalle SS viene liberato per iniziativa dei servizi segreti americani. Presidente del Consiglio dal 21 giugno al 10 dicembre 1945, nel 1963 è nominato senatore a vita. Dedica gli ultimi anni alla difesa della Resistenza e della Costituzione. Muore l’8 dicembre 1981. Riposa a Staglieno, vicino alla tomba di Giuseppe Mazzini.


    Bibliografia
    Gli scritti di Ferruccio Parri sono raccolti nel volume Ferruccio Parri, Scritti 1915-1975, a cura di Enzo Collotti e altri, Feltrinelli, 1976.

    Maurizio Viroli: Maestri dimenticati. La lezione civile di Ferruccio Parri

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  7. #7
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    Predefinito Re: Maurizio Viroli - Maestri dimenticati

    Grande iniziativa Frescobaldi . grazie veramente !

  8. #8
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    Predefinito Re: Maurizio Viroli - Maestri dimenticati

    Di nulla...grazie a te
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  9. #9
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    Predefinito Re: Maurizio Viroli - Maestri dimenticati

    l' ho diffuso un pò su facebook, mi sembra che ci sia un buon numero di letture !

  10. #10
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    Predefinito Re: Maurizio Viroli - Maestri dimenticati

    Aggiungo i miei ringraziamenti.
    Mi hai fatto ricordare mio Padre, che spesso citava questi nomi (e altri).

    Ma io ero liceale, quando è morto nel 1960: e, nonostante il clima difficile di casa mia dopo, ho poi cercato di annodare un filo che aveva cominciato a tessere. Mi è sembrato di tornare 55 anni più giovane.

 

 

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