“Fiducia nel partito comunista cinese” di Roberto Sidoli

19 giugno 2015Senza categoria
Riceviamo e volentieri pubblichiamo la relazione di Roberto Sidoli dal titolo “Fiducia nel partito comunista cinese” che esporrà al seminario su “Cina e socialismo” il 20 giugno 2015 presso il Centro culturale Concetto Marchesi

Il fattore e l’elemento politico principale che funge da legame e collante, da “cemento armato” per i comunisti e i simpatizzanti (un’analisi in parte diversa va invece effettuata rispetto alle masse popolari) risulta ormai da più di un secolo la fiducia collettiva e individuale nel partito rivoluzionario e nei suoi dirigenti, la convinzione che essi operino realmente nell’interesse generale dei lavoratori e per costruire il socialismo/comunismo, nel loro paese di appartenenza e su scala mondiale.
Tale fattore si rivela fondamentale ad esempio: se infatti un compagno rivoluzionario non crede che il suo partito di riferimento sia comunista e che lotti concretamente, con efficacia per il socialismo, perché impegnarsi e sprecare tempo e energie per esso? Più nello specifico, per quale motivo appoggiare (criticamente) e difendere la Cina del 2015, se essa non risulta socialista nelle sue linee principali?
Qual è dunque il criterio generale che deve adottare un rivoluzionario per accordare – o togliere – fiducia o appoggio concreto a un partito e/o stato?
A livello molto generale, risulta semplice rispondere che in questo campo è decisiva la pratica, la praxis del particolare partito e/o stato preso in esame: già Marx notò, nelle sue celebri e geniali “Tesi su Feuerbach” del 1845, che “nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà del pensiero – isolato dalla prassi – è una questione meramente scolastica” (seconda tesi su Feuerbach).
Ma come possono i comunisti declinare e usare nel caso concreto in esame (fiducia/non fiducia) tale criterio generale, per un partito e/o stato?
A mio avviso emergono dodici criteri combinati tra loro, di verifica della praxis/lotta. E cioè si deve osservare bene, con lucidità e spirito obiettivo, su un partito e/o stato se essi:
1) si esprimano pubblicamente e a livello di massa a favore del comunismo e del marxismo-leninismo, difendendo pubblicamente i suoi principali leader politici (Marx, Engels, Lenin) e soprattutto diffondendo costantemente e in modo capillare il pensiero marxista, la sempre attuale concezione materialistico-dialettica del mondo e del genere umano;
2) lottino con successo per conquistare il potere e il controllo degli apparati statali o per conservare tale egemonia, nel caso abbiano effettuato con successo il salto di qualità rivoluzionario, al fine di attuare la socializzazione dei principali mezzi di produzione sociale;
3) promuovano con successo un processo di accumulazione di forze (politiche, economiche organizzative, di consenso, ecc.) nel loro paese di appartenenza, attraverso lotte concrete e vittorie sul campo. So cosa staranno ora pensando alcuni compagni: “in Italia è dal 1975 che siamo messi molto male, su questo punto specifico”, e hanno ragione, almeno a mio avviso;
4) lottino per migliorare le condizioni di vita materiali culturali delle masse popolari e dei produttori diretti, ottenendo a loro vantaggio il massimo possibile in base ai rapporti di forza politico-sociali e al livello di sviluppo delle forze produttive esistenti;
5) siano continuamente attaccati dalla borghesia, oltre che circondati dall’ostilità politica e ideologica-culturale della borghesia mondiale e dei suoi mandatari politici, socialdemocrazia inclusa;
6) promuovano con una propaganda a livello di massa, oltre a forme di azioni più concrete, sia l’internazionalismo proletario che la lotta contro l’imperialismo e le sue aggressioni/mire strategiche, non aderendo o appoggiando le alleanze imperialistiche;
7) promuovano a livello di massa i “quattro anti”, e cioè:
– antifascismo;
– antimperialismo (lotta allo sfruttamento/dominio su scala mondiale);
– antirazzismo (ivi compresa la lotta contro l’antisemitismo e il sionismo);
– antisessismo (lotta contro lo sciovinismo maschilista, ecc.);
8) esprimano dei dirigenti preparati e determinati sul piano politico e ideologico, provenienti dal processo produttivo e che si impegnino con continuità nell’azione politica e teorica, non godendo di netti ed evidenti privilegi materiali rispetto a un lavoratore qualificato del loro paese;
9) siano in grado di esprimere una reale unità di azione e di direzione al loro interno e di effettuare una seria autocritica rispetto agli errori già commessi, individuandone le cause e rimediando con rapidità ad esse, come sottolineò Lenin nel 1920 nel suo “Estremismo, malattia infantile del comunismo”;
10) sappiano affrontare e risolvere con successo e spirito creativo i nuovi problemi, le nuove contraddizioni e sfide che vengono via via presentate dalla dinamica costante del processo storico (si pensi a Lenin e ai bolscevichi rispetto alla nuova era dell’imperialismo, della rivoluzione proletaria e della controrivoluzione borghese);
11) riescano a conquistare il consenso almeno delle sezioni più avanzate della classe operaia, delle masse popolari e dei giovani del loro paese;
12) sussista una linea di continuità e di persistenza storica (il “fattore tempo”), sia nella loro riproduzione politico-materiale che nel grado di successo nell’affrontare le questioni proposte in precedenza.
Ora, solo la combinazione dialettica e simultanea tra tutti i criteri indicati può fornire al dubbio “cartesiano” sulla fiducia/non fiducia una risposta di matrice marxiana, permettendo pertanto di “dubitare del dubbio” (Marx): un solo criterio sicuramente non basta, e a tale scopo serve un processo di verifica incrociata con molti passaggi/analisi sulla praxis di un determinato partito e/o stato. In ogni caso almeno a mio avviso, i primi quattro criteri presentati (diffusione tra le masse dell’identità comunista e della concezione leninista, lotta efficace per conquistare/difende-re il potere, successo nell’azione tesa ad accumulare forze e azione di massa efficace nel migliorare le condizioni di vita delle masse popolari), risultano i principali strumenti utilizzabili, ma anche i rimanenti acquisiscono un certo spessore e valore intrinseco, sia sul piano direttamente politico che su quello teorico.
Dobbiamo passare ad applicare tali fonti, tali criteri oggettivi di fiducia/sfiducia anche all’analisi della sinistra antagonista italiana, dei partiti comunisti operanti nel nostro paese? Meglio di no, compagni, perché ho paura che in questo momento il risultato finale diventerebbe negativo e demoralizzante per i militanti comunisti: è preferibile quindi analizzare lidi e collocazioni geopolitiche attualmente più felici, nel caso specifico la Cina (prevalentemente) socialista sul piano socioproduttivo e politico-sociale.
In primo luogo il partito comunista cinese (PCC) sicuramente si esprime pubblicamente, ripetutamente e davanti a centinaia di milioni di persone della sua area di appartenenza a favore del socialismo e del marxismo, tanto che la situazione della Cina risulta assai chiara sotto questo punto.
Nel gennaio del 2014 il Comitato Centrale del PCC confermò ad esempio la decisione di sviluppare le riforme in Cina “sotto la grande bandiera del socialismo con caratteristiche cinesi, seguendo la guida del marxismo-leninismo del pensiero di Mao Zedong e della teoria di Deng Xiaoping, dell’importante pensiero delle “Tre rappresentanze” e della concezione scientifica dello sviluppo”: tale dichiarazione, emessa il 29 gennaio 2014, venne pubblicizzata attraverso tutti i mass-media cinesi, raggiungendo centinaia di milioni di persone nel gigantesco subcontinente asiatico.
Il 21 luglio del 2014 il Dipartimento organizzativo del PCC ribadì, sempre per fare un altro esempio, che i quadri e i funzionari del governo e del partito “devono tenere ferma la convinzione nel marxismo per evitare di perdersi nei clamori della democrazia occidentale”, sempre in un atto pubblico e conosciuto (attraverso la stampa e le televisioni) da centinaia di milioni di cinesi; il 23 dicembre del 2013, commentando i 120 anni dalla nascita del grande comunista Mao Zedong, sull’importantissimo “Quotidiano del Popolo” il segretario generale del PCC Xi Jinping, sottolineò altresì l’importanza decisiva del pensiero-praxis di Mao sia per il processo di sviluppo creativo del marxismo che per la “sinizzazione” del marxismo, oltre a ribadire che gli “errori commessi non tolgono niente alla grandezza di Mao e ai suoi contributi” alla causa del comunismo: parole testuali di Xi Jinping, conosciute da centinaia di milioni di cinesi.
Gli esempi in questo senso potrebbero essere facilmente moltiplicati a dismisura: mi limito solo a far notare che il 7 settembre 2012, sempre il Quotidiano del Popolo pubblicò un articolo in cui si sottolineava con evidente soddisfazione che “il leninismo è ancora importante in Cina”, davanti alle decine di milioni di suoi lettori (“Leninism still relevant to China: CPC Think tank”, in english.peopledaily.com.cn, 27 settembre 2012), oppure che all’inizio del 2015 sempre il compagno Xi Jinping ha evidenziato l’importanza del materialismo dialettico e del suo uso creativo per il PCC.
Passando invece al secondo criterio di verifica della praxis, penso che nessuno al mondo abbia dubbi sul fatto che in Cina vi sia dal 1949 ad oggi un’egemonia solida del partito comunista cinese sul piano politico-sociale, che dura ormai da più di 65 anni.
Sul piano socioproduttivo e rispetto ai rapporti sociali di produzione, basta invece sottolineare che dai dati forniti nel luglio del 2014 dalla rivista USA “Fortune”, arciborghese e ipercapitalistica, rispetto alle 500 più grandi imprese cinesi emerge con chiarezza come le prime 10 imprese della classifica cinese siano tutte di proprietà … pubblica, statale: tutte e dieci, senza eccezioni. (“Top 10 companies in China all state owned”, 14 luglio 2014, in China.org.cn - China news, weather, business, travel & language courses).
Un sito anticomunista, il “World Crunch”, notò a sua volta con disgusto come nel 2013 ben 85 imprese cinesi risultassero inserite nella lista di Fortune sulle 500 più grandi imprese a livello mondiale (su scala planetaria, si noti bene…), e che proprio tra le 85 “big” della Cina Popolare “il 90%” – quindi nove decimi – “sono imprese statali”, e cioè ben “77 su 85”. (“Why more chinese firm on the Fortune 500 is bad news for China”, 24 luglio 2013).
Sono dati forniti da fonti anticomuniste, rivista Fortune in testa, ma che non si trovano invece nelle riviste, nei quotidiani e nei siti che in Italia si autodefiniscono comunisti, a partire dal “Manifesto”, a parte rare ma isolate eccezioni.
Sui siti e sulle riviste “antagoniste” italiane e occidentali non troverete quasi mai ad esempio un’altra notizia eclatante: e cioè che la rivista anticomunista Fortune ha ammesso che le banche cinesi inserite nel luglio del 2014 nella sua classifica sulle 500 aziende cinesi risultano tutte di proprietà statale, mentre tali istituti finanziari pubblici, statali e collettivi, hanno ottenuto la metà dei profitti totali dei 500 “big” della Cina Popolare. Una massa formidabile di profitti per la collettività e che ammonta a 205 miliardi di dollari, pari a più di un decimo dell’intero prodotto interno lordo dell’Italia nel 2013. (“Top 10 companies in China all state owned”, 14 Luglio 2014).
Sempre sui mass-media occidentali, anche di sinistra, non troverete quasi mai la notizia che tra le prime 20 aziende cinesi, ben 19 (diciannove) nel 2014 risultavano di proprietà statale.
Quelli citati sono “fatti testardi” (Lenin), ma ancora oggi troppi compagni in buona fede non ne sono a conoscenza, con inevitabili e negative ricadute politiche sulla già disastrata sinistra antagonista italiana.
Rispetto al terzo criterio, quello dell’accumulazione di forze e della modifica a favore del socialismo della correlazione di potenza interna/internazionale, credo che molti compagni sappiano che la Banca Mondiale (non il PCC) nell’aprile del 2014 ha pubblicato uno studio in cui – a fatica – essa ammise che nel corso del 2014 la Cina Popolare sarebbe diventata la prima potenza economica mondiale, scavalcando e superando gli Stati Uniti; e credo altresì che tutti i compagni siano a conoscenza della disastrosa situazione economico-sociale della Cina nel 1948, prima che il PCC guidato da Mao Zedong prendesse il potere.
Anche in questo campo decidono i “fatti testardi”, tanto apprezzati da Lenin: decidono fatti testardi quali, ad esempio, il dato clamoroso per cui dal giugno del 2013 fino ad oggi il più veloce supercomputer al mondo, il Thiane-2, risulta cinese e non è statunitense.
Per quanto riguarda invece la lotta e la praxis collettiva tesa al miglioramento concreto delle condizioni di vita materiali e culturali degli operai, dei contadini e delle masse popolari cinesi, il PCC del 1977 fino ad oggi ha ottenuto risultati clamorosi e successi ed eclatanti, ammessi persino da alcuni commentatori anticomunisti occidentali. Prendiamo ad esempio un libro di Fareed Zakarìa, sicuro anticomunista, intitolato “L’era post-americana”, nel quale l’autore ammise che dal 1976 il potere d’acquisto reale dei cinesi risultava aumentato come minimo di 6 (sei!) volte e nel giro di poco più di tre decenni, mentre a sua volta un politico conservatore e borghesissimo come Henry Kissinger ha ammesso a malincuore che “la Cina ha ottenuto risultati eccezionali sul piano economico”.
Basta ricordare, come ulteriore fatto testardo, che anche nel 2014 è continuata in Cina la politica governativa tesa ad aumentare annualmente, in modo costante e assai sensibile, i salari minimi dei lavoratori provocando in tal modo un incremento a catena del potere di acquisto reale di tutti i produttori diretti, delle città e delle campagne cinesi.
Rispetto invece alla posizione e alla proiezione su scala internazionale di Pechino, risulta chiaro che la Cina popolare:
– non fa parte della NATO e del blocco occidentale, ma anzi subisce un lungo embargo sulle armi militari da parte degli USA che è iniziato dopo il giugno 1989 e che dura fino ad ora;
– è in ottimi rapporti, dal 1988, con Cuba socialista;
– è dal 1949 in ottime relazioni con la Corea del Nord, un’altra “parìa” rispetto ai “nobili e disinteressati” occhi occidentali;
– dal 1999 ha contribuito a creare il patto di Shanghai e il BRICS, due alleanze politiche nelle quali non sono presenti le potenze occidentali;
– dal 1999 ha creato via via delle relazioni di alleanza strategica con la Russia di Putin, un’altra “parìa” nella vorace e feroce visione dell’imperialismo occidentale;
– dal 1999 ha costituito eccellenti rapporti con il Venezuela chavista, che si stanno via via anche rafforzando con il compagno Maduro;
– si è opposta, nell’agosto del 2013, alla minaccia di intervento imperialista in Siria;
– ha ottime relazioni con l’Iran, invece sottoposto all’embargo occidentale;
– ha costituito rapporti economici e politici reciprocamente vantaggiosi con le nazioni africane, a partire dal Sudafrica del comunista Nelson Mandela, visti come un vero e proprio “fumo negli occhi” dalle potenze imperialistiche occidentali;
– ha costituito ottime relazioni con quasi tutte le nazioni dell’America latina, viste come un vero e proprio fumo negli occhi dall’imperialismo statunitense.
Viste tali interconnessioni, non risulta certo casuale che la Cina (prevalentemente) socialista non sia molto amata dai circoli dirigenti occidentali e del Giappone, tanto che da parte di questi ultimi – oltre che da gran parte della disastrosa e disastrata “sinistra occidentale” – sono state espresse continuamente delle simpatie e appoggi politici (e finanziari) per l’ex-feudatario (fortunatamente espropriato) Dalai Lama, per i separatisti e integralisti islamici del terrorismo dello Xinjiang, per le forze che a Taiwan e Hong Kong lavorano contro il processo di riunificazione della Cina, oltre che ovviamente per il dissenso anticomunista all’interno del subcontinente cinese.
La Cina Popolare non risulta molto amata nei circoli dirigenti occidentali, come del resto in quelli della cosiddetta “sinistra”, che a volte si autodefinisce antagonista.
Nei confronti del settimo criterio, l’antimperialismo e l’antifascismo fanno parte del codice genetico politico della Cina contemporanea, visto che dal 1839 (dalla famigerata “Guerra dell’Oppio” anglofrancese) fino al 1948 essa ha dovuto sopportare una serie di interminabili e sanguinose aggressioni straniere, tra cui emerge il tentativo di conquista del territorio cinese da parte del fascismo nipponico, capace di provocare venti milioni di morti in Cina tra il 1931 e il 1945: un Giappone in cui i leader vanno attualmente in pellegrinaggio, anche nel 2014, in un famigerato cimitero nel quale sono onorati anche dei feroci criminali di guerra nipponici, protagonisti delle aggressioni dell’imperialismo del Sol Levante contro molti popoli asiatici, a partire da quello cinese.
Il popolo e il governo cinese, inoltre, nutrono una tradizionale e ipergiustificata ripugnanza dello sciovinismo razzista, spesso impiegato in terra occidentale contro i “gialli”, come ad esempio avvenne negli Stati Uniti: la patria del Ku Klux Klan e di atti bestiali di razzismo come quelli che, nell’agosto del 2014, hanno insanguinato Ferguson, un ghetto prevalentemente abitato dagli afroamericani e collocato nel Missouri.
Per quanto riguarda invece le capacità politiche e umane dei nuovi dirigenti del PCC, a partire dal compagno Xi Jinping, esse risultano ammesse persino dagli avversari più intelligenti di Pechino, come del resto la capacità autocritica (ad esempio rispetto ai gravi errori commessi durante la “Rivoluzione culturale” del 1966-1976), l’unità d’azione e lo spirito rinnovatore e creativo espresso via via dal comunismo cinese dal 1977 ad oggi, con rare eccezioni.
Non è casuale che il PCC sia divenuto il partito più numeroso al mondo, forte di ben 87 milioni di iscritti e reale espressione politico-sociale degli operai, contadini e intellettuali più avanzati del paese asiatico: un partito che dal 1921 ad oggi, per quasi un secolo, ha tracciato una precisa “linea rossa” ben apprezzata (pur con i suoi inevitabili difetti e limiti) dalle masse popolari cinesi e da sezioni sempre più estese dei comunisti occidentali: una “linea rossa” in cui emerge la reiterata e dichiarata fedeltà all’obiettivo finale del comunismo sviluppato, nel 1921 come nel 2015. E “un albero lo si vede dai suoi frutti”, dai suoi risultati, in Italia come in Cina, almeno secondo il criterio fondamentale del materialismo dialettico elaborato da Marx fin dalle sue Tesi su Feuerbach del lontano 1845.

http://www.lacinarossa.net/fiducia-nel-partito-comunista-cinese-di-roberto-sidoli/