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    Predefinito Lettere d'addio, di rabbia e altri scritti

    Nel 1950 Alfred Hitchcock aveva assunto lo scrittore Raymond Chandler per scrivere la sceneggiatura del suo prossimo progetto, L’altro uomo, un thriller basato su un romanzo di Patricia Highsmith. Quasi immediatamente le loro idee si erano scontrate e in poco tempo il loro rapporto di lavoro si era deteriorato in modo irreparabile.
    Chandler fu lasciato andare via e i suoi progetti furono in gran parte eliminati. In seguito, dopo aver letto il copione definitivo, lo scrittore scrisse una lettera molto arrabbiata indirizzata a Hitchcock.

    Caro Hitch,
    a dispetto del tuo grande e generoso disprezzo verso le mie comunicazioni sul tema del copione di L’altro uomo e della tua incapacità di fare qualsiasi commento su di esso, e nonostante non abbia sentito una parola da te da quando ho iniziato la stesura dell’attuale sceneggiatura – per tutto questo potrei dire che non porto rancore, dal momento che questo tipo di procedura sembra essere parte della normale pratica depravata hollywoodiana – nonostante questo e nonostante questa frase estremamente ingombrante, sento che dovrei, giusto per la cronaca, inviarti un paio di commenti su quello che è definito il copione definitivo. Posso capire che tu non approvi il mio copione in questo o in quel punto, pensando che una scena o un’altra sia troppo lunga o un passaggio o l’altro sia troppo macchinoso. Posso capire che tu cambi idea sulle cose che hai specificamente voluto, perché alcuni di questi cambiamenti potrebbero essere stati imposti dall’esterno. Quello che proprio non riesco a capire è come tu possa permettere che un copione che dopo tutto aveva un po’ di vita e di vitalità venga ridotto a una tale massa flaccida di clichés, a un gruppo di personaggi senza volto, a un tipo di dialoghi che a ogni sceneggiatore viene insegnato di non scrivere – di quelli che dicono tutto due volte e non lasciano nulla di implicito all’attore o alla fotocamera. Naturalmente devi avere avuto le tue ragioni ma, per usare una frase di Max Beerbohm, ci vorrebbe una “mente molto meno brillante della mia” per indovinare quali fossero.
    Indipendentemente dal fatto che il mio nome appaia sullo schermo tra i crediti, non ho paura che qualcuno penserà che io ho scritto questa roba. Sapranno dannatamente bene che non l’ho fatto. Non l’avrei pensato alla fine se tu avessi prodotto un migliore sceneggiatura – credimi. Non l’avrei pensato. Ma se volevi qualcosa di scritto con il latte scremato, per quale motivo ti sei preso la briga di venire da me? Che spreco di soldi! Che spreco di tempo! Non è una risposta dire che ero ben pagato. Nessuno può essere adeguatamente pagato per sprecare il proprio tempo.

    Raymond Chandler

    ______________

    Il nome di Milada Horáková oggi non è più famoso come un tempo, ma la sua vita e la sua testimonianza meriterebbero libri e film. Praghese, nata nel 1901, già nel 1916 fu espulsa dal liceo per la sua propaganda pacifista, aderendo, dopo la laurea in Giurisprudenza, al Partito Socialista. Si sposò con un compagno di partito nel ’27 e divenne madre di Jana nel ’34.
    Quando la Cecoslovacchia fu occupata dai tedeschi divenne uno dei capi della Resistenza; arrestata dalla Gestapo, fu condotta in vari campi di concentramento e prigionia, venendo liberata nel maggio del ’45. Venne eletta nel primo Parlamento libero ma, dopo il colpo di stato comunista del ’48, molti la invitarono a lasciare il paese, cosa che lei non volle fare, opponendosi al nuovo regime.
    Arrestata per cospirazione e spionaggio nel ’49, fu processata pubblicamente con accuse pretestuose e preconfezionate e, nonostante la sua grande dignità durante il dibattimento e gli appelli di molte personalità internazionali (Einstein, Churchill, Eleanor Roosevelt e altri), fu condannata a morte per impiccagione, condanna eseguita il 27 giugno 1950. Lasciò alcune lettere, la più importante è quella scritta per l’allora sedicenne figlia Jana.

    Mia unica piccola ragazza Jana,
    Dio ha benedetto la mia vita di donna dandomi te. Come tuo padre scrisse in una poesia da una prigione tedesca, Dio ti ha data a noi perché ci amava. Escludendo il magico, straordinario amore di tuo padre, tu sei stata il più grande dono che ho ricevuto dal fato. Ad ogni modo, la Provvidenza ha pianificato la mia vita in un modo che non mi consentirà di darti tutto quello che la mia mente e il mio cuore avevano preparato per te. Il motivo non è che ti ho amata poco; ti ho amata altrettanto puramente e con lo stesso fervore con cui le altre madri amano i loro figli. Ma ho compreso che il mio compito in questo mondo era fare il tuo bene mostrandoti che la vita migliora, e che tutti i bambini possono vivere bene. E pertanto abbiamo dovuto essere spesso separate a lungo. Questa è già la seconda volta che il fato ci divide. Non essere spaventata e triste per il fatto che non tornerò più. Impara, mia bimba, a guardare da presto alla vita come a una questione importante.
    La vita è dura, non coccola nessuno, e ogni volta in cui ti colpisce ti assesta dieci colpi. Abituatici presto, ma non lasciare che ti sconfigga. Decidi di combattere. Abbi coraggio e obiettivi chiari e vincerai sulla vita. Molto è ancora nascosto alla tua giovane mente, e non mi è rimasto tempo per spiegarti cose che a te piacerebbe ancora chiedermi. Un giorno, quando sarai cresciuta, ti chiederai e richiederai perché tua madre, che ti ha amata e di cui eri il dono più grande, ha condotto la sua vita in maniera così strana. Forse allora troverai la giusta soluzione a questo problema, forse una migliore di quella che io oggi posso dare a me stessa. Certo, riuscirai a risolverlo correttamente e in maniera affidabile solo conoscendo molto. Non solo dai libri, ma dalle persone; impara da tutti, anche da quelli che non contano!
    Gira il mondo con occhi aperti, e ascolta non solo i tuoi dolori ed interessi, ma anche i dolori, gli interessi e i desideri degli altri. Non pensare mai che qualcosa non ti riguardi. No, tutto ti deve interessare, e tu dovresti riflettere su tutto, confrontare, comporre fenomeni individuali. L’uomo non vive nel mondo da solo; in questo c’è una grande felicità, ma anche una tremenda responsabilità. Questo obbligo consiste prima di tutto nel non essere e non agire in maniera esclusiva, ma piuttosto fondendosi con i bisogni e gli obiettivi degli altri. Questo non significa perdersi nella moltitudine, ma sapere che si è parte del tutto, e per portare il meglio che uno può dare alla comunità. Se farai questo, riuscirai a contribuire agli obiettivi comuni della società umana. Sii più conscia di quanto non sia stata io di un principio: avvicinati a tutto nella vita in maniera costruttiva e diffida di chi dice no senza necessità (non sto parlando di tutti i no, perché credo che si dovrebbe dir no al male). Ma per essere una persona veramente positiva in tutte le circostanze, si deve imparare come distinguere il vero oro dalla bigiotteria. È difficile, perché la bigiotteria a volte brilla in maniera abbagliante. Confesso, figlia mia, che spesso nella mia vita sono stata abbagliata dalla bigiotteria. E qualche volta brilla in maniera così falsa che si lascia cader di mano l’oro puro e si corre dietro al falso oro. Sai che organizzare bene la propria scala di valori significa non solo conoscersi bene, essere fermi nell’analisi del proprio carattere, ma principalmente conoscere gli altri, conoscere il più possibile del mondo, il suo passato, presente e futuro sviluppo.
    Ebbene, in breve: conoscere, capire. Non chiudere le orecchie davanti a nulla e per nessun motivo, nemmeno zittire i pensieri e le opinioni di qualcuno che mi ha pestato i piedi o che mi ha ferito profondamente. Esamina, pensa, critica, sì, principalmente critica te stessa, non aver paura di ammettere una verità che hai compreso, anche se avevi proclamato l’opposto fino a un attimo prima; non diventare ostinata sulle tue opinioni, ma quando arrivi a considerare giusta una cosa, allora sii così determinata da combattere e morire per essa. Come ha detto Wolker, la morte non è male. Solo bisogna evitare la morte graduale, che è ciò che accade quando uno si scopre staccato dalla vera vita degli altri. Devi mettere radici dove il fato ha stabilito di farti vivere. Devi trovare la tua strada. Cercala da sola, non lasciare che nessuno ti distragga da essa, nemmeno la memoria di tua madre e di tuo padre. Se davvero li ami, non farli soffrire guardandoli con occhio critico; solo non andare per una strada che è sbagliata, disonesta e non si armonizza con la tua vita. Ho cambiato idea molte volte, riclassificato molti valori, ma, quel che resta come valore essenziale, senza il quale non potrei immaginare la mia vita, è la libertà di coscienza. Vorrei che tu, mia piccola ragazza, pensassi se ho avuto ragione oppure no.
    La morte significava ben poco per me. Era l'ultimo scherzo in una serie di pessimi scherzi. Charles Bukowski
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    Predefinito Re: Lettere d'addio, di rabbia e altri scritti

    A chi non è capitata qualche noia ai controlli in aeroporto? C’è sempre quella cosa non permessa a bordo e che avete in valigia…certo, poi ci sono casi eccezionali, come quello di Paul McCartney.
    Il 16 gennaio 1980 gli agenti della dogana giapponese trovarono nella valigia del bassista dei Beatles una grandissima quantità di cannabis, il che provocò alla star 10 giorni di carcere a Tokyo. 5 giorni dopo l’arresto, il ministro della giustizia di Tokyo ricevette una bizzarra lettera in difesa di McCartney, scritta dalla leggenda del reggae Lee “Scratch” Perry. Probabilmente non fu molto apprezzata. In ogni caso, alla star britannica, al rilascio, fu intimato di non mettere mai più piede in Giappone.

    Cari signori,
    io, Lee Pipecock Jackson Perry, vorrei sentitamente esprimere la mia preoccupazione riguardo al vostro ritenere 250 grammi di erba un “quantitativo eccessivo”, soprattutto considerando che in questo caso è di proprietà del maestro Paul McCartney.
    Per un fautore dell’amore della Natura, della luce, della vita e di tutte le cose al di sotto del Sole Creatore, dei sentimenti positivi attraverso la musica, del divertimento e della tranquillità, ritengo che le capacità erbali della marijuana – come è noto – nel rilassare, calmare e generare sentimenti positivi siano indispensabili allo scopo.
    L‘Erba è al servizio di Sua Maestà. Vi prego di non considerare la quantità di erba coinvolta come “eccessiva”.
    Le intenzioni del maestro Paul McCartney sono buone.
    La morte significava ben poco per me. Era l'ultimo scherzo in una serie di pessimi scherzi. Charles Bukowski
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  3. #3
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    Predefinito Re: Lettere d'addio, di rabbia e altri scritti

    Nel 1969 l’editore John Martin si offrì di pagare Charles Bukowski 100 dollari al mese per il resto della sua vita a una condizione: che lasciasse il lavoro presso l’ufficio postale e diventasse uno scrittore. Bukowski accettò, e nel 1971 il suo primo romanzo, Post Office, fu pubblicato dalla Black Sparrow Press di John Martin.
    15 anni dopo Bukowski scrive una lettera al Martin in cui descrive la gioia di essere scampato da un lavoro a tempo pieno.

    Ciao John,
    Grazie per la tua bella lettera. Non credo che faccia male, a volte, ricordare da dove si viene. Tu conosci i luoghi da dove vengo. Anche le persone che cercano di scrivere o fare film su questi luoghi, non riescono a farlo nel modo giusto. Lo chiamano “dalle 9 alle 5″. Ma non è mai 9-5, non c’è nessuna pausa per il pranzo in questi posti e alla fine molti, per mantenere il posto, rinunciano alla pausa. Poi ci sono gli straordinari, che non vengono mai registrati e se ti lamenti c’è sempre un altro fottuto bastardo pronto a prendere il tuo posto.
    Tu conosci il mio vecchio detto, “La schiavitù non è mai stata abolita, è stato solo estesa fino a includere tutti i colori della pelle”.
    Ciò che fa male è la sempre più costante diminuzione di umanità di coloro che lottano per mantenere un lavoro che non vogliono, temendo un’alternativa peggiore. La gente semplicemente si svuota. Sono corpi con menti impaurite e obbedienti. Gli occhi non hanno più colore. Hanno una voce brutta e minacciosa. E il corpo. I capelli. Le unghie. Le scarpe. È tutto così.
    Da giovane non riuscivo a credere che le persone potessero ridursi a vivere in queste condizioni. Da vecchio, non riesco ancora a crederci. Per quale motivo lo fanno?Sesso? Una TV? Un’automobile a rate? O i figli? Bambini che faranno le stesse cose che hanno fatto loro?
    All’inizio, quando ero molto giovane e passavo da un lavoro all’altro, ero anche abbastanza pazzo da dire ai miei compagni di lavoro a volte: “Ehi , il capo può venire qui in qualsiasi momento e buttarci tutti fuori, proprio così, non riuscite a capire?”
    Bastava che guardassero me. Gli stavo mettendo davanti agli occhi qualcosa che proprio non volevano far entrare nelle loro menti.
    Ora nell’industria ci sono vasti licenziamenti (le acciaierie sono morte, modifiche tecniche in altri fattori del posto di lavoro). Centinaia di migliaia di persone sono state tagliate fuori e i loro volti sono stupiti:
    “Ho 35 anni… ” “Non è giusto… ” “Non so cosa fare… ”
    Non pagano mai abbastanza gli schiavi affinché possano essere liberi, solo un poco al punto che si sentano vivi e possano tornare a lavorare. Io riesco a capire tutto questo. Perché loro non riescono? Allora ho pensato che stare su una panchina o essere un ubriacone andasse bene ugualmente. Perché non arrivarci da solo prima che mi ci facciano arrivare loro? Perché aspettare?
    Ho già scritto disgustato contro tutto ciò, è stato un sollievo per me buttare fuori la merda dal mio sistema. E ora che sono qui, un cosiddetto scrittore professionista, a tanti anni di distanza e dopo aver buttato i primi 50 anni della mia vita, ho scoperto che ci sono tante altre cose disgustose dietro il sistema. Ricordo che una volta, lavorando come imballatore per un azienda di illuminazione, uno degli operai improvvisamente esclamò: “Non sarò mai libero!”.
    Uno dei capi che passava di lì (il suo nome era Morrie) si lasciò sfuggire una deliziosa risata, godendo del fatto che questo tizio sarebbe rimasto intrappolato per tutta la vita. Per questo, la fortuna che ho avuto di uscire alla fine da questi posti, non importa quanto tempo ci sia voluto, mi ha dato una specie di gioia, la gioiosa allegria del miracolo. Ora scrivo con la mente e il corpo di un uomo vecchio, ben oltre il momento in cui la maggior parte degli uomini avrebbe pensato di poter fare una cosa del genere, ma poiché ho iniziato così tardi devo andare avanti, e proprio quando le parole iniziano a vacillare e devo essere aiutato a salire le scale e non riesco più a distinguere un uccello azzurro da una graffetta, sento che ancora qualcosa in me riesce a ricordare (non importa quanto lontano sia arrivato) come ho scampato l’omicidio e il delirio e le sfacchinate, per avere almeno una morte dignitosa.
    Non avere del tutto sprecato la vita mi sembra un buon risultato, fosse anche solo per me stesso.
    Il tuo ragazzo,
    Hank
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    Predefinito Re: Lettere d'addio, di rabbia e altri scritti

    Le lettere (mai arrivate) che Gandhi scrisse a Hitler - Bergamo Post

    23 luglio del 1939

    Caro amico,


    alcuni amici mi hanno chiesto con insistenza di scriverle una lettera per il bene dell’umanità. Io ho resistito alla richiesta, a causa della sensazione che qualunque lettera da parte mia sarebbe stata interpretata come un atto di impertinenza.

    Tuttavia, qualcosa mi spinge a fare lo stesso un tentativo, qualunque valore esso possa avere. E’ evidente che lei oggi è l’unica persona al mondo che possa scongiurare una guerra che potrebbe riportare l’umanità ad uno stato selvaggio. E’ disposto a pagare questo prezzo per raggiungere il suo obiettivo, qualunque valore questo obiettivo possa avere per lei? Ascolterà l’appello di uno che ha deliberatamente rinnegato il metodo della guerra, non senza considerevoli risultati?

    In ogni caso le anticipo le mie scuse se in qualche modo ho sbagliato decidendo di scriverle.

    Sinceramente vostro,

    M. K. Gandhi


    24 dicembre 1940

    Caro amico,


    se vi chiamo amico, non è per formalismo. Io non ho nemici. Il lavoro della mia vita da più di trentacinque anni è stato quello di assicurarmi l’amicizia di tutta l’umanità, senza distinzione di razza, di colore o di credo. Spero che avrete il tempo e la voglia di sapere come una parte importante dell’umanità che vive sotto l’influenza di questa dottrina di amicizia universale considera le vostre azioni. Non dubitiamo della vostra bravura e dell’amore che nutrite per la vostra patria e non crediamo che siate il mostro descritto dai vostri avversari. Ma i vostri scritti e le vostre dichiarazioni, come quelli dei vostri amici e ammiratori, non permettono di dubitare che molti dei vostri atti siano mostruosi e che attentino alla dignità umana, soprattutto nel giudizio di chi, come me, crede all’amicizia universale. È stato così con la vostra umiliazione della Cecoslovacchia, col rapimento della Polonia e l’assorbimento della Danimarca. Sono consapevole del fatto che, secondo la vostra concezione della vita, quelle spoliazioni sono atti lodevoli.

    Ma noi abbiamo imparato sin dall’infanzia a considerarli come atti che degradano l’umanità. In tal modo non possiamo augurarci il successo delle vostre armi. Ma la nostra posizione è unica. Noi resistiamo all’imperialismo britannico quanto al nazismo. Se vi è una differenza, è una differenza di grado. Un quinto della razza umana è stato posto sotto lo stivale britannico con mezzi inaccettabili. La nostra resistenza a questa oppressione non significa che noi vogliamo del male al popolo britannico. Noi cerchiamo di convertirlo, non di batterlo sul campo di battaglia. La nostra rivolta contro il dominio britannico è fatta senza armi. Ma che noi si riesca a convertire o meno i britannici, siamo comunque decisi a rendere il loro dominio impossibile con la non cooperazione non violenta. Si tratta di un metodo invincibile per sua natura.

    Si basa sul fatto che nessun sfruttatore potrà mai raggiungere il suo scopo senza un minimo di collaborazione, volontaria o forzata, da parte della vittima, I nostri padroni possono possedere le nostre terre e i nostri corpi, ma non le nostre anime. Essi non possono possedere queste ultime che sterminando tutti gli indiani, uomini, donne e bambini. E’ vero che tutti non possono elevarsi a tale grado di eroismo e che la foza può disperdere la rivolta, ma non è questa la questione. Perché se sarà possibile trovare in India un numero conveniente di uomini e di donne pronti, senza alcuna animosità verso gli sfruttatori a sacrificare la loro vita piuttosto che piegare il ginocchio di fronte a loro, queste persone avranno mostrato il cammino che porta alla liberazione dalla tirannia violenta. Vi prego di credermi quando affermo che in India trovereste un numero inaspettato di uomini e donne simili. Essi hanno ricevuto questa formazione da più di vent’ anni.

    Con la tecnica della non violenza, come ho detto, la sconfitta non esiste. Si tratta di un «agire o morire senza uccidere nè ferire. Essa può essere utilizzata praticamente senza denaro e senza l’aiuto di quella scienza della distruzione che voi avete portato a un tale grado di perfezione. Io sono stupito dal fatto che voi non vediate come questa non sia monopolio di nessuno. Se non saranno i britannici, sarà qualche altra potenza a migliorare il vostro metodo e a battervi con le vostre stesse armi. Non lascerete al vostro popolo un’eredità di cui potrà andare fiero. Non potrà andare orgoglioso raccontando atti crudeli, anche se abilmente preparati. Vi chiedo dunque in nome dell’umanità di cessare la guerra. In questa stagione in cui i cuori dei popoli d’Europa implorano la pace, noi abbiamo sospeso anche la nostra stessa lotta pacifica. Non è troppo chiedervi di fare uno sforzo per la pace in un momento che forse non significherà nulla per voi, ma che deve significare molto per i milioni di europei di cui io sento il muto clamore per la pace, perché le mie orecchie sono abituate a sentire le masse silenziose.

    Avevo intenzione d’indirizzare un appello congiunto a voi e al signor Mussolini, che ho avuto l’onore di incontrare all’epoca del mio viaggio in Inghilterra come delegato alla Conferenza della tavola rotonda. Spero che egli vorrà considerare questo come se gli fosse stato indirizzato, con i necessari mutamenti.

    M. K. Gandhi
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    Predefinito Re: Lettere d'addio, di rabbia e altri scritti

    Alexandre Dumas non solo era un grande drammaturgo, scrittore e appassionato di musica, ma anche un buongustaio e uno chef di prim’ordine. Nel suo carteggio con Eugenio Torelli salta all’occhio questa lunga lettera, che racconta di un’avventura nel deserto nordafricano nel 1835. Fu in quell’occasione che assaggiò una ricetta formidabile…


    […] Il primo giorno, facemmo una sosta a metà percorso e comperai un montone per sei franchi; il montone lo regalai agli arabi. Mi preparavo a cenare, per parte mia, con delle uova nel pilau e fichi d’india, quando, girando lo sguardo verso le mie guide, le vidi preparare il montone in un modo che catturò la mia attenzione.

    L’avevano, innanzi tutto, sgozzato nel nome di Maometto; dopo di che, senza scuoiarlo, gli avevano aperto il ventre, ne avevano estratto gli intestini, e, lasciandogli il fegato e i rognoni, avevano introdotto, attraverso l’apertura dell’adipe, sale e aromi, pepe, fichi secchi e uva passa.
    Dopodiché gli avevano ricucito accuratamente il ventre.
    Durante quest’operazione, gli altri avevano scavato un buco in terra, l’avevano rivestito di pietre piatte, l’avevano riempito di sterpaglia secca e avevano dato fuoco alla sterpaglia; la sterpaglia s’era trasformata in un letto di brace.
    Su questo letto di brace, gli arabi adagiarono il montone senza preoccuparsi del pelo.
    Poi lo ricopersero di altra sterpaglia secca, cui appiccarono fuoco.
    Le sterpaglie secche divennero a loro volta brace.
    Il montone si trovò dunque fra due strati di brace, a cuocere come una castagna.
    […] Nel giro di un’ora circa, gli arabi ritennero che il montone fosse arrivato al giusto punto di cottura e lo estrassero dal forno.
    Lo adagiarono su una grande foglia di banano, destinata a fungere da vassoio, e lo raschiarono come un salumiere raschia un maiale appena fiammeggiato.
    Al posto di questo primo strato calcinato e annerito composto di lana – comparve un secondo strato deliziosamente rosolato e colorito.
    Nel giro di un attimo, un sudore untuoso e profumato ricopriva questa pelle.

    Gli arabi mi fecero segno di sedermi con loro: m’invitavano a cena.
    Accettai, il loro montone alla brace mi pareva ben più succulento delle mie uova sode e pollo col riso.
    Ognuno allungò pollice e indice e, come un uccello da preda che fruga col becco, pizzicò e tirò a sé il suo pezzo di carne. Gli arabi del 1835 non conoscevano ancora né coltello né forchetta e, credo, neppure gli arabi del 1863.
    Devo dire che non ho mai mangiato un montone simile, foss’anche di la Crau o di Présalé; soprattutto il ripieno era una cosa meravigliosa.


    @amerigodumini
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    Predefinito Re: Lettere d'addio, di rabbia e altri scritti

    3 settembre 1977

    Caro Simenon,

    girando in macchina per le valli qui attorno a Chianciano siamo arrivati oggi a Monte Alcino, mitico colle, favoloso almeno quanto lo era l'Olimpo dei greci ai tempi di Omero. Anche qui c'è una divinità: il Brunello di Montalcino, un vino rosso che può competere vantaggiosamente anche con i più celebrati vini francesi.
    Scrivo queste righe nell'ufficio della proprietaria dell'azienda, messo un po' in soggezione dalla valanga di premi, diplomi, medaglie, coppe che mi sovrastano da ogni parte e dalle foto di regnanti, cardinali e famosissimi ubriaconi di ogni parte del mondo con dediche di gratitudine totale. Anche io quindi sono preso un po' nel vortice dell'enfasi. Non m'intendo molto di vino, anzi non me ne intendo affatto, ma questo Brunello assaggiato dinnanzi al paesaggio straordinario della Val d'Orcia mi è sembrato buonissimo.
    Comunque, l'idea di farlo assaggiare a Simenon è stata di Giulietta. Eccolo qua dunque, mi auguro che sia arrivato in buono stato. Brindiamo auguralmente alla felicità dei nostri amici Teresa e Georges. Prosit! Cin-cin! Evviva!

    Federico Fellini


    da p. 62: "Carissimo Simenon Mon cher Fellini", Adelphi 1998

  7. #7
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    Predefinito Re: Lettere d'addio, di rabbia e altri scritti

    Giacomo Leopardi trascorse alcuni mesi a Roma tra il 1822 e il 1823. Nella città eterna il giovane Leopardi si confronta con il mondo squallido e corrotto della società romana, completamente diverso da quello immaginato. Questa lettera alla sorella Paolina è un buon resoconto dell’opinione del poeta su Roma.


    Cara Paolina,
    che cosa volete sapere de’ fatti miei? Se Roma mi piace, se mi diverto, dove sono stato, che vita faccio? Quanto alla prima domanda, non so più che rispondere, perché tutti mi domandano la stessa cosa cento volte il giorno, e volendo sempre variare nella risposta, ho consumato il frasario, e i Sinonimi del Rabbi. Parlando sul serio, tenete per certissimo che il più stolido Recanatese ha una maggior dose di buon senso che il più savio e più grave Romano. Assicuratevi che la frivolezza di queste bestie passa i limiti del credibile. S’io vi volessi raccontare tutti i propositi ridicoli che servono di materia ai loro discorsi, e che sono i loro favoriti, non mi basterebbe un in-foglio. Questa mattina (per dirvene una sola) ho sentito discorrere gravemente e lungamente sopra la buona voce di un Prelato che cantò messa avanti ieri, e sopra la dignità del suo portamento nel fare questa funzione. Gli domandavano come aveva fatto ad acquistare queste belle prerogative, se nel principio della messa si era trovato niente imbarazzato, e cose simili. Il Prelato rispondeva che aveva imparato col lungo assistere alle Cappelle, che questo esercizio gli era stato molto utile, che quella è una scuola necessaria ai loro pari, che non s’era niente imbarazzato, e mille cose spiritosissime. Ho poi saputo che parecchi Cardinali e altri personaggi s’erano rallegrati con lui per il felice esito di quella messa cantata. Fate conto che tutti i propositi de’ discorsi romani sono di questo gusto, e io non esagero nulla. Il materiale di Roma avrebbe un gran merito se gli uomini di qui fossero alti cinque braccia e larghi due. Tutta la popolazione di Roma non basta a riempire la piazza di San Pietro. La cupola l’ho veduta io, colla mia corta vista, a 5 miglia di distanza, mentre io era in viaggio, e l’ho veduta distintissimamente colla sua palla e colla sua croce, come voi vedete di costà gli Appennini. Tutta la grandezza di Roma non serve ad altro che a moltiplicare le distanze, e il numero de’ gradini che bisogna salire per trovare chiunque vogliate. Queste fabbriche immense, e queste strade per conseguenza interminabili, sono tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d’essere spazi che contengano uomini. Io non vedo che bellezza vi sia nel porre i pezzi degli scacchi della grandezza ordinaria, sopra uno scacchiere largo e lungo quanto cotesta piazza della Madonna. Non voglio già dire che Roma mi paia disabitata, ma dico che se gli uomini avessero bisogno d’abitare così al largo, come s’abita in questi palazzi, e come si cammina in queste strade, piazze, chiese; non basterebbe il globo a contenere il genere umano.
    Quanto alla prima domanda siete soddisfatta. Alle altre risponderò con più comodo. Salutate il Papà, baciategli la mano per me, ditegli che ho ricevuto la sua del 29 passato, che eseguirò le sue commissioni circa la contessa Mazzagalli e il padre Trachini, che l’altra circa l’avvocato Fusconi è già eseguita, che il danaro e il panno della Marchesa Roberti è consegnato da più giorni, che io sto bene, e così tutti i miei ospiti, i quali, e in particolare i Zii, salutano lui e la Mamma. Ho ricevuto anche la lettera della Mamma; salutate anche lei, e datele un bacio. Dite a Carlo che qualunque sia il baule di cui parla Luigi, la mia testa non istava sopra il baule: ma che un altro baule, del quale io intendo di parlare, l’ebbi sempre di dietro. A Luigi, a Pietruccio, a Don Vincenzo ec. salute e benedizione. Non ho adempiuto i vostri comandi, ma col tempo si farà tutto. Voglimi bene e sta’ bene.
    Aspetto lettera di Carlo con quest’ordinario, e tua fra una settimana. Addio.
    Marietta ti saluta. Addio.
    La morte significava ben poco per me. Era l'ultimo scherzo in una serie di pessimi scherzi. Charles Bukowski
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  8. #8
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    Predefinito Re: Lettere d'addio, di rabbia e altri scritti

    L'ultima, straziante lettera che Virginia Woolf scrisse al marito Leonard prima del suicidio. Risale al 28 marzo 1841, il giorno in cui si uccise riempendosi le tasche di sassi e lasciandosi annegare nel fiume Ouse, vicino casa, in un villaggio dell'East Sussex.

    Martedì

    Carissimo,

    sento con certezza che sto per impazzire di nuovo. Sento che non possiamo attraversare ancora un altro di quei terribili periodi. E questa volta non ce la farò a riprendermi. Comincio a sentire le voci, non riesco a concentrarmi. Così faccio la cosa che mi sembra migliore. Mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni senso per me tutto ciò che una persona può essere. Non credo che due persone avrebbero potute essere più felici, finché non è sopraggiunto questo terribile male. Non riesco più a combattere. Lo so che sto rovinando la tua vita, che senza di me tu potresti lavorare. E lo farai, lo so. Vedi, non riesco nemmeno a esprimermi bene. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo a te tutta la felicità che ho avuto nella mia vita. Hai avuto con me un’infinita pazienza, sei stato incredibilmente buono. Voglio dirtelo – lo sanno tutti. Se qualcuno avesse potuto salvarmi questo eri tu. Tutto se n'è andato via da me, tranne la certezza della tua bontà. Non posso più continuare a rovinarti la vita.
    Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi.

    V.

  9. #9
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    Predefinito Re: Lettere d'addio, di rabbia e altri scritti

    Un'altra lettera di Giacomo Leopardi sulla sua visita a Roma. Indirizzata al fratello Carlo.

    Roma 20 febbraio 1823

    […]
    Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato in Roma. La strada per andarvi è lunga, e non si va a quel luogo se non per vedere questo sepolcro; ma non si potrebbe anche venire dall’America per gustare il piacere delle lagrime lo spazio di due minuti? È pur certissimo che le immense spese che qui vedo fare non per altro che per proccurarsi uno o un altro piacere, sono tutte quante gettate all’aria, perché in luogo del piacere non s’ottiene altro che noia. Molti provano un sentimento d’indignazione vedendo il cenere del Tasso, coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino d’una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere sotto un mausoleo. Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l’umiltà della sua sepoltura. Ma tu non puoi avere idea d’un altro contrasto cioè di quello che prova un occhio avvezzo all’infinita magnificenza e vastità de’ monumenti romani, paragonandoli alla piccolezza e nudità di questo sepolcro. Si sente una trista e fremebonda consolazione pensando che questa povertà è pur sufficiente ad interessare e animar la posterità, laddove i superbissimi mausolei, che Roma racchiude, si osservano con perfetta indifferenza per la persona a cui furono innalzati, della quale o non si domanda neppur il nome, o si domanda non come nome della persona ma del monumento. Vicino al sepolcro del Tasso è quello del poeta Guidi, che volle giacere prope magnos Torquati cineres, come dice l’iscrizione. Fece molto male. Non mi restò per lui nemmeno un sospiro. Appena soffrii di guardare il suo monumento temendo di soffocare le sensazioni che avevo provate alla tomba del Tasso. Anche la strada che conduce a quel luogo prepara lo spirito alle impressioni del sentimento. È tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de’ telai e d’altri tali istrumenti, e del canto delle donne e degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l’immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili. Anche le fisionomie e le maniere della gente che s’incontra per quella via, hanno un non so che di più semplice e di più umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d’intrigo, d’impostura e d’inganno, come la massima parte di questa popolazione. Lo spazio mi manca: t’abbraccio. Addio addio.

    Sembra scritta ieri e non solo Roma...
    Leopardi piange sulla tomba di Tasso La città scoperta salendo al Gianicolo - la Repubblica.it
    La morte significava ben poco per me. Era l'ultimo scherzo in una serie di pessimi scherzi. Charles Bukowski
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  10. #10
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    Predefinito Re: Lettere d'addio, di rabbia e altri scritti

    Vita Sackville-West a Virginia Woolf




    Venezia, 21 gennaio 1926

    Sono ridotta a una cosa che desidera Virginia. Avevo composto per te una bellissima lettera, nelle ore da incubo della mia notte insonne, ed è sfuggita: mi manchi e basta, in un modo molto semplice, disperato e umano. Tu, con tutte le tue lettere non mute, non scriveresti mai una frase elementare come questa; forse non la sentiresti nemmeno. Tuttavia, credo che ti accorgerai di un piccolo vuoto. Ma lo rivestiresti di una frase tanto squisita che perderebbe un po' della sua realtà. Mentre per me è una cosa fortissima: mi manchi ancor più di quanto credessi: ed ero pronta a sentire la tua mancanza, e molto. Così, in realtà, questa lettera è solo uno strillo di dolore. E' incredibile quanto sei diventata essenziale per me. Suppongo che tu sia abituata a sentirti dire cose del genere. Maledetta te, creatura viziata; non riuscirò a farmi amare di più da te, scoprendomi così — ma oh, mia cara, non posso essere furba e scostante, con te: ti amo troppo per farlo. Troppo sinceramente. Non hai idea di quanto possa essere scostante con la gente che non amo. Ne ho fatta un'arte raffinata. Ma tu hai abbattuto le mie difese. Non che ne sia davvero risentita. Comunque, non ti tedierò oltre.
    Siamo ripartiti, il treno balla di nuovo. Dovrò scrivere dalle stazioni - che per fortuna nella pianura lombarda sono molte.
    Venezia. Le stazioni erano molte, ma non avevo calcolato che l’Orient Express non si ferma. Ed eccoci a Venezia per dieci minuti soltanto, ben poco tempo per tentare di scrivere. Neanche il tempo per comprare un francobollo italiano, quindi dovrò imbucare a Trieste.
    In Svizzera le cascate erano gelate, dure tende di ghiaccio iridescente appese alla roccia; molto bello. E l’Italia tutta ammantata di neve.
    Stiamo per ripartire. Dovrò aspettare fino a Trieste, domattina. Per favore perdonami per aver scritto una lettera così infelice.

    Vita

 

 
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